Narciso Parigi è lì, dritto e sorridente, e da lui partono innumerevoli raggi che vanno in ogni direzione. Raggi che illuminano, scoppiettano, incuriosiscono, divertono, sbalordiscono. Commuovono. Una vita da imbambolare l’interlocutore, la sua. Il cantante fiorentino ha venduto milioni di dischi, era a suo agio a Hollywood come a Campi Bisenzio dove è nato novant’anni fa, è stato in confidenza con artisti il cui nome troneggia nei musei, nei teatri, negli auditorium e ogni cosa l’ha fatta alla Narciso, con affetto. “Essere buoni non costa niente – dice, vestito con cura, nella sua villa di Firenze -. Come si fa a essere cattivi? Se uno approfitta di una persona buona, peggio per lui, pazienza. Prima di fregare una persona, ho più piacere se fregano me. Io la penso così”.

Narciso Parigi è un uomo che manifesta subito il dolore indicibile per la scomparsa del figlio Stefano: “Mio fratello è morto a 83 anni. Se fossi morto anche io sarebbe stato meglio, non avrei provato quello che ho provato. Ho avuto tutto, ma l’ho pagata troppo cara”.

È un uomo che però non lesina i racconti delle sue gioie e dei suoi trionfi, e lo fa proprio per affetto, per coccolare chi lo ascolta. Racconta fumando, ha fumato sempre. “Ho cominciato a dieci anni. Nel 1961 in piazza Santa Maria Novella, c’era uno che faceva smettere di fumare, mi telefonò l’avvocato Porzio che aveva lo studio in via de’ Tornabuoni: Narciso, vieni, ci fanno smettere di fumare. Si pagò diecimila lire per uno. Io, ragazzi ho più voglia di prima, gli dissi in seguito. Con Bartali fumavamo le Nazionali semplici. Al giro d’Italia del ’48 gliele portavo io: a fine tappa Gino fumava. Quando incidevo volevo il pacchetto di sigarette, perché se sentivo che mi andava giù la voce, accendevo una sigaretta e via. Il mio figliolo, invece, ha fumato anche lui tanto tanto…”.

Bartali, campione e giusto tra le nazioni, salvò molti ebrei e anche Narciso Parigi viene da un ambiente ostile a Mussolini: “Il mio povero babbo era antifascista, uno che non ha mai fatto male a nessuno, nemmeno ai fascisti, ma non voleva essere obbligato a iscriversi al partito. E ne abbiamo passate in casa! Da piccolo mi piaceva un vestitino da Balilla, l’avevano tutti e io no. Quando andai a cantare all’Olympia il padre di Yves Montand, il Livi, mi chiese: è vero che sei figlio di Getulio Parigi? Era un amico mio, un antifascista”.
“È stato bravissimo anche come attore, Yves. Me lo ricordo in Vite vendute con Folco Lulli. Ho avuto amici molto più importanti di me, mi creda. Quelli che ho avuto negli Stati Uniti, erano tutti cantanti a livello mondiale. Mi hanno aiutato quando si disse che ero con la mafia. La prima volta che andai a cantare a New York venne a salutarmi gente conosciuta come mafiosa, ma io non lo sapevo. Mi abbracciavano, si facevano le fotografie con me dopo il concerto, come fai a dirgli di no? Non c’è verso. Anche Frank Sinatra non è mica vero che era mafioso. Sinatra, Dean Martin, eravamo con la stessa ditta discografica, la EMI, e avevamo gli stessi manager per gli spettacoli. Io facevo gli spettacoli dove li facevano loro. Tony Bennett, Perry Como, i Beatles. Con Dean Martin eravamo come fratelli”.

Narciso Parigi incideva in Italia e negli Stati Uniti e i dischi uscivano in tutto il mondo. Sono stati stampati e venduti pure in Giappone. Negli Stati Uniti girava una pubblicità: “Se volete imparare l’inglese comprate i dischi di Frank Sinatra, se volete imparare l’italiano comprate i dischi di Narciso Parigi”. Su The Voice, Parigi ha uno spassoso aneddoto fiorentino. Quando Sinatra cantò a Firenze era sposato con Ava Gardner e il pubblico incalzava: Ava! Ava! E lui si stizzì, disse thank you, good night e andò via, con Narciso che tentava di lenire la ferita: “Frank, gli piace le donne, tu sei un omo. Sono tuoi ammiratori a Firenze. No, no, rispose Sinatra, a Firenze c’ho due amici soli: te e la tu’ moglie, anche se non la conosco”.

