Tra gli interventisti italiani più convinti della necessità dell’entrata in guerra dell’Italia a seguito della firma del Patto di Londra del 26 aprile 1915, ci fu Giuseppe Ungaretti. Il suo diario di guerra è quanto mai interessante, e studiato in tutto il mondo, caratterizzandosi per essere stato scritto direttamente sui campi di battaglia. Raccolte sotto il titolo Allegria di naufragi, le poesie che costituiscono l’interessante diario, prodotte in raccolte con altri titoli, rivelano una rara capacità di descrivere le scene che si presentavano davanti agli occhi del poeta. Ungaretti qui adotta lo stile ermetico. Parole scelte con cura, connotate, graffiate in fretta sulle cartine che servivano per avvolgere i proiettili e scritte come se fossero l’ultimo atto di un soldato incerto sul suo destino. Così Veglia è il racconto, incisivo, delle ore trascorse accanto al compagno, morto per mano di un cecchino, che digrignava i denti al cielo, mentre Ungaretti dichiara di non essere mai stato così attaccato alla vita. E poi i “brandelli di muro” che rendono così bene l’idea della sofferenza generata anche nella popolazione civile sul Carso, dove Ungaretti combatté e dove è stata scritta la poesia San Martino. Le poesie spesso avevano una prima versione, più lunga e articolata, poi epurata dall’autore di tutto ciò che poteva essere orpello e lasciata al suo senso stretto. Bellissima la poesia scritta durante la licenza natalizia a Napoli, quando il soldato a riposo momentaneo non vuole altro che “il caldo buono”, rifuggendo i “gomitoli di strade” ricchi di colori e di gente. Il rumore era troppo, bastava il silenzio a cercare di dimenticare il caos della prima linea. Così come sentiremo nel capolavoro indiscusso della letteratura di genere, sul primo conflitto mondiale.

Soldato come Ungaretti, ma su un altro fronte, Erich Paul Remark scrisse il romanzo Im Westen nichts Neues, Niente di nuovo sul fronte occidentale, pubblicato per la prima volta nel 1929. L’autore scelse lo pseudonimo Erich Maria Remarque con il quale è universalmente noto. La notevole differenza tra la testimonianza di Remarque e quella di Ungaretti sta proprio nel fatto che il romanzo tedesco è stato scritto ben dopo la guerra, come denuncia di come i ragazzi venivano imboniti di ideali di gloria e di patriottismo, infusi di un nazionalismo che era probabilmente sincero, ma appartenente ad un tempo diverso da quello che i giovani al fronte si troveranno davvero a vivere. Infatti, nessuno era pronto a combattere quella nuova guerra, così diversa da quelle ottocentesche per le quali spesso gli insegnanti nutrivano concetti studiati a tavolino, ricordi di servizi militari con divise dai bottoni luccicanti e stivali simbolo di forza e potere.

Remarque, all’alba dell’avvento nazista, pubblica un romanzo che narra la realtà vista dai ragazzi compagni di collegio in trincea. Paul Bäumer, Alberto Kropp, Haje Westhus, Müller hanno diciannove anni e sono compagni di scuola. Paul si arruola volontario per la Grande Guerra seguendo gli insegnamenti e la propaganda interventista del professore Kantorek. Il libro si snoda svelto e facilmente leggibile, portando il lettore a immedesimarsi nella storia e a sentirsi vicini i ragazzi. Paul morirà al termine del racconto, in una giornata così tranquilla da fare scrivere sul bollettino di guerra che, appunto, niente era accaduto sul fronte sul quale erano di stanza i ragazzi, il fronte occidentale. Niente era anche il compagno morto a seguito dell’amputazione della gamba; il tentativo di suicidio di un compagno di Paul anch’egli amputato; oppure niente era, per chi comandava gli assalti, il razzo scoppiato addosso a Müller che, molto pratico a fine di salvarsi la vita, si preoccupava di togliere gli stivali buoni dagli amici ormai morti, per poterli usare lui o darli a chi ne poteva fare uso migliore di un morto che spesso non si aveva il tempo di seppellire. Ironia della sorte, il professore capiterà proprio nel loro reparto e così i ragazzi potranno vendicarsi della sua cattiveria e severità, fatta spesso di punizioni e di ordini che ora, in prima linea, apparivano senza senso. Non mancano momenti umoristici nella narrazione, come quando nelle retrovie i soldati cercavano di presentarsi in casa delle ragazze vestiti al meglio, e quelle scene che funzionano come pinza nel testo complessivo, non fanno altro che rendere ancora più assurdo il racconto di una guerra assurda, in cui tutti cercavano una ragione per vivere e sopravvivere e una ragione per quell’assurdità, loro che non sarebbero più stati ragazzi e che, raramente, avevano il tempo per essere solo giovani della loro età.

