Nel vasto panorama delle esposizioni dedicate alla storia culturale e artistica dell’Italia post-unitaria, L’Italia dei primi italiani. Ritratto di una nazione appena nata — allestita negli spazi del Castello di Novara e visitabile fino al 6 aprile 2026 — si impone come una proposta di grande respiro, capace di combinare ricerca storiografica, qualità delle opere e un impianto narrativo che guarda tanto al grande pubblico quanto agli studiosi. È una mostra che non si limita a illustrare un’epoca: la interroga, la scompone, la ricompone attraverso un mosaico iconografico che restituisce la faticosa, complessa e affascinante nascita dell’Italia unita.

L’arco temporale scelto — dalla metà dell’Ottocento al primo Novecento — è quello della costruzione di una coscienza nazionale, ancora fragile ma dinamica, fatta di slanci e contraddizioni, di modernità incombente e tradizioni radicate. Attraverso circa ottanta opere, provenienti da musei e collezioni private, la mostra si struttura in sezioni tematiche che affrontano la nuova Italia da diversi punti di vista: politico, sociale, antropologico, economico, culturale. È proprio questa pluralità a costituire la sua forza: ogni sala è una finestra aperta sulle trasformazioni di un Paese che, pur giovane, vive una straordinaria accelerazione storica.

Il percorso si presenta come un grande “ritratto collettivo”, un coro di voci che esprime, ciascuna a modo suo, un frammento della costruzione nazionale. Si passa da scene di vita quotidiana a immagini del lavoro e dei mestieri, da paesaggi agricoli che descrivono un’Italia ancora in larga parte rurale alle prime raffigurazioni della modernità: strade, ponti, fabbriche, stazioni ferroviarie, simboli della nuova epoca industriale. L’alternanza di registri — dall’intimismo domestico al documento sociale, dal bozzetto popolare al ritratto borghese — produce un effetto di profondità storica e umana, quasi un viaggio nel tempo che permette allo spettatore di ritrovare il volto, talvolta dimenticato, dei “primi italiani”.

Un elemento notevole è l’attenzione alla complessità, senza scadere in una narrazione celebrativa. L’Italia degli anni successivi all’Unità non è restituita come una favola eroica, ma come un quadro sfaccettato, dove alle conquiste politiche si affiancano le tensioni sociali, alle speranze del progresso le diseguaglianze, al mito del Risorgimento le fatiche quotidiane di un Paese ancora povero, diviso, in trasformazione. Le opere non vengono presentate come semplici documenti iconografici, ma come testimonianze vive, in cui la pittura diventa linguaggio della memoria e al tempo stesso sonda antropologica.

Il Castello di Novara, con i suoi ambienti ampi e stratificati, si rivela cornice ideale. Gli spazi accolgono il percorso espositivo come un racconto che avanza per capitoli, ciascuno dedicato a un aspetto dell’identità nazionale: la famiglia e le relazioni sociali, il lavoro e la terra, il progresso tecnologico, l’urbanizzazione, il rapporto tra centro e periferia, la rappresentazione dei nuovi ceti emergenti. L’allestimento organizza queste sezioni con chiarezza, senza rinunciare a una ricercata fluidità visiva.

Tra i momenti più suggestivi della mostra, vi è certamente la sezione dedicata alla “modernità nascente”, in cui il visitatore coglie l’irrompere nel paesaggio umano e naturale di elementi fino ad allora sconosciuti: ferrovie, macchinari, cantieri, nuovi modi di vivere. È un’Italia che cambia, e cambia in fretta, e la pittura del tempo lo registra con meraviglia, talvolta con timore, talvolta con entusiasmo. Così, accanto al mondo rurale sopravvissuto per secoli, si insinuano scenari urbani che anticipano il Novecento industriale. Commovente è anche la parte dedicata alle relazioni sociali e ai volti. Qui, il racconto collettivo prende forma attraverso persone reali: contadini, borghesi, donne, bambini, artigiani, giovani intellettuali. Ogni volto è un tassello della nuova nazione, ogni gesto quotidiano diventa rappresentazione di un’identità in costruzione. L’Italia emerge come una pluralità di sguardi, e questa coralità è forse il tratto più riuscito dell’intero progetto.

Ma perché una mostra come questa risulta così fondamentale oggi? Forse perché, in un presente frammentato e accelerato, il bisogno di memoria — una memoria non retorica, ma problematica, viva, complessa — diventa essenziale per comprendere chi siamo. L’Italia dei primi italiani invita a guardare le radici senza nostalgia, ma con consapevolezza critica: il Paese che vediamo nascere nelle sale del Castello di Novara è un laboratorio, una promessa, un cantiere aperto.

È una mostra per chi ama la storia e l’arte, certamente, ma anche per chi cerca nell’immagine un modo diverso di studiare il passato. La pittura, in questo contesto, diventa specchio e documento, ma anche spazio emotivo di immedesimazione. Ogni opera racconta qualcosa che ci riguarda ancora: le contraddizioni, i conflitti sociali, l’inizio delle migrazioni interne, la trasformazione del lavoro, l’affermarsi della borghesia, la fine della società tradizionale. Non è un caso che il percorso sia pensato come un dialogo costante tra memoria e identità contemporanea.

Il risultato è una mostra necessaria, capace di restituire l’immagine non idealizzata, ma viva, della nascita di un Paese che, pur tra contraddizioni e tensioni, ha costruito la propria identità passo dopo passo. Un viaggio che obbliga a guardare non soltanto al passato, ma anche al presente, ricordando che l’Italia è ancora un progetto in divenire.