Il tuo brand Poggiospada deve il suo nome ad una collina dove amavi trascorrere i pomeriggi della tua infanzia in compagnia di tuo nonno, imprenditore vinicolo. Quali sono i valori che lui ti ha tramandato e quale sinergia ritrovi tra l’enologia e il mondo della moda?
Quando ho fondato il mio brand, la scelta del nome non è stata casuale e nemmeno ha richiesto troppo lavoro creativo per immaginarlo: era così forte in me la volontà di creare un legame fra la mia attività e quella del nonno materno che il nome non poteva che ricadere su quello della collina sulla quale ho trascorso in sua compagnia la maggior parte dei miei pomeriggi di bambina e che per me rappresenta le mie radici, la mia terra, la mia verità. Fra tutte le colline di famiglia, Poggiospada è speciale per me perché mi ha insegnato un modo nobile e ruvido di vivere. Lì ho imparato il valore della terra e della cura anche e soprattutto attraverso il fortissimo rispetto che mio nonno aveva verso le persone che lavoravano con e per lui. Negli anni ho compreso cosa volesse realmente insegnarmi portandomi in collina: vi era sicuramente un lato affettivo, trascorrere del tempo con la nipote, ma ritengo volesse trasmettermi il messaggio che, se ci prendiamo cura delle cose con attenzione, dedizione e amore, queste cresceranno e avranno un futuro. In altre parole, il valore della terra e della cura.
Nel mondo del vino, lui dava attenzione in primis alla terra, poi alla pianta e così per ogni singolo passaggio che ci porta fino alla bottiglia. Nella mia realtà cerco quotidianamente di portare e trasmettere gli stessi valori: i capi vengono realizzati a mano e sono Made in Italy, i tessuti selezionati con attenzione avendo sempre uno sguardo alla sostenibilità, la comunicazione con chi fa parte del team è onesta e trasparente. Il brand Poggiospada è sartoria italiana che fa tesoro del passato e lo proietta nel futuro. Curo e “coccolo” tutto ciò che fa parte del mio brand perché so che dedicando attenzione, dedizione e cura, proprio come faceva il nonno, avrò non un buon vino ma un buon capo d’abbigliamento, o un accessorio, e regalerò alla cliente che lo acquisterà un momento per sentirsi unica e preziosa perché il capo nel suo armadio ha una storia.
Hai dichiarato di essere nata in mezzo ai silenzi e che hai imparato a parlare con le mani. Ti chiedo allora qual è la tua parola preferita?
Domanda estremamente interessante e che mi invita a una riflessione personale. Sono cresciuta fra i silenzi della natura e, talvolta, quelli delle persone che mi circondavano: il mio carattere è indubbiamente stato plasmato dalla circostanza. Sono sempre stata una bambina prima, e una ragazzina poi, timida e introversa. Dentro di me avevo un mondo ma faticavo a proiettarlo all’esterno e a condividerlo. Quindi la scelta dell’atteggiamento da tenere ricadeva su quanto di più scontato e semplice: il silenzio. A molte persone nel corso degli anni sono risultata antipatica perché parlavo poco. Certo non potevano intuire le ragioni di quel silenzio ed è stato appagante, anni dopo, presentarmi molto più aperta e socievole, amante della convivialità e delle lunghe chiacchierate, siano esse impegnate o meno.
Ciò che mi mancava era la sicurezza in me stessa. Il brand mi ha da una parte aiutata e dall’altra obbligata ad entrare in contatto con moltissime persone e raccontarmi oltre che raccontare, ad esempio, come volevo venisse realizzato un capo. Ecco, questo obbligo si è rivelato estremamente piacevole e mi ha mostrato che potevo avere un riscontro positivo nelle persone. In altre parole: mi trovavano simpatica ed ero apprezzata. E questo percorso è uno dei motivi per cui tengo tanto al fatto che a livello di comunicazione di brand passi il fatto che mi rivolgo a una donna forte e sicura o che così vorrebbe sentirsi, perché so cosa si prova a non esserlo e vorrei cambiare questa prospettiva anche attraverso gli abiti che si indossa. Quindi, per concludere, la mia parola preferita è “sicurezza in sé stesse”, “autostima”. Quando la trovi, potrai avere talvolta l’impressione di perderla ma in realtà una volta conquistata farà sempre parte di te.
Il filosofo Remo Bodei nel suo studio sui “Paradossi della moda” scrive: "A partire dal Cinquecento, a promuovere il ruolo della moda è lo choc provocato dall'accumulo delle novità e la progressiva legittimazione dell'individuo e dei suoi gusti. Il nuovo si presenta allora come imprevedibilità, sorpresa, irruzione improvvisa di anomalie situabili all'interno dei criteri di giudizio vigenti e delle norme consolidate. La nascita della stampa e la successiva diffusione dei giornali acclimatano l'abitudine alle news, creando canali di diffusione rapida delle mode, che non sono soltanto quelle relative all'abbigliamento, ma anche alle idee e alla mentalità". Come, secondo te, lo stile di Poggiospada riflette l’identità culturale italiana?