Remarque come Ungaretti non riesce a stare a casa tranquillo. Quando si ritrova in licenza, infatti, Paul è infastidito dalla voglia della gente di sapere come si sta al fronte, elogiando l’eroismo dei propri ventenni che, però, non vedevano niente di eroico nello strisciare nelle trincee assieme ai topi. Accanto ai giovani studenti ci sono un calzolaio e un fabbro, uomini poco istruiti ma che sapevano bene com’era la vita e dei quali i compagni di collegio hanno profonda ammirazione. Tjaden, il fabbro, si preoccupa solo di sopravvivere all’istruttore Himmelstoss durante l’addestramento che trascorre proprio con Paul e anche in questo caso sembra di vivere come a scuola con il proprio insegnante. Per Paul e il suo gruppo, non avranno più senso tutti quegli imperativi e quegli ordini, perché in prima linea dovranno tirare fuori solo il loro coraggio e il loro istinto per cercare di sopravvivere alle nuove armi, ai gas, alle bombe. A riposo, a nove chilometri dal fronte, dove arriva il rancio abbastanza caldo e dove c’è il tempo per lavarsi e riordinare le idee, non ci si chiede più perché si è lì: ci si rende conto che era tutto falso, tutto lontano dalla realtà, tutto narrato solo da chi aveva solo le parole per dare un senso alla propria vita. “Mi alzo: sono contento. Vengano i mesi e gli anni, non mi prenderanno più nulla. Sono tanto solo, tanto privo di speranza che posso guardare dinanzi a me senza timore. La vita, che mi ha portato attraverso questi anni, è ancora nelle mie mani e nei miei occhi. Se io abbia saputo dominarla, non so”, scriverà Remarque alla fine del romanzo, poco prima che il protagonista venisse ucciso. Remarque scriverà poi anche durante la seconda guerra mondiale, quando inorridirà dinanzi all’evidenza che l’essere umano non aveva ancora compreso che si deve evitare i conflitti in ogni modo possibile.

