Ogni volta che non riesco a scrivere, che mi si fermano le mani, che la testa si svuota, occupata dai pensieri più banali, quelli più pratici, ghiacciati, mi basta pensare alla curva del tuo collo, come il germoglio di un cigno, e subito le parole spingono, nell'apnea dei giorni quotidiani, pronte a ridarmi il colorito.

Ogni volta che mi sveglio, che lascio un letto dove solo io sogno, ti preparo la colazione a memoria, ti scaldo il latte, lo tolgo dal fornello prima che bolla, ci verso dentro mezza tazzina di caffè, che si arrotonda come marmo liquido, e mescolo piano con il cucchiaino. Ti soffio via il male, la bruciatura, e te lo passo dai miei palmi ai tuoi. Lo faccio così, col pensiero. Mentre tu dormi in un altro luogo, ed io esco di casa senza mangiare, senza bere.

Ogni volta che vedo un oggetto carino, che ti piacerebbe, voglio prenderlo per te. Spesso lo faccio, non sempre. Compro solo oggetti piccoli, perché poi voglio darteli, e non si può giustificare un grande oggetto, in casa tua, che non provenga dagli esseri umani ammessi nel tuo mondo.
Io devo conservare una dimensione che si possa eclissare, che si possa tenere in tasca, dissimulare.
Sono il bottino di un ladro che chiede di essere rubato pezzo dopo pezzo.

Ogni volta che penso a queste due parole, penso al il titolo della canzone di Vasco Rossi che ascoltavo quando ero bambina dallo stereo di mio padre, e non sapevo cosa volesse dire essere coerente, come diceva il testo. Per poi scoprirne troppo presto il senso, sentirmelo scagliato addosso come un sasso, un masso, e ritornare a scordarne il significato. Provare, sforzandomi, di non ritrovarlo, anche quando tutti me lo chiedono. Ché se dovessi di nuovo saperlo, tu andresti via in un soffio, e non posso permettermelo.

Così “ogni volta” diventa un modo per farti un elenco di cose che succedono sempre, sì, come in quella canzone, e che ti portano alla luce, perché anche se Vasco Rossi non mi è mai piaciuto, forse è quello il primo modo che ho imparato per poter dire a qualcuno quando e quanto resta.

Potrebbe bastare dire “sempre”, ridurre in un'unica parola ogni esempio, ognuna di tutte quelle volte. Ma sai che ho un problema, con quel termine che non termina mai. Perché se è vero che tu sei, in me, perenne, io non voglio restare per sempre.

Voglio essere passeggera. Specie quando guidi di notte nella pioggia. Quando prendi un treno, un pullman, un taxi, una mongolfiera, un tappeto volante. Essere un profilo, un corpo che ti siede accanto. Che ti fa da contrappeso e ti difende dal mondo, ti indica la strada, anche quella che tu già conosci a memoria. Passeggera, come una tempesta, che ti gonfia il mare troppo piatto. Come una sorpresa. Come una pioggia che fa da madre a tutti i fiori che hai piantato. Passeggera come deve essere ogni tuo paura. Come la scia di una meteora che ti avvera.

E ti avvera ogni volta. Ogni volta che viene giorno. Ogni volta che ritorno. Ogni volta che cammino e mi sembra di averti vicino.