Tolgo la parola e porgo il piatto con la porzione del mio sapere. Di quel tanto che ho appreso per via diretta dalle mani creative e laboriose che mi hanno preceduta. Sono le mani di mia nonna Enrichetta, di mia zia Luigia, di mia zia Maria, di mia mamma. Da loro ho ereditato il piacere di preparare e donare cibo buono. Di questo si tratta. Questa la differenza tra me e il cuoco a cinque stelle. Alzo gli occhi e per me si accendono tutte le stelle del cielo.

In cucina è un po’ tutto un mutuo soccorso. Metto insieme questo con quello per dare o ricevere quel particolare sapore fatto di equilibri ora semplici ora complessi. Ieri sera, ad esempio, ho marinato il filetto di pesce persico con limone, salsa di soia e finocchio selvatico. Questa mattina ho fatto saltare in padella cipolle e peperoni, ho poi versato queste verdure sul pesce e nel forno a 180 gradi gli ingredienti si sono scambiati le loro essenze. Ho servito il pesce accompagnato da cous cous con ceci e verdure. È una mia creazione. È l’incontro di sapori orientali e mediterranei. Altre volte invece seguo rigorosamente la ricetta originaria, la tradizione. È il caso dell’insalata russa.

La sua è la stagione invernale e non so per quali vie da una cucina della terra del nord sia arrivata alla cucina di mia nonna. So solo che il genio di mia nonna, nell’arte di preparare quest’insalata va rispettato. Non cambio neanche una virgola. L’ingrediente fondamentale è il san pietro, pesce ormai in via di estinzione, dalla carne tenera e delicata che può esaltarsi solo nell’unione con rape rosse, patate, fagiolini e carote tagliati a pezzetti con la pazienza della passione e poi lessati. L’aggiunta di canocchie, acciughe, capperi, verdure sotto aceto e abbondante maionese toglie l’eccesso di delicatezza e dà tono e vigore. L’insalata russa era e rimane un autentico cibo da zarina al quale non si può aggiungere o togliere nulla. Sia quando rimango fedele alla tradizione, sia quando tento altri percorsi, mi pongo ugualmente in relazione creativa con gli elementi che le mie mani trasformano. Vado così alla ricerca dell’essenza di quel cibo che da me, proprio in questo momento, sta prendendo forma e sostanza. Pane, vino, pesci, moltiplicare, dividere; gesti antichi ma radicati fortemente nella nostra memoria.

Ma è una passione. E la passione può prendere strade pericolose. Nella mia mente nascono così pensieri strani.
Paure. La paura di avvelenare coloro che più amo. E così, quando vengo presa da questi demoni preparo il cibo e poi lo butto via. Mi vengono dubbi. Mi viene il dubbio che le uova non siano fresche, che nella salsa di pomodoro sia entrata un po’ d’aria, che cibi congelati e surgelati non siano più tali. Accade la stessa cosa con pregiati vasetti di verdure, tonno e acciughe sott’olio che regolarmente finiscono nella spazzatura. Ma tocco veramente il fondo quando preparo il polpettone o le polpette, non a caso piatto preferito da Natalia e Federico, i miei nipoti, le creature che prediligo, per le quali, contemporaneamente, provo uno sensazione di profonda inadeguatezza.

Inizio dal macellaio. Mi raccomando che tolga le piccole ossa del petto di pollo. Il macellaio regolarmente mi rassicura e io regolarmente non mi fido. Così a casa, dopo essermi accuratamente lavata le mani con il sapone, inizio la perlustrazione della carne macinata. Non sento nulla di appuntito, ma può essermi sfuggito qualche ossicino frantumato. Pericolosissimo. Butto nella spazzatura o continuo? Continuo. Prendo due uova biologiche dal frigorifero, fresche, freschissime, c’è anche stampata sul guscio la data di nascita, le apro e inizio ad amalgamare carne, uova, parmigiano, pane grattugiato e un po’ di noce moscata. Un po’ di noce moscata; se è poca non dà quel sublime profumo che deve emanare il polpettone, se è troppa può essere velenosa. Così ho letto da qualche parte. Non le avvelenerò mica le mie adorate creature? Ecco. Ho messo troppa noce moscata. Assaggio così sarò la prima a morire, come è giusto che sia. Non sento alcun profumo di questa spezia. Allora ne aggiungo un altro poco. Sì? No? Non so. Non so più nulla. Avanzo, indietreggio.

Metto la pentola nell’acqua, invece poi metto l’acqua nella pentola con zucchine, carote, cipolle, sedano rapa e polpettone. Quanto tempo ci vorrà perché il polpettone si cucini alla perfezione? Mezz’ora? Un’ora? Due ore, così sono sicura che tutta la carne è stracotta. Non finisce qui. Se ne rimane - per fortuna accade di rado - lo metto in freezer e dopo qualche tempo finisce nella spazzatura con molti altri cibi contenuti nel congelatore.