Memoriale interessante, pur se con alcune contraddizioni, è il Giornale di guerra e di prigionia scritto da Carlo Emilio Gadda, poi noto anche per romanzi ambientati durante il ventennio fascista e pubblicati dopo la Seconda guerra mondiale. Anche questo testo è carico di immediatezza, pur se meticolosamente sistemato nei mesi seguenti la pace. Gadda è un interventista convinto, arruolatosi volontario nel giugno del 1915 assieme al fratello Enrico. È un alpino e viene mandato a Edolo, in Valcamonica, come sottotenente. A Edolo è stato creato un percorso per interessare i visitatori della graziosa cittadina su quell’ospite illustre che ha immortalato il paese, del quale anche un battaglione delle truppe alpine ha preso il nome. L’analisi delle sue giornate è particolare, perché il punto di vista è molto introspettivo e dà la visione da parte del singolo di imprese collettive. Scrive, ad esempio: “Sto abbastanza bene di corpo, per quanto il troppo cibo preso ieri alla mensa e l’uso che vi si fa di vino e caffè, a cui io non ho l’abitudine, mi lascino un senso di odiosa sazietà e di intorpidimento intellettuale: ho anche un po’ di sonno”. Dovrebbe essere esaltato dalla guerra, invece è intorpidito a tal punto da non provare grande interesse per la montagna, che ama. Le notizie di guerra, poi, lo impensieriscono, eppure, scriverà ancora, che non trascorreva il tempo a pensare troppo alla guerra “non per indifferenza, ma per timore di soffrir troppo nella preoccupazione e anche perché sono continuamente distratto dalla vita giornaliera”. Principalmente lo infastidiva quella vita promiscua, senza un vero spazio proprio: “In complesso la vita spirituale rimane un po’ sommersa sia da ragioni di servizio propriamente dette, come la fatica, le occupazioni, ecc. sia da altre ragioni meno giuste, ma che pure si sommano a queste: la mensa lunga, chiassosa, e talora noiosuccia; il cibo un po’ abbondante; l’andare e venire per tutte queste spesucce che non finiscono mai; un po’ di caldo e di malessere, oggi; qualche bisticcio fra colleghi, qualche amarezza, qualche durezza che lascia male”. Già il 9 settembre, però, scriverà: “Adesso voglio inaugurare la politica dell’arabo e del siciliano: bando alla bonomia milanese, al mio ideale di bontà con tutti; il primo che mi ferisce si sente insultare a sangue, e se occorre la si vedrà a pugni, e peggio. Poiché in Italia non si impone il rispetto con le doti dell’animo, [...] Il rispetto si impone con la paura”. Più avanti nel tempo, sempre a Edolo, lontano dal fronte, in quella che per lui è inazione, si sente inutile ancora di più e scrive “… per chi ama come io amo la patria, è difficile essere calmi, sereni, vedendo che lo cose non vanno come dovrebbero andare”.

Lascerà poi una nota di guerra alla fine dell’anno, quando è a Ponte di Legno, analizzando lucidamente che il periodo di preparazione da lui trascorso in quei luoghi ampiamente descritti, deve adesso lasciare il posto al suo intervento al fronte, dove tutto sta andando ben peggio di quanto dovrebbe e di come lui stesso pensava. Ha bisogno di andare a combattere perché pensa di potere dare quel contributo che l’ha portato ad arruolarsi volontario, ma senza ben capire il tempo in mezzo che sarebbe intercorso prima della vera e propria prova del fuoco. Ecco così che il 6 gennaio 1916 avrà il suo battesimo bellico di cui dà nota. In prima linea continuerà a scrivere dell’inefficienza di lotta della classe operaia e contadina, non ben convinta secondo lui del motivo del combattere e, pertanto, poco propensa ad impegnarsi davvero, senza indagare sugli errori tattici. Per lui il generale Cadorna è uno dei migliori e ripone molta fiducia nel suo comando. Gadda addita alla solita abitudine tutta italiana di sparlarsi addosso, il fatto che tutti, dagli ufficiali ai soldati soprattutto, critichino i comandi e le tattiche. L’autore, appunto, imputa alla volontà di critica le “calunnie”, senza rendersi conto di come spesso siano soltanto la cronaca nuda e cruda degli episodi tattici. Gadda verrà preso prigioniero durante la tristemente famosa Battaglia di Caporetto e anche a seguito della prigionia, che gli porterà seri guai fisici e morali, non si renderà mai conto che l’analisi doveva spostarsi da lui e divenire più generale. Continuò, a differenza di Paul nel libro di Remarque, a imputare al singolo torti, senza provare ad ampliare le sue vedute allo Stato Maggiore tutto e alle scelte belliche di fondo. Finirà per sentirsi inutile lui stesso, a seguito degli eventi che l’hanno portato a cedere le armi.

