“La rabbia è la mia condizione di vita da sempre. Sono l’ira e la violenza a spingermi a dipingere. Io dipingo prima di tutto per guarirmi… ”.

La rabbia. Che cos’è la rabbia? È un sentimento. Un’unghia che raschia su una lavagna vuota. È un artiglio aggrappato al silenzio. Un braciere. Un incendio. Un nodo inscioglibile. La rabbia. È un’emozione istintiva. Feroce. Primitiva. Incontenibile. Ma che la nostra società ci fa contenere. Contieni, trattieni, stringi i pugni, stringi i denti, manda giù, inghiotti, fai buon viso a cattivo gioco, mantieni la calma. Sii calma. Stai calma. Calma e sangue freddo. Ma il sangue ribolle in un’indole rabbiosa. E non sempre è sano – anzi, probabilmente non lo è mai – lasciarla implodere, arrestarla, fingere che non esista, reprimerla come una belva in cattività. Le belve non stanno buone per sempre. E se le teniamo a lungo in catene rischiamo poi di vederle accanirsi contro di noi. Inibire la rabbia può rivelarsi deleterio. La si può somatizzare (ecco la belva che non sguinzagliata ci morde da dentro) e vederla trasformarsi in malattia. Lasciarla fluire, invece, può risultare risolutivo. E non parlo dello sfogo di un momento, ma della mutazione di questo stesso fuoco in una energia diversa, migliore, più sana. La rabbia può diventare un’arma creativa. Un potenziale, un serbatoio, una risorsa. Il veleno che diventa medicina.

Non è la prima volta che dedico le mie parole a donne capaci di vivere l’arte come fosse una terapia. Proprio il mese scorso vi raccontavo di come l’artista giapponese Yayoi Kusama abbia trovato salvifica la trasposizione di invalidanti ossessioni in una e una soltanto: i pois. Puntini colorati moltiplicati all’infinito. Estesi al tutto. E in un certo qual modo curativi per la sua mente. L’arte salva, culla. Trasforma. Lenisce il dolore. A volte guarisce. L’arte è nido, specchio, oceano. È un luogo dove ritrovarsi, quando il mondo ci distrae da noi stessi. La donna di cui scrivo oggi ha dipinto per tutta la vita, e lo ha fatto per prendersi cura di sé. Come se dipingere equivalesse ad ascoltarsi, prestarsi voce, abbracciarsi, darsi uno spazio, un tempo e un senso. Elevarsi e guarirsi. Nello specifico questa donna, un po’scontrosa e solitaria, vedeva nella pittura un’alternativa all’infelicità, una cura di bellezza, una strategia di miglioramento, il medicamento di antiche piaghe. “Dipingo per guarirmi” diceva. E dipingeva, fin dalla primissima adolescenza, soprattutto per sentirsi meno brutta, meno povera, meno ignorante. Soggetti e oggetti provenienti dal suo baule mnemonico si ripetevano sulla carta, rielaborati in forme semplificate o distorte, talvolta affilate, ma sempre altamente espressive. Si chiamava Olga Carolina Rama questa donna, ed era nata a Torino nel 1918. Figlia di un imprenditore e di una donna con gravi problemi di depressione, sviluppò precocemente un interesse per la pittura e sin da adolescente prese a dedicarvisi ininterrottamente. Dipingeva da autodidatta, e la sola guida che ebbe fu quella di Felice Casorati, forse l’artista torinese più celebre di quegli anni.

Il suo primo lavoro noto si intitola Nonna Carolina e presenta già alcune peculiarità del suo linguaggio: la distorsione estetica, la tensione, la provocazione. La donna ritratta al centro del foglio ha un’espressione tormentata e pare venga strangolata da una morsa di sanguisughe che le cingono la gola. Nello spazio attorno a lei, verosimilmente galleggiano protesi ortopediche.

Carol Rama, questo il nome con cui il mondo dell’arte l’ha conosciuta, ha frequentato alti nomi della sua epoca: da Edoardo Sanguineti a Cesare Pavese, da Andy Warhol a Man Ray. Ma il suo successo è arrivato decisamente tardi. Aveva superato i sessanta l’anno in cui la critica e curatrice Lea Vergine – nota soprattutto per la sua ricerca in ambito performativo e comportamentale – ne ha scoperto il genio, il talento e l’enorme quantità di opere prodotte nel tempo. Era il 1979. Carol stava esponendo alcuni lavori della sua primissima produzione ad acquerello presso la Galleria Martano di Torino. La Vergine li notò immediatamente e volle sceglierne alcuni per una mostra itinerante da lei curata e dedicata alle donne dell’arte del Novecento, che si intitolava L’altra metà dell’avanguardia. Da quel momento trovò finalmente luce ciò che giorno dopo giorno, anno dopo anno, era germogliato all’ombra di un quasi anonimato.

