Ciascuno di noi fa parte di una famiglia con cui vive ed a cui è legato, che lo voglia o meno. Spesso continuiamo a ripetere conflitti e malesseri nelle nostre esperienze, oppure portiamo sulle spalle pesi che non ci appartengono. O anche, viviamo a nostra insaputa il tragico destino di un familiare, scomparso da tanto tempo e mai conosciuto. Tutte queste dinamiche ci legano in modo negativo alla famiglia, impedendoci di guardare in avanti con forza gioiosa e di avere successo nella nostra vita.

(Bert Hellinger)

Ingombranti presenze ignorate, lontani avvenimenti mitizzati, silenzi omertosi e ritorni indesiderati: le dinamiche psicologiche di gruppo, variamente estese sia nello spazio (dal nucleo familiare a un popolo intero) sia nel tempo (da due a molte generazioni) possono rivelarsi utili chiavi di lettura nella comprensione delle più svariate vicende. Sembra allora funzionale a prestarsi a quest’approccio anche una storia genovese, guarda caso sconosciuta ai più, foriera di considerazioni più generali.

È il 3 agosto 2008 quando, con una serie di boati, scompare dal panorama del ponente della Superba l’ultimo tratto del cosiddetto viadotto ferroviario di Coronata, un manufatto molto appariscente di cui, a pochi anni dalla scomparsa, sembra non ricordarsi più nessuno: fatto strano per un’opera che verrebbe spontaneo associare alla febbrile attività del porto e dell’industria pesante; fenomeno invece comprensibilissimo poiché si trattava di un ponte mai utilizzato, essendo l’unico tronco realizzato del primo, sfortunato tentativo di un’infrastruttura ancor oggi attesa da Genova: il cosiddetto Terzo Valico dei Giovi, collegamento veloce con la Pianura Padana, attualmente in costruzione, così chiamato in riferimento alla prima linea realizzata nel 1853 e alla "Succursale" operativa dal 1899.

Malgrado l'odierno cantiere derivi da un progetto approvato nel 2006, l'esigenza di un potenziamento del collegamento transappenninico era emersa negli anni Venti, allorquando Genova, annettendo 19 comuni limitrofi aveva potuto ampliare il suo porto verso Ponente, a discapito delle spiagge di Sampierdarena: le nuove calate occidentali avrebbero allora necessitato di una bretella ferroviaria dedicata, funzionale a evitare sia complicate manovre ai convogli sia sovraccarichi alle linee esistenti. Fu così che venne elaborato un nuovo tronco da Arquata Scrivia fino a Sampierdarena: una serie di lunghe gallerie in sponda destra del torrente Polcevera, conclusa a valle da un'ampia curva su viadotto, in discesa verso le calate. Proprio quest'ultimo tratto, il più urbano e visibile di tutta la linea, richiedeva una maggiore attenzione progettuale. Ne risultò una soluzione ibrida: a monte si succedevano ampie arcate in muratura, finemente rivestite in pietra secondo un disegno già impiegato per i portali dei coevi trafori viari nel centro di Genova; a valle, nel tratto che attraversava il Polcevera, si ricorreva invece a cinque travate metalliche variamente dimensionate. In definitiva, un insieme titanico, pretenzioso, forse eccessivo nell'esibizione di pietra e acciaio, accademia e ingegneria.

Il chiaro intento autocelebrativo, in piena sintonia col fascismo imperante, venne però vanificato poco dopo: alla costruzione del viadotto infatti non fecero seguito né la realizzazione della rampa di raccordo con le calate di Sampierdarena, né lo scavo della galleria sotto il colle di Coronata. Contemporaneamente il Governo manifestava intenzioni gravide di conseguenze anche e soprattutto per lo sviluppo postbellico delle infrastrutture italiane: nel 1932 era Mussolini stesso, su pressione della Fiat, a dichiarare prioritaria la costruzione di un collegamento veloce stradale e non ferroviario fra Genova e l'Oltregiogo. Venne così costruita, in soli 3 anni, l'Autocamionale della Valle del Po, di fatto la prima autostrada di montagna al mondo, oggi inglobata nella A7 Milano-Genova. Nulla però avrebbe impedito, in seguito, la ripresa dei lavori della ferrovia, eppure nel 1938 il cantiere venne ufficialmente chiuso. Vero è che, escludendo un inizio di scavo presso Arquata Scrivia, mancavano ancora tutte le gallerie, ma in parallelo l'opera di riempimento costiero per le aree delle costruende calate di Sampierdarena e acciaierie di Cornigliano richiedeva una mole di terra che proprio l'apertura dei nuovi tunnel ferroviari avrebbe potuto fornire, anziché procedere, come avvenne, al parziale spianamento della collina di Erzelli.