Gadda stesso scriverà in seguito di non essere un Remarque, autore che ammirava e con il quale provava una certa comunione di vissuti e di scritti, dato che entrambi si erano trovati a vivere la stessa epoca e le stesse pene. Scrisse, infatti: “anch’io, come tutti, son disceso con la sensazione e con il pensiero, cioè con il corpo e con l’anima, ai fatti perentorii e banali della vita di guerra: e alla brutale immediatezza di questi fatti ho riconosciuto valore di causa, da poi che a volte essi vennero motivando tutta una serie di altri fatti bruti e reali, prima ancora che la volontà e la ragione potessero. Ho visto la volontà sommersa dal caso, come una barca dalla risacca: e il chiaro pensiero onnubliarsi e dissolversi nella stanchezza: ho visto in altri e sentito in me”. Del resto, Gadda pensava che la banalità dei fatti terribili e brutali della guerra definissero la sostanza molto più degli ideali che l’hanno giustificata e resa desiderabile ai cuori più nobili, a quelli cioè che sentivano di dovere lottare per la patria, per il bene della patria e il suo onore. Per esserne degni figli e degni difensori, allo stesso tempo vedendola forte e grande, con i suoi territori irredenti finalmente consegnatigli e territori coloniali dove poter sperare di coltivare, lavorare, migliorare le proprie aspettative di vita. Gadda racconterà nel suo Giornale le miserie quotidiane, quando il vivere si era trasformato per lui in sopravvivere puro e semplice, anche bruto per certi versi, vedendo in un pediluvio tutto l’orizzonte dei suoi anni, tutto quanto poteva desiderare ardentemente dalla vita.

A proposito della tristemente famosa Battaglia di Caporetto, Gadda scrisse: “Lasciammo la linea dopo averla vigilata e mantenuta il 25 ottobre 1917 dopo le tre, essendo venuto l’ordine di ritirata. Portammo con noi tutte le quattro mitragliatrici, dal Krašjj, all’Isonzo (tra Terranova e Caporetto), a prezzo di estrema fatica. All’Isonzo, mentre invano cercavamo di passarlo, fummo fatti prigionieri. La fila di soldati sulla strada d’oltre Isonzo: li credo rinforzi italiani. Sono tedeschi! Gli orrori spirituali della giornata (artiglierie abbandonate, mitragliatrici fracassate, ecc.). Io guastai le mie due armi. A sera la marcia faticosissima fino a Tolmino ed oltre, per luoghi ignoti”. Venne portato a Rastatt con gli altri prigionieri, dove rimase fino al 28 marzo del 1918. Fame, freddo, erano la compagnia solita di tutti. Le baracche contenevano un centinaio di ufficiali in cuccette sovrapposte, con qualche tavolo e qualche sgabello, un paio di stufe. Per pasto, talvolta riceveva due patate lesse, un mestolo di brodo, delle rape, dei pezzetti di merluzzo. Prevalevano pensieri disperati, di profonda prostrazione psichica, dolore, frustrazione, angoscia: questo lo avvicina al Paul di Remarque, nel considerare tra le righe delle sue annotazioni, che aveva solo ventiquattro anni e tutto avrebbe potuto immaginare nell’arruolarsi volontario per quella guerra, che finire così, senza orizzonte se non cercare di trascinarsi da un giorno all’altro. E oltre ai suoi interiori tormenti, la visione dei compagni di sventura poco propensi a dedicarsi a pensieri elevati per la patria, che maledicevano o schernivano, non lo aiutava a scrollarsi di dosso quella sua amarezza. Sembrava davvero tutto inutile, tutto perduto. Eppure, allora come negli anni Trenta, Gadda rimase convinto della necessità di quel conflitto e della giustezza delle sue scelte. Contestava solo la tremenda differenza tra gli ideali e la realtà per come gli si era presentata dinanzi.

