Sette volte Arat si inchinò alla Luna nuova ed espresse il desiderio.
Arat sedette accanto alla betulla
srotolò la magica coperta delle parole
e lanciò le conchiglie

Arat intonò il canto delle parole
Il suono della sua voce si diffuse
Arat disse: guardate e ascoltate
Coloro che stavano seduti attorno
al sacro albero videro e udirono

“Chi ci porta questa leggenda bagnata dalle lacrime, sferzata dal vento e dalla neve?
È lui che viene a far conoscere le gesta dell’uomo solitario, a portarle fino a noi dall’alto del cielo infinito, là dove vive il sapere antenato.
Egli non teme né la tempesta né i ghiacci né la tormenta. Ma di tre mali ha paura: la perdita della memoria, l’ingratitudine e l’indifferenza”. [1]

Non so chi sei e da dove vieni.
Sembri un uomo forte, abituato a combattere.
Racconta: perché vieni su questa Terra e ti presenti a noi?

Un blocco di neve mi ricoprì
mi soffocò la paura
Come avrebbe potuto
la mia anima aprirsi un varco
e volare là in alto
verso la terra della cacciagione?

Sopra il giaccone di pelle di capra cucito dalle donne del villaggio avevo indossato il mio mantello di paglia e giunchi intrecciati.

Non c’era più tempo.

Sapevo che avrei dovuto difendermi dal freddo, dalla pioggia. Mi calcai in testa il berretto di pelle d’orso. Afferrai l’arco e la faretra e cominciai a salire nella neve alta e fresca. Chissà se la pelle di cervo e l’erba secca che avevo pressato dentro le scarpe sarebbero bastate a proteggermi dal gelo.

Mi parve di sentire una voce lontana, qualcuno che mi inseguiva. Mi girai indietro a fatica perché il vento mi sferzava il viso. Riconobbi mio figlio. Cercava di raggiungermi per darmi il vaso di betulla con le braci tolte dal focolare avvolte nelle foglie d’acero. Senza quel prezioso aiuto non avrei potuto accendere il fuoco e riscaldarmi un po’.

Non pensavo che il mio ritorno a casa sarebbe durato così poco. Avevo assaporato il calore della mia capanna. Mentre scendevo dai pascoli di alta montagna insieme ai miei compagni guidando pecore e capre mi pareva già di sentire il profumo della carne messa ad arrostire e l’odore acre del formaggio preparato per noi che tornavamo con il gregge.

Accanto al fuoco, insieme a mia moglie e ai miei figli, erano iniziati i racconti del viaggio. Le mie parole si mescolavano a quelle di chi era rimasto al villaggio e veniva a chiedermi consigli e aiuto.

Poi avevo udito quelle voci lontane che mi spingevano a tornare sulle montagne. Non comprendevo bene le parole ma continuavo a sentirle. Si avvicinavano sempre più. Mi dicevano di ripartire, ma questa volta dovevo essere solo.

Fu così che ripresi a salire. Mentre procedevo con grande fatica intonavo il canto che mio padre mi aveva insegnato per averlo appreso da suo padre. Ero stremato. Volevo riposare. Decisi di bivaccare nel primo luogo che offrisse qualche riparo.

Avanzai ancora finché vidi quella piccola conca rocciosa. Una nebbia improvvisa stava salendo, la bufera di neve era sempre più violenta. Deposi la faretra. Davanti a me, un po’ più in là notai una sporgenza della roccia che mi parve più sicura. Vi poggiai l’arco, l’ascia di rame e tutto il resto del mio bagaglio. Mi strinsi vicino al corpo il vaso con le braci per sentire un po’ di calore. Sapevo di dover restare sveglio altrimenti sarei morto assiderato. Camminavo su e giù. Sentivo che lo sfinimento e il torpore prendevano il sopravvento. Pian piano mi lasciai andare mentre quelle voci si facevano sempre più forti. Sembrava cantassero la mia canzone.

