Chi si avventurasse verso Oriente, nelle aride pianure dell'Anatolia centrale, disseminate di acquitrini salmastri e di basse colline da cui occhieggiano rovine di antichi caravanserragli, si troverebbe a un certo punto di fronte a uno spettacolo straordinario e inatteso: dalle brume autunnali o dalla caligine estiva vedrebbe ergersi dall'altopiano una gran montagna solitaria: il monte Argeo che sovrasta la città di Cesarea.

E' un grande vulcano alto quasi quattromila metri oggi inattivo, ma circa dieci milioni di anni fa ricoprì di materiale eruttivo le valli e le depressioni che l'orogenesi della catena del Tauro, nell' Anatolia meridionale, aveva generato cinquanta milioni di anni prima. Il materiale piroclastico vomitato dal vulcano non era particolarmente duro e si prestava ad essere eroso dagli agenti atmosferici e scavato, inciso e perforato dagli esseri umani dando origine a quel paese d'incanti che è la Cappadocia.

Per millenni le popolazioni di quella regione, per sfuggire guerre, invasioni e saccheggi costruirono città sotterranee immense, collegate le une alle altre da miglia e miglia di cunicoli, con camini d'areazione, pozzi, stalle e perfino basiliche. Le più grandi potevano ospitare fino a trentamila persone e si estendevano su undici livelli che arrivavano fino a 650 metri di profondità. Gli archeologi ne trovano continuamente e nel 2014, nel distretto di Nevsehir è stata scoperta la più vasta di tutte e si stima che il sito risalga a cinquemila anni fa.

Abissi nelle tenebre dunque, in cui trovare rifugio dalle calamità, riparo dal nemico ma anche risposte a tutte quelle domande cui la vivida luce del sole non sa rispondere. Tutte le civiltà hanno inviato eroi negli inferi per ottenere quelle risposte: Ercole, Ulisse, Enea, Dante solo per citare i più noti alla nostra cultura e in mondi ctonii si sono occultate, inabissandosi, le Tradizioni per attendere il momento più propizio in cui palesarsi nuovamente. Tutto il Medioevo, con le crociate e le rotte carovaniere che percorrevano la via della seta, echeggiava di leggende e racconti di favolosi regni a Oriente e straordinaria eco ebbe, nel 1165, la strana lettera che l'imperatore bizantino Manuele I Comneno ricevette da un mittente che si qualificava come "Presbiter Iohannes, Dominus dominantium".

In questa lettera il prete Giovanni, che si definiva anche "signore delle tre indie" e " Re dei re", descriveva il suo immenso regno situato nell'estremo Oriente, la cui capitale vantava palazzi fatti di gemme e cementati con l'oro, ove ogni giorno si tenevano banchetti con diecimila invitati allietati da folletti, nani, giganti, ciclopi e centauri. L'imperatore di Bisanzio, stupito, girò la singolare missiva a papa Alessandro III e a Federico Barbarossa creando così la leggenda del Regno del Prete Gianni. Come consuetudine cortese Manuele I Comneno rispose a questo misterioso personaggio, che peraltro si confessava Nestoriano quindi eretico, con una lettera di 1000 parole ma non vi fu seguito alcuno alla missiva e infine non si seppe più nulla, e alcuni pensarono che i grandi conquistatori, che a ondate successive devastarono l'Asia, Gengis Khan prima e Tamerlano poi, avessero cancellato ogni cosa.

Ma era inevitabile che dalla preistoria attraverso la storia, il mito di favolosi mondi a Oriente giungesse fino alle soglie del secolo breve: il 900 e da lì ai giorni nostri. Nel 1910, infatti, venne pubblicata l'opera postuma di Saint -Yves d'Alveydre intitolata Mission de l'Inde in cui si parlava dettagliatamente di un misterioso centro iniziatico sotterraneo di nome Agartha che si troverebbe in Tibet con evidenti riferimenti alla mitica Shambala della tradizione buddista del Kalachakra, una comunità di saggi iniziati che vivrebbero a Kalapa, la città della torre di Giada, situata nelle viscere dell'Himalaya.