Tra le scarsissime fonti disponibili in rete, si riporta poi lo scenario di un errore di calcolo delle pendenze del ponte, tale da renderlo impraticabile per le locomotive dell’epoca: perché allora non demolirlo e reimpiegarne l’acciaio per finalità più urgenti, in primis belliche? Del resto va ricordato che proprio a Genova e dintorni il Regime aveva già commesso dei passi falsi: errori ora comici (l’istituto tecnico costruito presso la stazione Principe e demolito dopo due anni per ampliare lo scalo ferroviario), ora tragici (la catastrofe della diga di Ortiglieto), però evidentemente in questo caso prevalse una sorta di imbarazzo generalizzato. Nessuna demolizione venne attuata perché è impossibile abbattere ciò che non esiste, o di cui si nega l’esistenza. Lo sguardo di tutti andava distolto da quell’unico ponte all’imbocco orientale di Via Cornigliano e dal 1951 questo fu possibile grazie alla nascita di un vero e proprio “culto urbano”: il 14 aprile, all’estremità occidentale di quella stessa strada, veniva fatto brillare il Castello Raggio, sfarzosa dimora neomedievale già ridotta a rudere da bombardamenti e saccheggi. La sua demolizione, imposta dalla posa dei binari per lo snodo ferroviario delle nuove acciaierie, ne facilitò in breve tempo la mitizzazione, riscontrabile ancor oggi dalla quantità di immagini d’epoca reperibili online. Un ricordo quasi ossessivo, invero neanche troppo giustificato dall’effettiva qualità architettonica dell’edificio, di fatto una copia dichiarata del Castello di Miramare a Trieste.

Distolto lo sguardo pubblico un chilometro e mezzo più a ovest, verso il passato. Distolto lo sguardo pubblico un chilometro e mezzo più a nord, verso il futuro: nel 1967 venne aperto al traffico il viadotto autostradale sul Polcevera, realizzato da Riccardo Morandi, ingegnere di fama mondiale che per l’occasione aveva riproposto, in piccolo, la soluzione strutturale da lui impiegata, 5 anni prima, in Venezuela, per il gigantesco ponte “General Urdaneta” presso Maracaibo. Un altro viadotto, un’altra copia, un altro diversivo. Col tempo, quello del Polcevera passò nella toponomastica popolare come il “ponte Morandi”, contribuendo alla fama postuma del suo ideatore; niente di più lontano dalla vicenda del viadotto di Coronata, il cui progettista ancor oggi rimane ignoto: una casella vuota forse giustificata dalla questione dell’errore progettuale, un’onta capace di generare a sua volta svariate e sibilline illazioni circa l’uscita di scena di questa persona.

È però lecito supporre che un’opera così mastodontica non potesse essere affidata a un signor Nessuno: si può allora immaginare un professionista, verosimilmente un ingegnere, forte già di un curriculum di tutto rispetto, che approccia l’incarico di quel ponte con l’intenzione di farne il proprio capolavoro; intorno a lui tecnici, imprenditori e politici ben contenti di assecondarlo finché tutto va bene. Ma qualcosa non va bene, forse c’è quell’errore, forse c’è dell’altro, cosicché l’impresa si rivela troppo grande per lui, che paga, o per tutti quanti, che però fanno di lui il capro espiatorio: una rete di conoscenze, interessi e affetti fino a poco prima dichiarata od ostentata diventa allora motivo di imbarazzo per tanti, per troppi, che di colpo si affrettano ad occultarla.

Ecco allora il limbo in cui viene collocato, per più di sei decenni, quell'unico ponte, fino a quando, fra gli anni Novanta e Duemila, non riprende campo l’idea del Terzo Valico: contemporaneamente, in diverse fasi e per svariati motivi, si procede alla demolizione del viadotto di Coronata, quasi a volersi disfare del testimone scomodo di un precedente molto poco illustre. La rimozione però è solo un’illusione di chi la attua: il Rimosso rimane, non ha fretta, e a tempo debito, a modo suo, si ripresenta a reclamare i sospesi, a cui andranno sommati interessi tanto più grandi quanto più lunga è stata l’attesa. Non ci si stupisca se nel 2017, a quattro anni dal trionfalistico avvio dei lavori, il Terzo Valico si è tradotto in un cumulo di mandati di cattura, cantieri sotto sequestro, tempistiche sballate e appalti da riassegnare; addirittura il “Corridoio Reno-Alpi”, di cui quest’opera è parte essenziale, sembra non essere più una priorità del Governo, mentre Trieste (di nuovo Trieste… ) viene dichiarata porto franco per rendere la direttrice adriatica funzionale alla nuova “via della Seta” programmata dalla Cina.

Tutto sommato allora, malgrado la demolizione, quell’unico ponte sembra oggi gettare più che mai la sua ombra su una Genova esangue e spaesata mentre, chissà dove, un ingegnere ramingo sogghigna beffardo contemplando i rovesci di una città che, erroneamente, si credeva ormai sollevata dall’obbligo di fare i conti con lui.

Bibliografia
R. Genova, C. Serra, 1935-2015. Ottant’anni di Autocamionale, Genova, 2015
Che fine ha fatto il terzo valico?
Trieste dopo 63 anni diventa l'unico porto franco