Entrare nella mostra Il volo delle falene sull’onda di Armida Gandini significa accettare una forma di attraversamento, un moto lento e insieme vertiginoso dentro la materia fragile della memoria, là dove la storia non è mai neutra ma continuamente riscritta, piegata, talvolta violentata, e dove l’identità non è un dato acquisito bensì un campo di forze, un’onda che avanza e si ritrae lasciando sulla riva resti, tracce, corpi simbolici da interrogare. Gandini costruisce un dispositivo poetico e politico che non si limita a restituire figure femminili rimosse o deformate, ma interroga il meccanismo stesso attraverso cui la memoria collettiva seleziona, cancella, mitizza, trasformando vite reali in leggende ambigue o in immagini addomesticate. È una mostra che non chiede di essere guardata, ma abitata, perché ogni opera funziona come una soglia tra ciò che è stato e ciò che continua a produrre senso nel presente, in un dialogo costante tra tempo storico e tempo interiore. La prima sala, dedicata ad Adelaide di Borgogna, è già una dichiarazione di metodo: la regina santa e caritatevole che la narrazione popolare ha trasformato in figura oscura, vendicativa, quasi infernale, riemerge come corpo geologico, come roccia che affiora e scompare sotto il moto ciclico delle acque del lago di Garda, in un video che è insieme paesaggio e sepolcro, memoria e rimozione.

Qui l’acqua non è mai semplice elemento naturale, ma metafora di una storia che copre e scopre, che purifica e avvelena, che conserva e corrode, e la leggenda delle acque sulfuree di Sirmione, lette nel Medioevo come segno dell’ira della regina, diventa il sintomo di un dispositivo patriarcale pronto a trasformare l’autonomia, il potere, la cultura femminile in colpa e mostruosità. Gandini non corregge la storia, non la riscrive in senso consolatorio, ma la mette in tensione, mostrando come ogni racconto sia il risultato di omissioni, di vuoti, di dettagli sottratti che aprono voragini interpretative capaci di deformare radicalmente il senso di una vita. Adelaide, riletta oggi, appare come una figura di sorprendente contemporaneità, incarnazione di un’Europa fluida, plurale, transnazionale, una donna che ha attraversato confini politici e culturali quando i confini erano ancora porosi, e la sua corona tripartita, evocata nelle opere su carta e nelle fotografie sagomate, diventa un segno potente di un’identità complessa, non riducibile a un’unica appartenenza. Il cerchio che ne costituisce la base, simbolo di ciclicità, introduce uno dei temi centrali della mostra: il ritorno incessante della memoria, mai identica a se stessa, sempre filtrata dallo sguardo di chi la osserva, di chi la eredita, di chi decide se custodirla o lasciarla sprofondare nell’oblio.

Questo movimento circolare trova un contrappunto drammatico nella figura di Dora Maar, protagonista della seconda sala, dove la questione della manipolazione dell’identità si fa corpo, ferita, gesto reiterato. Gandini affronta una delle storie più emblematiche del Novecento artistico senza indulgere nel mito romantico dell’artista e della musa, ma smontando con precisione chirurgica il dispositivo di potere che ha trasformato una fotografa straordinaria in un’icona del dolore, in una “donna che piange” per procura. La leggenda del coltello che trafigge le dita, del sangue che macchia il guanto bianco, diventa il paradigma di una relazione fondata sull’autolesionismo simbolico e reale, su una violenza normalizzata e sublimata dall’aura del genio. Nel video Adora, il gesto dell’incisione sulla carta non è solo una rievocazione performativa del primo incontro tra Dora Maar e Picasso, ma un atto di riscrittura critica: ogni taglio è una ferita che produce immagine, ogni lacerazione genera una forma, fino a ricomporre il volto spezzato della Donna che piange, restituendolo però a un processo che ne svela la brutalità originaria.

Qui Gandini non si limita a denunciare, ma mette in scena un corto circuito tra creazione e distruzione, tra amore e annientamento, mostrando come l’immaginario artistico occidentale abbia spesso costruito la propria grandezza sulla cancellazione dell’altro, e in particolare dell’altra. Il passaggio alla terza sala segna un cambio di respiro, senza tuttavia abbandonare la tensione critica: le donne-fiore che abitano questo spazio non sono più muse silenziose o figure sacrificate, ma soggetti autonomi, intellettuali, artiste, scrittrici che hanno saputo fiorire nonostante un terreno ostile. Qui il fiore non è più simbolo di fragilità decorativa, come nei ritratti di Françoise Gilot dipinti da Picasso, ma diventa metafora di una forza silenziosa, della capacità di emergere dalla terra, di radicarsi e al tempo stesso di aprirsi alla luce. Gandini costruisce un vero e proprio erbario simbolico, frutto di una ricerca approfondita negli scritti e nelle biografie di queste donne, individuando le piante che esse coltivavano o che meglio incarnano i loro caratteri, le loro traiettorie esistenziali. Il giardino, luogo tradizionalmente associato al domestico e al privato, si trasforma così in spazio politico, in laboratorio di pensiero, in archivio vivente di una genealogia femminile che l’artista aveva già iniziato a tracciare nel ciclo Mi guardo fuori.

Tra tutte, la figura di Virginia Woolf emerge come una presenza guida, quasi una voce sotterranea che attraversa l’intera mostra: il giardino di Monk’s House, le rose inglesi, la riflessione sulla necessità di una stanza tutta per sé diventano elementi di un paesaggio mentale in cui scrittura, spazio e identità si intrecciano indissolubilmente. Non è un caso che il titolo della mostra rievochi Le onde, romanzo in cui Woolf dissolve l’io in una polifonia di voci e di flussi, e che il riferimento originario alle falene, creature notturne, erranti, attratte dalla luce fino al rischio della distruzione, assuma qui una valenza simbolica potentissima. Le donne di Gandini sono falene sull’onda, esseri in transito, capaci di adattamento e metamorfosi, ma anche esposte al pericolo costante dell’oblio, della semplificazione, della violenza simbolica. Come nel folklore dei nativi americani, la falena è messaggera di trasformazione, ma anche custode di un sapere fragile, che richiede attenzione, cura, responsabilità. In questo senso la mostra non si chiude su se stessa, ma chiama in causa direttamente chi guarda, affidandogli un compito etico: custodire queste storie, riconoscerne la complessità, sottrarle alla tentazione di una narrazione pacificata.

La pratica di Armida Gandini, da sempre situata sul confine osmotico tra arte e relazione, tra esperienza individuale e dimensione collettiva, trova in Il volo delle falene sull’onda una sintesi particolarmente intensa, capace di tenere insieme rigore concettuale e lirismo, ricerca storica e immaginazione poetica. Disegno, fotografia, video, installazione non sono mai linguaggi separati, ma strumenti di un unico discorso visivo che si sviluppa nello spazio come un pensiero incarnato, invitando il pubblico a muoversi tra le opere come tra le stanze di una casa della memoria, dove ogni oggetto è carico di stratificazioni temporali. In un’epoca segnata da una rimozione accelerata del passato e da una semplificazione violenta delle identità, la mostra di Gandini appare come un atto di resistenza gentile e radicale insieme, un invito a rallentare, ad ascoltare le onde della storia, a seguire il volo irregolare delle falene senza pretendere di fissarle una volta per tutte. È in questo spazio instabile, sospeso tra luce e buio, tra visibile e sommerso, che l’arte torna a esercitare la sua funzione più profonda: non offrire risposte, ma aprire domande capaci di continuare a vibrare ben oltre il tempo della visione.