Ho riletto questo manoscritto solo oggi che è il 31 gennaio 2009. Sono trascorsi sei anni e il mio rapporto con il cibo è leggermente peggiorato. Non butto più; il cibo lo regalo ad amici e parenti tutti (tutti tranne naturalmente figlie e nipoti). La paura ha ceduto il passo al desiderio inconscio di eliminare le persone che mi sono state e mi sono, forse, troppo vicine o, forse, troppo lontane. Non so bene perché: l’inconscio, per sua natura, è misterioso. Quindi, come al solito, vado a tentoni priva di certezze. Allora, forse. Forse, dopo una vita tumultuosa e disordinata, ma anche quotidianamente impegnata a sfamare una piccola tribù, spesso allargata, qualche parte oscura della mia mente ha detto “adesso basta, faccio fuori tutti quelli che inciampano nella mia vita tranne Marcella, Valentina, Natalia e Federico”.

Il dramma è tutto qui. Riuscirei a gestire lo strazio della ricerca più che certa del cibo non avvelenato, per nipoti e figlie, dato che pranziamo insieme solo nei giorni di festa, ma con me come me la cavo? Con me che mangio almeno tre volte al giorno e vado al ristorante due o tre volte la settimana? A questo punto potrei dire: “Vado al ristorante perché mi piace non mangiare con amiche e amici”. Al ristorante, tranne che al “Punto macrobiotico”, i veleni sono di casa. Abitano soprattutto lì. Il menù ne rivela nomi e cognomi, il mio olfatto ne sente gli umori volare a mezz’aria. Le minestre asciutte e le carni mi sono vietate. Non mi piacciono. Mi piace invece il pesce, ma non deve avere le spine; non voglio correre nessun rischio. Il pesce senza spine è quasi sempre surgelato. I surgelati a casa li butto o il mio inconscio assassino dopo un po’ li cede. E vengo a mangiarli al ristorante? No. Allora non mangio neanche il pesce. Mi rimangono le verdure. Cotte o crude? Mi viene un attacco di panico. Sono in lotta con il mio inconscio che non mi vuole morta avvelenata, anzi mi vuole viva a ogni costo. È la stessa cosa. Ma sono in preda al delirio.

Pur mangiando malissimo arrivo a un compromesso: zuppa di verdure (surgelate), verdure alla griglia (orrende) con zucchini crudi e radicchi bruciati. Quando riesco a far tacere l’inconscio, alle verdure aggiungo il tomino oppure rischio il pericolo della spina mangiando pesce azzurro alla griglia che per tutta la notte tenta di risalire la corrente. In pizzeria poi sono arrivata all’essenza - meno di così non si può - mangio solo la schiacciatina: le salse di pomodoro possono venire da lontano (dalla Cina?) e la mozzarella contiene tutte le schifezze riunite. Da trent’anni quello che mangio quotidianamente è rigorosamente biologico e spesso macrobiotico. Da quasi trent’anni lascio una quantità considerevole del mio stipendio nei negozi Bio; spesso compero insalate di cereali, stufati e polpette di tofu, di seitan già pronti, ma non devono contenere piselli, tonno, carciofi, gamberetti. Praticamente non devono contenere nulla. Nulla tranne il chicco di riso o di miglio o di farro.

Scarto. Con la lente d’ingrandimento scarto quei pezzetti di cibo colorato che renderebbero gustoso quel che mangerò. Scarto e cedo. Infatti ultimamente l’inconscio mi ha fatto presente che gli alimenti biologici, in scatola o in vasetto, non contengono conservanti e quindi sono più pericolosi degli altri. Nel negozio Bio, mentre faccio la spesa, ho un moto di rivolta e compero, a cifre da capogiro, tonno di prima scelta, salsa di pomodoro, crema di tofu, verdure sott’olio. A casa poi apro e già nel primo incontro-scontro col tappo chiuso a pressione, mi sorgono i primi dubbi (si è aperto troppo facilmente), segue poi il colore del tonno (sembra tendere al grigio) e infine di nuovo il colore sospetto di salse, creme e verdure. Non assaggio neanche, ricaccio tutto in frigorifero e alla prima occasione cedo, regalo, dono il dubbio.

Alcuni fra amici e amiche che ricevono tutto questo ben di Dio, e conoscono i meccanismi dietro ai quali si nasconde tanta generosità, sperano che il mio inconscio diventi sempre di più un killer spietato. Loro in effetti dimostrano di possedere anticorpi potenti e una salute di ferro; ancora nessuno ha avuto sintomi di avvelenamento. Per quanto mi riguarda, per eliminare le paure dovrei nutrirmi solo con un pugno di riso. Il mio inconscio, per mantenermi in vita, ha eliminato tutto il resto. Mauro, il mio psichiatra, non è d’accordo. Mentre parlo e parlo di quel che mi è capitato quand’ero bambina, e poi i fatti salienti dell’adolescenza e i lutti della maturità, lui alza gli occhi dal suo taccuino e mi dice: “È il tonno. È il tonno in scatola. Fino a quando non mangi il tonno non guarisci”.