L’addomesticamento di questo albero (Ficus carica), originario dell’Asia, risale all’antichità - probabilmente ancora prima della nascita dell’agricoltura. Testimonianze della sua coltivazione sono rintracciabili nelle prime civiltà agricole di Mesopotamia, Palestina ed Egitto, da cui si diffuse successivamente in tutto il bacino del Mediterraneo.

Dal punto di vista etimologico il termine ficus è riconducibile al greco sykon, in relazione alla sua capacità di produrre continuamente frutti, mentre il nome della specie risale alla Caria, l’antica regione dell'Asia Minore. Il Fico, le cui foglie hanno, seccondo la Bibbia, protetto le primordiali nudità umane, ha mantenuto nel corso della storia una valenza simbolica incentrata sulla sessualità. Del resto, la particolare forma del frutto che richiama i tratti anatomici dei genitali ha contribuito ad alimentare la credenza di una sua potenziale azione afrodisiaca. Era considerato un albero oracolare e dal suo legno s’intagliavano delle forme falliche impiegate nei riti dedicati alla fertilità e nelle cerimonie a protezione della semina e del raccolto.

In antichità era consacrato a Dioniso e i Romani attribuivano alla sua proverbiale presenza l'incredibile salvataggio dei gemelli Romolo e Remo, i quali, abbandonati in una cesta che si era miracolosamente arenata in un'ansa del Tevere, trovarono rifugio tra i suoi rami. Analoga considerazione era riservata ad altre specie appartenenti al genere Ficus: nell’Antico Egitto il sicomoro (Ficus sycomorus L.) era considerato l’albero della Vita e il pilastro del Mondo mentre in India, il Buddha ricevette la sua illuminazione ai piedi dell’albero della Bodhi (Ficus religionsa L.).

Ma il fico è anche un simbolo d’impurità e di tradimento. Non è a caso che Giuda, secondo la credenza popolare, per compiere il suo ultimo gesto disperato di redenzione abbia scelto proprio un ramo di questo albero (in verità la lista delle piante candidate a questo macabro ruolo è piuttosto lunga). Degno di nota è il significato attribuito alla parola sicofante che nell’accezione moderna e generalizzata di calunniatore, delatore. Appellativo riservato in passato come la stessa radice greca ci chiarisce (da sykon, fico, e phainein, rivelare), alle persone che segretamente denunciavano chi rubava i fichi, li esportava illegalmente o li coglieva dagli alberi sacri, commettendo una grave profanazione (non va dimenticato che i fichi costituivano, prima di tutto, un bene prezioso, un’indispensabile fonte di nutrimento per l’uomo e gli animali.

I frutti (fichi) prodotti da questa pianta vengono classificati, dal punto di vista strettamente botanico, come dei falsi frutti (chiamati siconi). I veri frutti sono gli innumerevoli semi presenti all’interno della morbida e appetitosa struttura che comunente si mangia. Lo sviluppo e la maturazione dei fichi avvengono attraverso un meccanismo alquanto lungo e complesso, condizionato dall’unione simbiotica con la Blastophaga psnes, un imenottero che funge da esclusivo impollinatore.

Il ciclo biologico di questo animaletto è estremamente complesso e faticoso - con cieca ostinazione - varie generazioni di femmine e maschi sacrificano la loro breve vita intrecciando le attività di accoppiamento e deposizione delle uova con le fasi di maturazione e impollinazione dei fiori femminili all’interno dei siconi. Per portare a termine questa impresa e a causa della resistenza offerta dalle squame che chiudono l’ostiolo (unico passaggio per accedere ai fiori femminili), questi insetti sono disposti a sacrificare e a deformare parti del proprio corpo (ali, antenne e struttura craniale). Gli agricoltori, approfittando di questi eventi biologici naturali, effettuavano la cosiddetta caprificazione, ponendo rami della pianta selvatica muniti di siconi con femmine di Blastofaga cariche di pollini vicino ai Fichi domestici per facilitarne la fecondazione. Con l’evolversi delle tecniche e selezioni colturali questa pratica si è ridotta notevolmente: oggi nelle varietà di fico utilizzate, lo sviluppo dei siconi avviene senza impollinazione tramite un processo di partenocarpia.

I fichi hanno sapore dolce, gradevole e un gusto delicato. Sono un alimento molto nutriente e vengono consumati sia freschi che secchi. Contengono: zuccheri, mucillagini, vitamine A, B, B2, PP, C e numerosi minerali, tra cui ferro, calcio, cromo e magnesio. Gli antichi Romani erano grandi consumatori di questi frutti e in particolare avevano perfezionato l'arte di essiccarli, deponendoli a strati in giare spalmate di pece, insieme a semi aromatici (generalmente di finocchio, anice e cumino). I fichi possono essere utilizzati per preparare gustosi antipasti, primi e secondi piatti, dessert, dolci e marmellate. Si accompagnano egregiamente con i salumi (in particolare prosciutto e salame), i formaggi sia freschi che stagionati, le verdure, il pesce e alcuni tipi di carne. Sono ottimi aggiunti alle insalate di stagione oppure canditi, caramellati o come ripieno per torte e biscotti. Dai fichi secchi e torrefatti si ricava un gradevole succedaneo del caffè.

Per le loro proprietà espettoranti, emollienti, bechiche e antisettiche. Sono somministrati in infusione o decozione nel latte, nei casi di tosse, gengivite, afte boccali, e localmente (sotto forma d'impiastro) per accelerare la maturazione dei foruncoli. Sono indicati per combattere l'iperacidità, la gastrite, la cattiva digestione, le sindromi asteniche, le carenze di vitamine e di sali minerali. In gemmoterapia Ficus carica è utile nelle situazioni di ansia lieve, tensione, stress e nei disturbi a sfondo psicosomatico per riequilibrare la motilità e la secrezione gastroduodenale.

Il lattice di colore bianco che fuoriesce dalle foglie, dai rami giovani e dai frutti recisi, viene applicato localmente per curare calli, porri e verruche: azione giustificata dalla presenza di enzimi vegetali ad azione proteolitica che favoriscono la digestione proteica. Per queste sue caratteristiche era impiegato anche nella preparazione dei brodi (per intenerire le carni) e dei formaggi come coagulante caseario al posto del classico caglio. In antichità, l’uso del lattice era raccomandato per curare la lebbra, i morsi di animali, le punture di scorpioni e il mal di denti (una pallottolina di lana, imbevuta di lattice, era introdotta nel dente cariato). Un'applicazione curiosa precorritrice delle moderne tecniche di controspionaggio, consisteva nel diluire il lattice in acqua per utilizzarlo come “inchiostro simpatico” dato che le parole si rivelano solo in vicinanza di una fonte di calore.

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