Parliamo della sua carriera.

Ho avuto fortuna. C’erano tanti cantanti però io ho avuto la fortuna di avere un timbro di voce diverso dagli altri e la fortuna di capire il repertorio che dovevo fare, cioè io non cantavo ‘O sole mio, ‘O sole mio l’hanno cantata tutti. Cantavo in italiano i successi americani. E sono stato l’unico a incidere in italiano Yesterday dei Beatles. Ho cantato Amapola in molte versioni. Terra Straniera (dalla colonna sonora dell’omonimo film di Sergio Corbucci, 1953, nel quale Parigi era anche attore n.d.r.) in America mi ha aiutato però ho sfondato con le canzoni americane cantate in italiano perché all’epoca gli italiani che parlavano l’inglese erano pochi. Parlavano l’italiano, anzi: parlavano il dialetto di dove venivano. Ma era gente meravigliosa, veri italiani e si sono fatti rispettare perché in America gli italiani non erano ben visti, il Sud si è fatto rispettare e ha fatto bene. Non ti puoi immaginare il cuore dei calabresi”.

Oltre all’America, l’Italia, con Mattinata fiorentina e le altre canzoni di Firenze.

Sì, certo, ma sa che ho cantato più canzoni romane che fiorentine? Domani ritorno a Roma, per esempio. Mattinata romana la scrisse per me Fusco. La cantavo con l’Orchestra Ferrari che era la numero uno d’Italia. Duecento canzoni romane, ho fatto.

Ha una passione profonda anche per la pittura, vero? La sua collezione di quadri è stupefacente.

Gli italiani ce li ho tutti. Soffici e Rosai mi volevano bene. Ero amico di Dalì che mi regalò due dipinti. Il gruppo Cobra, De Chirico, Guttuso… Ho conosciuto Picasso.

Com’era Picasso?

Meraviglioso. Mi ricordo la Paloma che un giorno cercava disperatamente certe pantofole dipinte da suo padre, chissà dov’erano finite. La Paloma disegnava borse, venne a Firenze, a cena da Luigi Limberti. Avevamo il posto vicino allo stadio io e Luigi, una persona buona. Le borse più belle di tutte le fa il Limberti. Il massimo. Lo dissi anche alla Jula de Palma che aveva messo una bottega a Toronto. In Canada feci la campagna elettorale per Trudeau, Pierre Trudeau, e venni considerato un comunista. Eravamo io e i Rolling Stones.

Non è comunista?

No, non sono comunista e non sono mai stato iscritto a un partito. Sono di sinistra, eravamo tutti di sinistra dalle nostre parti. Io ho sempre voluto bene a tutti, non ho mai domandato: di che partito sei? Si può essere come si vuole. L’importante è l’animo. Ho sempre votato per gli amici e ho sempre votato a sinistra perché i miei amici erano di sinistra.

Torniamo alla pittura.

Ero a desinare con Maccari, e gli feci: vedi Mino, io con tutta la passione che ho per l’arte non so fare nemmeno un alberino. E lui: fai l’astratto. Dopo un po’ Fanfani, che dipingeva anche lui, mi regalò un cavalletto e io provai a far l’astratto. Misi in garage quella tela tutta sporca che nel tempo divenne secca, lei non ci crederà dopo tre o quattr’anni venne uno e la voleva comprare per forza. Dissi: guarda non è niente, te la regalo. Non gli volevo dire che l’avevo fatta io. Non la volle regalata e mi dette mille lire. Tornò e mi portò 250mila lire. L’aveva venduta per 500mila lire. Era un vero sudiciume, quella tela. Dico questo: hanno cominciato col distruggere la pittura, la musica, la poesia, fortunatamente ho conosciuto i veri poeti, Montale e Quasimodo, e ho paura che adesso l’umanità si astragga. Perché non è possibile un mondo così. Donne ammazzate, bambini ammazzati, non credo più a tante cose. Trovai una vecchietta: Narciso ti ricordi di me? Sono campigiana, sono la moglie del Ballerini, sai quello che c’aveva le macellerie. Com’era bello il tempo di guerra, ci volevamo tutti bene”.