L’uomo solitario cadde pesantemente contro la pietra, il berretto rotolò via depositandosi ai piedi della roccia, il recipiente con le braci scivolò dalle sue mani. Morì senza più riprendere i sensi.

Quando i demoni della montagna vennero a prendere il suo spirito trovarono il corpo dell’uomo di ghiaccio disteso a terra. Non aveva più cercato di resistere al freddo. Tutto si era compiuto.

Nessuno seppe più nulla di lui. Il suo corpo non fu ritrovato nemmeno in primavera quando i suoi compagni accompagnati dai cani risalirono il crinale per raggiungere i prati di alta montagna dove far pascolare pecore e capre.

Questo non fece che accrescere le leggende sui poteri magici del pastore dal corpo tatuato. Di tanto in tanto qualcuno diceva di averlo udito cantare la sua canzone al sorgere della luna nuova. Altri l’avevano visto apparire per un attimo seduto sotto l’albero degli antenati illuminato da una stella.

“Quando per gli uomini i giorni si fanno duri e difficili, quando le disgrazie piombano sulla gente e seminano negli animi la nera polvere dell’indifferenza, quando nessuno vuol più vivere, quando le danze e i canti vengono dimenticati e abbandonati, è allora che compare sulla roccia arrossata dal tramonto e porta con sé la medicina contro i mali che uccidono l’anima. Arriva e racconta queste remote leggende. E l’eterna parola risuona e gli animi di coloro che sono pronti ad ascoltare e a ricordare si aprono alla conoscenza”. [2]

Ascoltate ancora le sue parole.

I demoni servitori mi accompagnarono al cospetto della grande Signora delle nevi.
Felini dalle folte pellicce di colore bianchissimo stavano attorno a lei accovacciati come mansueti animali. Accanto ai suoi piedi una enorme, candida orsa teneva i suoi piccoli tra le zampe potenti e li guardava con occhi pieni di tenerezza per proteggerli come una madre affettuosa.

Alle spalle della Signora un’immensa luna argentea rifletteva i bagliori della neve.
Mi sembrò di vedere una figura umana sul grande disco. Mi tornarono alla mente le leggende che più volte avevo sentito raccontare durante la festa dell’orso.

Una grande aquila, bianca anch’essa, stava appoggiata su una vetta ghiacciata. Non appena si alzò in volo dischiudendo le sue immense ali si udirono assordanti rombi di tuono e in alto si scatenarono fulmini dai bagliori accecanti.

Guardavo attonito ma non avevo paura. Mi sembrava di riconoscere luoghi incontrati nei viaggi che avevo intrapreso con l’aiuto dei magici funghi. Eppure mi sentivo sconvolto e come attraversato da un calore che non riuscivo a spiegare in quell’immenso paesaggio gelato. Mai avevo veduto né immaginato ciò che vidi.

Cercando di dominare l’emozione, salutai la potente Signora con la formula dell’antico rituale:
Oh Signora di questo mondo che sta sotto la Luna, padrona delle montagne e delle nevi, dea della vita, protettrice di tutti gli esseri che vivono tra i ghiacci, progenitrice dei popoli del grande freddo, ti rendo omaggio.

Salute a te. Mi dicono che grande sia il rispetto che ti hanno riservato sulla Terra. Felice colui che vive in pace con i propri vicini. Felice chi sa vivere in armonia con gli dei e custodisce questo come un dono.

Perché mai potente Signora mi hai chiamato a compiere il viaggio e mi hai condotto in questo luogo incantato?
In quale disegno può trovare posto un piccolo uomo come me, a che cosa posso servire io pastore ed artigiano in questo fantastico mondo del ghiaccio?
Qui silenzio e pace regnano sovrani. A che cosa può servire la mia rumorosa abilità di battere il metallo e di scheggiare la pietra per ricavarne strumenti per il lavoro e la guerra?