Ritengo estremamente affascinante il pensiero espresso da Remo Bodei e mi trovo concorde con i principali paradossi che ha elaborato nel suo studio. I concetti che si intrecciano tra loro -mi riferisco in primis all’idea di una moda che permette di creare una maschera illusoria ed effimera nascondendo la vera identità di una persona, o ancora la ricerca dell’unicità attraverso l’adesione a modelli e tendenze che, a parer mio, altro non fanno che allontanarci dal concetto di unicità- descrivono con precisione disarmante la realtà che ci circonda: siamo tutti così bombardati da informazioni più o meno utili, più o meno valide, da contenuti social che ci appaiono imperdibili, dall’idea di dover stare al passo con i tempi e andare veloce che non siamo più in grado di applicare una certa capacità di discernimento fra cosa può far per noi e cosa no. E allora, presi dal desiderio e dalla fretta di appartenere e di essere anche noi “qualcuno” intendiamo la moda come la possibilità di sentirci parte di un gruppo e conseguentemente essere accettati perché rientriamo negli standard.
Allargherei il campo anche ad altri fenomeni sociali come quello della medicina estetica estremizzata pur di assomigliare a un preciso canone estetico che ci viene proposto -e, forse, imposto? Ecco allora che, a mio parere, un brand come Poggiospada, rompe con questa idea perché non propone un modello unico da seguire ma, nel caso specifico, capi chiave come una camicia bianca accostati ad altri che seguono invece la tendenza del momento, quella che ci fa “appartenere”.
Attraverso i nostri canali di comunicazione, i social in primis, noi ribadiamo più volte che la nostra proposta va interpretata con spirito critico: la cliente può allora scegliere di accostarsi al brand per acquistare la famosa classica camicia bianca di cui sopra, realizzata artigianalmente in Italia, oppure per soddisfare lo sfizio di possedere un capo di moda quella stagione che la fa sentire parte di un gruppo “alla moda”. Detto ciò, è inevitabile cadere nel gioco che Bodei così bene descrive: il solo fatto di non voler appartenere a un gruppo identificato per certe caratteristiche è illusorio perché così facendo entriamo a far parte di coloro che scelgono di non appartenere. Personalmente ritengo che il mio brand, pur non sfuggendo alle dinamiche descritte, non cerchi nemmeno di imporsi e voler a tutti i costi riflettere una identità, dando degli spunti non troppo invadenti e pervasivi e lasciando alla cliente la libertà di sentirsi chi e come desidera.
Hai dichiarato che “Poggiospada non è soltanto il tuo brand ma anche la tua storia”. Quale parte della tua personalità è possibile ritrovare nel brand?
Possiamo senza dubbio rintracciare diversi aspetti della mia personalità nel brand e ognuno svolge un ruolo. Emerge inaspettatamente il mio approccio più razionale e concreto alle cose: non si può avere una attività senza un controllo e una organizzazione capillare -banalmente, la calendarizzazione delle scadenze o la piena contezza e gestione dei costi delle materie prime. Immagino che magari da chi fa moda ci si aspetti una risposta più legata al senso del bello e all’estetica ma ritengo fortemente che questi aspetti, sì presenti nella mia personalità e nel brand, possano vivere solo perché supportati saldamente da quelli appena descritti.
Nel 1912, in risposta al Manifesto Futurista di Tommaso Marinetti che all'articolo nove proclamava il disprezzo per le donne, l’artista e scrittrice Valentine de Saint Point pubblica un volantino che venne stampato allo stesso tempo a Parigi e a Milano il 25 marzo su cui scriveva “Il manifesto della donna futurista”. In questo manifesto, Valentine de Saint Point sostenne che l'umanità è fatta non da maschi o femmine ma da mascolinità e femminilità che sono dei tratti appartenenti ad ogni essere completo. “Le donne sono le Erinni, le Amazzoni; le Semiramidi, le Giovanne d'Arco, le Jeanne Hachette, le Giuditte e le Carlotte Corday; le Cleopatre e le Messaline; le guerriere che combattono con più ferocia dei maschi, le amanti che incitano, le distruttrici che, spezzando i più deboli, agevolano la selezione attraverso l'orgoglio e la disperazione, la disperazione che dà al cuore tutto il suo rendimento”. Le donne devono quindi tornare libere e riappropriarsi dei loro istinti. Hai dichiarato che la tua Amazzone Heritage Collection non nasce da un’idea ma da una urgenza che è quella di esprimersi senza adattarsi. Ritrovi dei punti di contatto con il Manifesto della Donna futurista?
Senza dubbio ritrovo svariati punti di contatto fra il “Manifesto” di Valentine de Saint Point e la mia Donna Amazzone. La collezione vuole in primis farsi simbolo di un legame personale fra la proposta di moda e la mia storia che, oltre al vino, si intreccia alla passione per i cavalli e l’equitazione e la Donna Amazzone era riconosciuta per la sua abilità e audacia a cavallo. L’intenzione, per ogni collezione che lanciamo, è portare all’esterno, quasi al servizio di chi sceglie di indossarci, qualcosa di me. Dietro ogni proposta, però, vi è anche un pensiero più profondo e articolato: nel caso dell’ultima collezione, il pensiero sotteso è la mia urgenza, appunto, di accogliere il fatto di aver rotto certi schemi ripetuti per anni: quelli della timidezza e della persona introversa e silenziosa, timorosa di fare anche solo un passo. È una mia personale ribellione, la volontà di esprimermi senza più adattarmi. Da qui l’idea di creare una analogia con la donna guerriera che ha in sé caratteristiche riconosciute come tipicamente maschili: la forza, il coraggio, l’indipendenza e la capacità di combattere.