Quando abbiamo smesso di volerci bene?

I politici di mestiere che hanno cambiato il mondo. Mi vergogno a vedere tanti politici, non solo italiani. Trump mi fa ridere, ma che può essere presidente degli Stati Uniti un bischero in quella maniera? Che si scherza davvero? E litigano lui e quello della Corea del Nord, ma vadano tutti e due… Si può essere in mano a questa gente? I giovani sono in mano a questa gente e il cervello diventa astratto.

Ha pure ricordi presidenziali.

“Dissi a Reagan: ma perché nei film western i cattivi sono gli indiani? Noi siamo più cattivi degli indiani. Siamo andati là, si sono ammazzati e gli s’è presa la terra. E che son cattivi loro e noi siamo boni? Ho cucinato gli spaghetti aglio e oglio, alla Casa Bianca, ma li faceva meglio Rossano Brazzi, comunque si mangiò. Reagan me lo presentò Rossano. Rossano! Un giorno cantavo al teatro Warner, a Hollywood, Rossano venne a sentirmi e il pubblico lo applaudì ininterrottamente per un quarto d’ora. Alla fine uno mi chiese di fare l’autografo su due dischi miei. Era Carlo Rambaldi, quello di E.T. Allora me lo faccia lei l’autografo, gli dissi”.

Il cinema?

Ho girato tanti film, ma al cinema in Italia non li ho visti mai. Li ho visti dopo con le cassettine. Una volta usai un nome d’arte, Dan Stefan, dai nomi dei miei figli Daniela, Stefano e Andrea.

E l’amore?

Ho conosciuto mia moglie il 5 gennaio del ’53. Presi il treno alle 15,20 da Roma, ho abitato quindici anni a Roma, in via delle Medaglie d’oro, in un appartamento bellissimo. C’era una ragazzina con delle viole in mano. Fiorella ha dieci anni meno di me, quindi io ne avevo ventiquattro e mezzo, venticinque, lei ne aveva quindici, una bambina. Mi chiesero l’autografo con la sorellina di dodici anni, pensavano fossi un giocatore della Juve, uno di Pistoia. Erano con la mamma. Mi feci dare il telefono dalla sorellina. Arrivai da mia madre e le dissi: ho conosciuto una ragazzina in treno, la sposo. Insomma, nel dicembre del ‘53 si cominciò ad amoreggiare. Lei andava dalle suore di Nevers e quasi mi vergognavo: aveva quindici anni, io venticinque. Situazione delicata. Mi nascondevo. Quando entrai a casa sua m’impaurii, avevano una casa, tu vedessi. Come se io mirassi ai soldi, ma cambiavo la macchina tutti i mesi, sicché i soldi ce li avevo. Il suo babbo non mi voleva, prese informazioni su di me. Durante il Fascismo era stato nove anni in carcere, dicevano che era anarchico. L’unica cosa positiva che scoprì di me è che ero un comunistaccio. Ancora, questa fama. Se non avessi avuto Fiorella non avrei fatto nulla. Mia moglie è stata una donna forte che ha salvato anche me”.

A Fiorella, apparsa nella stanza con perfetto tempismo alla fine del discorso su di lei, le mani affusolate e la criniera folta, chiediamo qual è la canzone del marito che preferisce. La risposta appaga i sentimentali: la prima che ho ascoltato. Lo chiama Narci. Anche Narci ha mani splendide, ma si concentra sulle prepotenze dell’età: “Sono diminuito diciassette centimetri, ero alto 1,86, ero nei granatieri, per pochi giorni perché la Rai mi procurò il congedo temporaneo”. Gli tornano in mente altri amici: Curzio Malaparte, Odoardo Spadaro, Artemio Franchi, il fuoriclasse fra i dirigenti sportivi internazionali al quale è intitolato lo stadio di Firenze. “Con Artemio siamo stati fratelli”. Narciso Parigi, tifoso viola, interprete dell’inno della Fiorentina, spera di andare di nuovo al Franchi, vivo e vegeto e anche in seguito: “Speriamo che sia come diceva la Margherita Hack, che le cellule vivono sempre. Così se muoio le mie cellule vanno a vedere la partita”. Cellule affettuose, quelle di Narci.