Ma chi era questa donna tanto arrabbiata e ostinata? Era una ex bambina scossa da considerevoli traumi: la separazione dei genitori, la morte del padre – suicidatosi a poco più di cinquant’anni in seguito al fallimento della sua azienda produttrice di bici e automobili, spazzolata via dall’avvento della FIAT –, l’esaurimento nervoso e conseguente ricovero in manicomio della madre. Carol si è trovata precocemente senza figure genitoriali a farle da guida, e ha dunque trasformato la pittura in un rifugio e in una medicina. Ciò che affiorava sulla carta o sulla tela non era che l’emblema di quella mutilazione affettiva elaborata attraverso il segno, la forma, il colore e con una certa brutalità. Molto spesso, infatti, erano proprio corpi mutilati, quelli che lei stessa vedeva nascere dalle sue mani. Corpi nudi, spalancati, violati. Corpi minacciati, deformi e provocatori. Ogni corpo da lei raffigurato era probabilmente il suo. Corpo pulsionale, carnale, aperto. Ferito dalla paura e dall’assenza. Dalla paura dell’assenza. E dalla rabbia che tutto questo genera. Nei suoi lavori si ripetono spesso gi stessi simboli: lingue affilate che escono serpeggiando da labbra serrate, vagine spalancate, protesi. Uno degli acquerelli più noti di questo periodo è la celebre Appassionata, una donna totalmente nuda che se ne sta sdraiata e immobile su di un lettino di contenzione in metallo. Non possiamo non cogliere nella crudezza di questa immagine un evidente rimando alla condizione materna. Arti staccati dal corpo. Il dolore tradotto in immagine. L’arte che fa della ferita interiore un pozzo profondo al quale attingere per creare, raccontare, comunicare. E liberarsi. “Vogliono guarire togliendo i desideri, ma quelli me li tengo ben stretti”, diceva.

Era una donna libera. Libera soprattutto nella sua ricerca. Non si sforzava di somigliare a nessuno, né di aderire ad alcuna tendenza. Creava per necessità e passione. Per rimediare a qualcosa di rotto dentro di sé. Il suo lavoro è sempre stato autoreferenziale. Ciò che l’aveva attraversata la spingeva a creare. Pur rasentando la Pop Art, l’Arte Povera, l’Astrattismo e il Surrealismo, Carol ha sempre e soltanto usato il proprio linguaggio. Immediato, ancestrale, imprescindibile. Negli anni Sessanta ha preso a inserire oggetti all’interno della tela. Più precisamente si trattava di forme sferiche, spesso occhi di vetro che si ripetevano, e sporgevano famelici dalla superficie. O ancora, sceglieva di inserire materiale organico come unghie o denti. Questa serie, titolata Bricolage, fu poi ampliata con l’inserimento di gomme o camere d’aria – evidente rimando alla memoria paterna.

La morte l’ha sorpresa di recente nella sua casa torinese di sempre, ubicata al 15 di via Napione. Carol se n’è andata a bassa voce il 25 settembre 2015. Oggi il suo scrigno creativo e abitativo, la sua casa-studio, la cellula della sua genialità, è divenuta un opera a sé. Pare infatti che la Soprintendenza ai Beni Architettonici del Piemonte vi abbia posto il vincolo per ribattezzarla come museo. Carol ha vissuto tra quelle mura nere sin dagli anni Quaranta, accumulando nel corso degli anni opere, fotografie, ricordi e oggetti inusuali: dai pennelli alle locandine, dai regali di Duchamp alle polaroid che la ritraevano con Warhol o Pasolini, dalle sue collezioni di scarpe introvabili alle protesi ortopediche. Di abitativo, in quella cellula, c’era l’essenziale. Un letto, un frigo, un fornelletto a gas da campeggio. Non era e non fu mai una donna dagli augurabili requisiti, per dirla alla Plath. Al contrario. Fu donna svincolata da ogni dovere, ruolo e obbligo. La sola sua fede era la pittura. Non si sposò, non ebbe figli. E visse libera. “L'arte se non è già la vita, almeno è libertà".

Il giusto riconoscimento le giunse prima con una grande antologica realizzata presso lo Stedelijk Museum di Amsterdam (1998) e poi con il Leone d’Oro alla carriera attribuitole da Francesco Bonami durante la Biennale di Venezia del 2003. Oggi le sue opere vengono quotate sino a 250.000 euro. E quel tardivo riconoscimento la sorte ha voluto bilanciarlo con uno dei premi più importanti e lodevoli che un artista possa ricevere: il Premio Presidente della Repubblica Italiana, conferitole proprio dal Presidente Giorgio Napolitano nel 2010.