Solo pochi anni più tardi, esattamente nel 1924, Ferdinand Ossendowsky, un pragmatico geologo ed esploratore polacco, personaggio al di là di ogni sospetto di fascinazioni mistico-esoteriche, pubblicò Bestie uomini e Dei il resoconto di un avventuroso viaggio dalla Siberia al Tibet nel corso del quale avrebbe appreso da più fonti dell'esistenza di un mondo sotterraneo le cui ramificazioni si estenderebbero ovunque, perfino sotto gli oceani e al centro del quale si troverebbe il regno di Agartha il cui sovrano, il "Re del Mondo" sarebbe a capo di una gerarchia iniziatica detentrice di un immenso potere che si eserciterebbe in maniera occulta e benevola attraverso quelle ramificazioni, in tutti gli angoli del Globo.

Il più autorevole studioso contemporaneo di Tradizione Spirituale, Renè Guenon, prese molto seriamente le notizie riportate da Saint-Yves e da Ossendowsky e, in quello splendido saggio intitolato Il Re del Mondo interpreta Agartha, l'inespugnabile, come la prova dell'occultamento nelle viscere della terra del principale centro iniziatico, depositario della "Parola perduta", nella fase terminale del Kali-yuga , l'età nera, ultimo dei quattro grandi periodi ciclici in cui si divide il Manvantara secondo la tradizione induista. Secondo Guenon "il periodo attuale è dunque un periodo di oscuramento e confusione; le sue condizioni sono tali che, finché persistono, la conoscenza iniziatica deve necessariamente rimanere nascosta".

Oggi però sappiamo con certezza che non possono esistere regni sotterranei con ramificazioni planetarie e Agartha, l'imprendibile, va colta solo nel suo significato simbolico come luogo di occultamento della "Parola perduta". Non a caso una delle più autorevoli tradizioni residuali che, pur nella distanza dalla Tradizione primordiale, mantiene un elevato tenore simbolico nel proprio rituale d'iniziazione, pone l'iniziando, dopo averlo privato dei metalli, simbolo della solidificazione in senso materialistico della civiltà umana, in una camera sotterranea e buia, chiara allusione alle viscere della terra. L'adepto si trova seduto al lume di una candela e, tra altre cose di cui si tace per non tradire il vincolo di segretezza, vede una scritta sul muro : V.I.T.R.I.O.L. acronimo alchemico delle parole: visita interiora terrae rectificando invenies occultum lapidem vale a dire visita le profondità della terra e rettificando (in senso alchemico: procedendo nei gradi di purificazione) troverai la pietra nascosta.

Ma la terra in senso geologico non è cava e il suo cuore non cela altro che un nocciolo di ferro incandescente a una pressione spaventosa. Come va inteso allora il vitriol? Accogliendo un'altra accreditata versione del celebre acronimo alchemico: visita interiora tuae rectificando invenies occultum lapidem: visita le tue profondità e procedendo correttamente vi troverai la pietra nascosta. Ma visitare le proprie profondità non porta forse a conoscere se stessi? ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ, conosci te stesso, era scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi e questa sapienza che ci giunge dal luogo più sacro dell' antichità, esorta l'uomo proprio a sondare i suoi abissi nella consapevolezza dei limiti della propria natura. I limiti della natura umana sono qualcosa che noi da tempo rifiutiamo di accettare ma che la saggezza del mondo antico riconosceva perfettamente, chi tentava di oltrepassarli peccava di ύβρις, tracotanza, e attirava inevitabilmente su di sé e sulla propria progenie la νέμεσις, la vendetta degli Dei come è narrato tante volte nella tragedia greca.

Ancora una volta soppesiamo l'immenso debito che il mondo e l'Europa hanno verso la Grecia giacché lì la Sapienza nasce, si sviluppa e lì ritorna alle proprie luminose origini dopo lunghe peregrinazioni, in un mondo, come scrive Henry Miller, che non è né antico né moderno perché fu concepito e creato per l'eternità.