Francis Upritchard viene da una terra dove il multiculturalismo regna sovrano, dove il primitivo s'intreccia a una recente genesi di luoghi e tradizioni: New Plymouth, un piccolo borgo della Nuova Zelanda. Oggi, questa scultrice neozelandese, vive e lavora a Londra dove ci parla, con la sua arte, di Storia e Costume, di atteggiamenti e momenti dell'uomo e del regno animale che si fondono con le riflessioni filosofiche sul senso dell'esistenza. Utilizza materiali di recupero e sostanze naturali per esprimere l'anima dell'inanimato e regalarci il senso semantico e onirico del finito rispetto all'infinito, del goffo rispetto all'elegante e della grazia come uno stato ineguagliato dall'uomo.

Attraverso la balata, sostanza gommosa estratta da piante brasiliane, bollita e lavorata rapidamente in acqua fredda e altri materiali, quali pongo, argilla, bronzo, ci racconta di una sua formazione d'autodidatta derivatagli da un ambiente famigliare ricco di approdi al mondo dell'artigianato e affinata all'Accademia di Belle Arti (Canterbury University of Fine Arts). A tre anni già cuce e ricama. Il tessuto e il suo collezionarlo divengono medium di una forma umana privata dell'identità dell'anima. Non è un pupazzo: sono sculture senza pupille dallo sguardo inconoscibile e con la parrucca. Dall'esperienza dei gessi di strada, dell'amico artista Jacques Nimki, apprende che il pubblico riconosce il bisogno dell'anima e dell'animato quando incontra l'occhio e il suo profondo sentimento che dall'incrocio dello sguardo (pupilla) emerge e ad esso porge la sua offerta e il suo aiuto.

Francis cancella la pupilla e con essa lo sguardo dell'anima dalla quale prende distanza. Il suo è il segno grafico della scultura inanimata che racconta di questo disegno di forma e colore che dal corpo umano si evince. Le sue prime opere formative partono dalla pittura per porre al centro della tela bianca un oggetto che emerge scultoreo dal bidimensionale pittorico; ma non dalla pittura emerge il suo talento. Sono le sculture raffiguranti animali di un universo ancestrale, risalenti a forme di vita primitive (es. le scimmie) a catturare la sua attenzione.

Nel 2009 la svolta: l'umano diviene soggetto delle sue riflessioni artistiche. Sculture il cui corpo dipinto e decorato vestono secondo tradizione i costumi di culture lontane, ricreati con fantasia da Francis ad esprimere l'eclettico universo delle manifestazioni e dei bisogni dell'uomo. Successivamente l'antropomorfo viene affiancato al ritorno del suo zoo per vincere la solitudine dei corpi scultorei e le proporzioni, un tempo volutamente isolate e bilanciate tra loro, si avviano alla fusione in accostamenti dimensionali di scala differente. Non bambole o pupazzi, ma umani inanimati che senza sguardo ci parlano di luoghi e tradizioni, di passato e futuro, di una goffaggine inespugnabile e consona all'umano che può tendere alla grazia e alla beltà del gesto senza raggiungerlo.

Francis Upritchard ha espresso, alla Biennale di Venezia, n.57, del 2017, il suo acuto riferirsi all'uomo come traccia e segno del tempo. Nel Padiglione delle Tradizioni i suoi 7 corpi scultorei, dal polimorfico espressionismo fisiognomico e dal marcato accento cromatico, lasciano alla civiltà e alla sua storia il racconto del tempo di oggi e di quello a venire, contraddistinti dall'inarrivabile “eleganza” a cui l'uomo tende e non coglie: stato di corrispondenza di quanto vi è dentro rispetto a quanto vi è fuori, inanimazione verso animazione.