Con la superficialità che talvolta contraddistingue cronisti e giornalisti in genere, Pietro Mennea, pugliese di Barletta, velocista, campione olimpico, recordman mondiale, pluricampione italiano, è stato soprannominato “Freccia del Sud”, termine mutuato dalla nomenclatura d’antan delle Ferrovie dello Stato che così chiamavano un celebre convoglio dell’Italia del boom. L’uscita di scena del grande atleta e l’uscita dai depositi di un nuovo convoglio ha ora indotto l’azienda ferroviaria a riparare al dissidio lessicale intitolando proprio a Mennea l’ultimo prodotto della velocità italiana su rotaia. Secondo quanto comunicato dalle Ferrovie dello Stato si chiamerà infatti proprio Mennea il nuovo Frecciarossa 1000 che entrerà in circolazione l’anno prossimo e sarà in grado di collegare Roma e Milano in due ore e venti minuti, invece delle tre attuali.

In realtà, il Mennea che abbiamo avuto il privilegio di conoscere non era esattamente una freccia: era piuttosto, e tale sempre ci è comunque sembrato, un arco, da cui la freccia si dipartiva per raggiungere il bersaglio. Al centro, naturalmente. Al centro, con naturalezza. Ma era naturalezza che nascondeva l’inossidabile forza di volontà impiegata per costruire il grattacielo della sua epopea sportiva, agonistica, umana. Di cui il primato mondiale dei 200 metri (Città del Messico, 12 settembre 1979) resta l’episodio più fulgido, ancorché non l’unico.

Lo incontravo, ogni tanto, all’edicola dei giornali. Aveva lo studio in Prati, nelle vicinanze di un ufficio che frequentavo come consulente, e ogni volta ci scambiavamo un saluto di cortesia, senza mai intavolare discorsi tecnici, men che meno memorie, ancorché ne conoscessi bene il curriculum, per così dire, sportivo ma non solo, ed essendo io abbastanza certo che anche un semplice accenno mi avrebbe ricordato al suo ricco campionario di interviste.

A me berrutiano convinto (preciso: per motivi anagrafici e storici, avendo scritto il mio primo articolo su un quotidiano proprio commentando una gara di Berruti, 1959) Mennea ricordava un po’ il dualismo dei tempi andati, quello ciclistico di Binda-Guerra, o Bartali-Coppi, o per passare a dualismi diversi Peppone-don Camillo, Callas-Tebaldi, Milan-Inter… Pietro Mennea era la contromedaglia di Livio Berruti, diafano e quasi impalpabile il torinese, quanto coriaceo e sanguigno il barlettano, due esempi comunque di un’atletica italiana allora alla ricerca di un suo ubi consistam che l’affrancasse dallo stereotipo del marciatore allevato a carboidrati.

Era – ha detto Berruti riferendosi proprio a Mennea – "un asceta dello sport, che ha sempre interpretato con ferocia, volontà, determinazione. È stato un inno alla resistenza, alla tenacia e alla sofferenza". Berruti ha anche ricordato le differenze che hanno contraddistinto i due grandi sprinter azzurri: "Tra noi c'è stato un rapporto molto dialettico: per lui l'atletica era un lavoro, io lo facevo per divertirmi; lui era pragmatico, io idealista. Il nostro è stato uno scontro, come tra Platone e Aristotele".