Di andamento simile è il romanzo Ed ora andiamo! di Mario Muccini, sottotenente livornese, classe 1895. Raggiunse la zona di guerra nell’ottobre del 1915, sollevato perché non sopportava più la vita spesa tra picchetti, piazza d’armi, ispezioni, umiliante vita di caserma pensando che gli amici erano già in trincea, a combattere. Finalmente, quindi, giunge a Palmanova, poi sull’Isonzo, sotto l’acqua, con il cannone che rombava sempre in lontananza. Una lontananza destinata ad avvicinarsi sempre di più. Scriverà Muccini: “… mi sento preso, trascinato inerte nei tentacoli di un mostro immane, spaventoso: la morte”. Per concludere, altro interessante testimone della prima guerra mondiale è stato Ernest Hemingway con A Farewell to Arms, Addio alle armi, in prima edizione nel 1929. Nel romanzo, l’autore statunitense racconta la storia di Frederic Henry, adoperando parti autobiografiche, dato che Hemingway prestò servizio come conducente di ambulanze della Croce Rossa americana; ferito, si era ritrovato in un ospedale dove aveva avuto una storia amorosa con l’infermiera Agnes von Kurowsky intorno ai giorni della Battaglia di Caporetto. Addio alle armi venne pubblicato in Italia solo nel 1948, perché era stato ritenuto lesivo dell’onore delle Forze Armate durante il regime fascista, soprattutto per l’accurata descrizione della situazione durante la disfatta di Caporetto e un certo grado di contrarierà alla guerra e alle armi dimostrato dallo scrittore. E qui si vede il conflitto vissuto proprio dal protagonista della vicenda, Frederic, che in guerra aveva deciso di andarci volontario, anch’egli farcito da idee di patriottismi e di eroismo.

Il battesimo della realtà anche per Frederic fu tutt’altro che indolore e se i soldati italiani arrivati a Palmanova con Muccini vedevano i treni trasportare giovani come loro con arti amputati, teste fasciate, ferite di ogni sorta, Frederic quei feriti li portava in ospedale, cercando di servire ad arginare almeno di un po’ quell’immane tragedia. Anche Frederic, come l’autore nella vera storia, si innamora di un’infermiera, mentre ascolta le conversazioni dei suoi commilitoni italiani che sono sfibrati dalla guerra. Una guerra con la quale non tutti sono d’accordo, non tutti erano d’accordo nemmeno nel 1915. Poi si arriva al 24 ottobre 1917: il fronte italiano viene sfondato dall’avanzata dell’esercito austroungarico e il reparto di soccorso viene travolto dai soldati feriti e in ritirata, costringendo gli infermieri ad abbandonare i mezzi di soccorso per l’impossibilità di adoperarli nel caos che aveva sostituito le strade.

Hemingway racconta di soldati sbandati o ammutinati, mentre i soldati austriaci avanzano senza tregua e i carabinieri si preoccupano di fermare ogni ufficiale che non fosse al comando delle proprie unità, per interrogarlo e fucilarlo sul posto se si ipotizzava anche solo lontanamente che fosse disertore o sbandato. Così accade anche per Frederic che, però, riesce a scappare fino a Stresa, dove già lo aspetta la sua amata Catherine con la quale fugge in Svizzera. Catherine morirà dando alla luce il figlio di Frederic e questi così rimane solo, amareggiato per la vita che gli aveva posto dinanzi l’illusione della lotta per ottenere qualcosa, mentre invece era stato il pretesto per portare via tutto a tutti. Il figlio nato morto della coppia, infatti, è l’archetipo di un momento in cui i figli non nascevano più, per il conflitto e perché mancavano uomini, ma anche l’idea che l’umanità non possa più generare, essendo morta lei stessa come Catherine.

Addio alle armi, per questo suo finale, diventa un romanzo molto moderno, parte di un nuovo filone di narrazione. Analisi precise del testo e della storia dell’autore, fanno pensare che in effetti egli non abbia vissuto la Battaglia di Caporetto e quello che ne è risultato, eppure, basandosi su racconti di protagonisti e su sue esperienze belliche future, la disamina di Ernest risulta particolarmente efficace ai fini narrativi. I testi citati risultano essere tra i più significativi della produzione letteraria del Novecento.