La tua domanda conferma la fama della tua saggezza e della tua intelligenza, ma non è per scheggiare la selce che ti ho chiamato né per forgiare il ferro né per condurre le greggi e scambiare le pelli. Ben altro è l’aiuto che mi aspetto da te. I segni tatuati sul tuo corpo mi dicono che tu non sei stato soltanto un pastore. Tu hai potuto udire il mio canto e non hai resistito al mio richiamo. Grande è il tuo potere e forte sarà la stirpe che insieme genereremo. Quando il rituale di purificazione sarà compiuto sentirai di nuovo scorrere energia e vigore. Il tuo corpo risplenderà dell’antica bellezza e potremo entrare nella caverna della vita. Là giaceremo insieme e gli uomini dei ghiacci torneranno a vivere: la loro stirpe non si estinguerà.

Da lungo tempo vivo in solitudine, circondata soltanto dai demoni servitori, ma il Signore dell’Universo ha deciso che il mondo del grande freddo non deve finire. Lui mi ha ordinato di trovare un uomo potente, stimato ed onorato per i suoi meriti e di incontrarmi con lui per far rinascere i figli della neve.
Ecco, ora ti ho svelato il disegno: sei tu che ho scelto per assolvere il compito che mi è stato assegnato. Arduo è ciò che ti è stato richiesto ma a lungo permarrà il tuo ricordo.

Così apprese quanto era stato deciso su di lui. Desiderò che fosse un sogno, uno di quei lunghi, magici sogni che più volte l’avevano portato lontano per incontrare popoli di cui nessuno conosceva l’esistenza, per parlare con gli spiriti degli antenati e ricevere insegnamenti per la sua gente.

Ma non era così. Questo non era un sogno. Questa era verità.
Sette volte si inchinò alla Signora e accettò il proprio destino.

Ebbero dunque inizio i preparativi per la cerimonia nuziale. A lungo durò il tempo dell’attesa. Giunse infine il giorno destinato e la celebrazione ebbe inizio.

Fu accompagnato al cospetto della Signora, bellissima nei suoi abiti sontuosi. Ella si alzò dal trono di ghiaccio. Prese la mano di lui risplendente come un dio nella sua rinnovata giovinezza, e insieme si avviarono verso la montagna nella quale si apriva la caverna della vita.

Non appena furono entrati tutti gli animali che sempre accompagnavano la Signora si posero davanti all’ingresso come a proteggere il compimento della cerimonia della creazione.

A lungo restarono nella caverna, stretti l’uno all’altra dentro la grande sfera di ghiaccio. Si muovevano pian piano come sospesi nel liquido cangiante che magicamente andava assumendo tutti i toni dell’azzurro.

Quando il sacro rito fu compiuto la sfera si dischiuse e l’acqua prese a fluire abbondantemente. Non appena sfiorava il ghiaccio essa assumeva forme di fanciulle e giovani di splendida bellezza.

Uscivano dalla grande caverna intonando dolcissime melodie. I loro corpi si avvicinavano e si allontanavano in una danza dal ritmo cadenzato. Le loro voci e i loro gesti si intrecciavano a formare le frasi di una lingua fatta di incanto e mistero.

Uomini e donne erano in armonia. E ognuno si servì al sontuoso banchetto preparato dai demoni della montagna e la festa continuò per giorni e notti.
Quella che avete udito non è leggenda. Quella che avete udito è verità.

Questo racconto è dedicato all’uomo del Similaun, morto e ritrovato dopo 5300 anni sul crinale alpino della Val Senales, vissuto nella fase antica dell’età del Rame, un’epoca fondamentale per l’importanza delle trasformazioni climatiche, tecnologiche, antropiche e persino religiose.

Il linguaggio della narrazione rimanda a quello usato nei miti e nelle leggende dei popoli siberiani ai quali rendiamo onore.

[1] Luciana Vagge Saccorotti (a cura di), Miti e leggende dei popoli siberiani, Xenia Edizioni, Milano, 1994
[2] Id., ibid.

A cura di Save the Words®