Sull’onda del periodo di pace e di benessere dello scorcio del secolo XIX, chiamato “belle époque”, si delinea una nuova situazione socioeconomica, con l’ampliarsi, da una parte del nuovo proletariato urbano e delle sue organizzazioni, dall’altra di una componente borghese meno conservatrice e intellettualmente più aperta (anche se l’idillio doveva durare poco più di un decennio: sarà infatti la Prima guerra mondiale a ripresentare l’inevitabile conflitto di classe).

Art Nouveau, Jugendstil, Modern Style, Modernismo furono i termini usati, nelle varie lingue europee, per designare il nuovo modo d’intendere l’architettura e le arti figurative: venivano contestate la tradizione accademica e la tirannia della lezione storica e ci si apriva a soluzioni creative e audaci, con un uso spregiudicato di forme asimmetriche o a serpentina e di nuovi materiali come cemento armato, ferro e vetro. In uno slancio riformistico, gli stessi architetti e artisti borghesi parlarono di “socialismo della bellezza”, per intendere che la nuova arte si sarebbe rivolta a più ampi strati sociali e infatti il nuovo stile investiva tutta la vita quotidiana, dall’abbigliamento all’arredamento, dalla gioielleria ai soprammobili, inoltre si abbandonava il classicismo eurocentrico per un’apertura verso l’arte orientale.

In Italia si parlò di “Floreale” o “Liberty” a indicare, da una parte una tendenza ad abbellire gli edifici con motivi vegetali o zoomorfi (quasi a sostituire, nelle metropoli, la natura che stava scomparendo) e dall’altra, prendendo il nome del proprietario di un grande magazzino londinese, V. Liberty appunto, a porre l’accento sull’opportunità dei nuovi consumi che la città-vetrina offriva anche alla piccola borghesia urbana. A Milano, nel periodo a cavallo tra i due secoli, si sfiorò il mezzo milione di abitanti con conseguente raddoppio degli edifici residenziali e lo sviluppo di nuovi insediamenti, soprattutto nelle zone Magenta e Venezia, caratterizzati da palazzi liberty di raffinata fattura: il più completo esempio di questo genere edilizio fu il Palazzo Castiglioni, in corso Venezia, di Giuseppe Sommaruga, detto anche “Cà di ciapp” per le due sculture muliebri adornanti l’ingresso, che esibivano due possenti fondo-schiena e che le proteste dei perbenisti fecero togliere trasferendole nell’ingresso secondario di un’altra pregevole opera dello stesso architetto, la Villa Romeo di via Buonarroti, oggi Clinica Columbus.

Tuttavia, a differenza di quanto avveniva nel resto d’Europa (basti solo citare l’ormai ben nota produzione di Gaudì a Barcellona), l’impianto degli edifici rimase praticamente invariato e si cercò di animarne la pesante massa con fantasiose decorazioni, spesso costituite da flessuose figure femminili, impiegando anche vetrate policrome, ceramiche e ferri battuti. A dimostrazione di come economia e politica possano condizionare l’architettura e la produzione artistica in generale, bisogna notare come il nostro liberty fu inizialmente influenzato dallo svolazzante art nouveau francese, soprattutto nel periodo in cui forti erano gli investimenti transalpini nel nostro paese, per poi passare a uno stile più geometrico ed essenziale di derivazione nordica, quando affluirono capitali tedeschi a sostenere le banche e le industrie lombarde.

L’impetuoso aumento di popolazione, soprattutto operaia, riaperse l’irrisolto problema della residenza proletaria e, vista la latitanza del Comune, prevalentemente retto da giunte conservatrici, se ne fece carico l’Umanitaria. Questa filantropica società, sorta nel 1893 “per aiutare i diseredati a rilevarsi da sé medesimi”, realizzò una serie di quartieri popolari, il primo dei quali nella zona Solari, a livello mitteleuropeo: si trattava, infatti, di palazzine di un massimo di quattro piani, comprendenti appartamenti di varie metrature, tutti provvisti di bagni privati. L’aspetto più avveniristico era comunque rappresentato dagli spazi comuni, che facilitavano la socializzazione degli inquilini: sale di riunioni, biblioteche, scuole popolari e di disegno e, per le operaie, lavanderie, sale di allattamento e asili. Poco distante da Milano, a opera di Cristoforo Benigno Crespi e del figlio Silvio, troviamo il Villaggio di Crespi d’Adda, dove, accanto al cotonificio dei Crespi, sorse un villaggio, oggi patrimonio dell’Unesco, con abitazioni per operai e dirigenti, scuole, ospedale, chiesa, teatro, campo sportivo, progetto avveniristico per l’Italia del tempo.

Fallì in parte, invece (per la mancata realizzazione di una “metropolitana leggera” che avrebbe dovuto collegare il nuovo insediamento col centro cittadino), il primo tentativo di decentramento urbano con la creazione, a nord della città, di Milanino, sull’esempio delle “città-giardino” inglesi. Il nuovo stile floreale-liberty, grazie alla duttilità dei suoi materiali, si adattò anche a creazioni artigianali di altissimo livello, come i ferri battuti di Alessandro Mazzucotelli, e alla realizzazione di edifici pubblici, commerciali e industriali: tra gli alberghi è da ricordare l’Hotel Corso, in corso Vittorio Emanuele, la cui facciata è stata poi trasferita nell’adiacente piazzetta che ha assunto il nome di Liberty; grandi magazzini in cemento armato, ferro e vetro sorsero in via Tommaso Grossi (Contratti) e in corso Vittorio Emanuele (Bonomi), la stessa sede del Corriere della Sera in via Solferino presentò connotazioni liberty, che caratterizzarono perfino la Stazione tranviaria mortuaria di piazza Medaglie d’oro.

Vera antologia en plein air dell’architettura, della scultura e dell’artigianato liberty è poi il Cimitero Monumentale, dove troviamo testimonianza di architetti e scultori come Bistolfi, Mazzucotelli, Palanti , Sommaruga, Stacchini, progettista della Stazione Centrale, che dall’originaria versione modernista fu poi, per volontà di Mussolini, virata in termini monumentali e celebrativi. La consacrazione del primato economico di Milano e della sua dimensione internazionale si ebbe con l’Esposizione Internazionale per il traforo del Sempione del 1906. In un vasto perimetro, che andava dal Castello all’Arena alla Piazza d’Armi (attuale area della Fiera) s’installarono padiglioni che riguardavano, non solo i più recenti ritrovati tecnologici nell’ambito elettromeccanico, chimico e tessile, ma anche rappresentanze delle principali nazioni europee ed extraeuropee, largo spazio era anche riservato alla cooperazione, alla previdenza e al sindacato, né venne trascurato l’aspetto spettacolare, con una tramvia sopraelevata che collegava i vari punti dell’esposizione.

Purtroppo, di questo evento è rimasta l’unica testimonianza dell’Acquario, che segna anche l’inizio del declino del floreale, che esaurirà la sua carica innovativa con la Prima guerra mondiale. Ultimo intervento urbanistico prebellico fu il nuovo PGR del 1911, che tuttavia non servì ad avviare a soluzione i gravosi problemi cittadini e non fece altro che aumentare la densità edilizia diminuendo anche gli spazi verdi. Dopo la Grande Guerra verrà meno anche la spinta sociale e filantropica, terreno di coltura degli esperimenti art nouveau e si affermerà con l’art deco una visione più esclusiva e aristocratica dell’arte e dell’architettura, che scivolerà ben presto nel monumentalismo fascista.