Perché si può combattere anche contro i limiti o le convenzioni che ci siamo auto imposti ed è una battaglia estremamente dolorosa ma estremamente soddisfacente; ma vi è anche altro: l’Amazzone della mitologia greca è un simbolo di emancipazione femminile, di donna che non necessita di essere difesa dall’uomo, perfettamente in grado di raggiungere i suoi obiettivi con determinazione e senza perdere l’essenza della sua femminilità. La mia non vuole essere una critica all’uomo o al patriarcato ma un invito a tutte le donne a combattere per i propri obiettivi, anche da sole se necessario perché ne hanno tutte le capacità. Mi piace che della stessa “cosa” si possano avere più livelli di lettura: è come offrire degli strumenti e poi lasciare che chi li riceve decida se e come utilizzarli. Ci si può fermare a un livello più superficiale, in cui si osserva la collezione con spirito estetico e ci si dedicano 15 minuti di relax e shopping online, oppure cogliere la connessione fra la mia storia e la collezione e quindi comprendere perché abbiamo scelto di proporre un capo piuttosto che un altro, o ancora, comprendere il mio massaggio di riscatto personale sotteso e ritrovarcisi.
Nessuna chiave di lettura è scorretta, semplicemente ognuno può decidere fin dove ha voglia di dedicarsi ad approfondire. Se la voglia c’è, la storia non manca.
Secondo l’antropologa Mary Douglas, la moda funge da sistema simbolico, utilizzato per rafforzare le strutture sociali e le differenze tra classi, generi e professioni. Che tipo di donna veste Poggiospada?
La donna che più veste Poggiospada, dati di vendita alla mano, ha fra i 35 e i 50 anni ed è avvocato, medico o architetto. Quindi volendo seguire il pensiero dell’antropologa, direi che vestiamo professioniste che si stanno affermando o si sono affermate nel proprio settore lavorativo e che apprezzano il Made in Italy e una certa ricerca di stile dietro alla proposta di prodotto. A livello di comunicazione di brand, mi rivolgo in maniera più ampia a tutte quelle donne che vogliono affermare e mostrare la sicurezza in sé stesse osando talvolta con abbinamenti inaspettati e tagli audaci.
Ti sei mai ispirata a un movimento artistico o ad un’artista in particolare per prendere ispirazione per la tua collezione?
Posso affermare di aver preso ispirazione ma non da un movimento artistico o da un’artista bensì da un designer di yacht. Mi capitò per una serie di circostanze di trovarmi più volte allo stesso tavolo della persona che ha realizzato alcune delle barche che io più apprezzo in termini di linee e, da quella conoscenza e confronto, è nato il modello Livia della collezione Mediterranean Feeling. Il mondo della nautica è vasto e affascinante e, come per l’architettura, quando si parla di design i punti di contatto con la moda possono essere diversi.
Questo yacht designer aveva realizzato il progetto di una barca in cui otticamente i ponti si avvicinavano fra di loro senza mai toccarsi in un mix di resine e vetro a mio giudizio estremamente affascinante: chiaramente stiamo parlando di una mera espressione estetica perché l’abitabilità della barca non risentiva di questo gioco di incastri. Ecco, da lì io ho tratto la stessa idea di linee di cui Livia è perfetta espressione. E aggiungerei non solo per le linee che ricordano quelle dei ponti dello yacht ma anche per l’uso del tulle, da sempre elemento iconico del brand, usato per ricreare l’effetto di pieno/vuoto.
Tre aggettivi per descrivere il tuo brand?
Non ho dubbi: elegante, potente, radicato nella sua storia. Mi spiego meglio: il concetto di eleganza per me corrisponde più ad un atteggiamento che ad oggetti o capi d’abbigliamento concreti, ha più a che fare con l’essere che con l’avere. Qui mi rifaccio al concetto di sicurezza di sé espresso in precedenza: la donna che sceglie di indossare Poggiospada lo fa perché si ritrova nel concetto di eleganza sussurrata e non ostentata, sa che la vera protagonista è lei e ciò che indossa una manifestazione esteriore del suo pensiero.
“Potente” è un aggettivo che va contestualizzato: non siamo un brand di fast fashion, non siamo un brand che si approccia al mondo dei social per comunicare senza riflettere solo perché “lo fanno tutti”. Siamo invece un brand che si fa bandiera di valori, che possono anche non interessare o non essere condivisi, ma sicuramente esistiamo basandoci su fondamenta solide e concrete.
Il discorso ci conduce all’ultimo aggettivo, l’essere Poggiospada fieramente radicato nella sua storia. Proponiamo abbigliamento come potremmo proporre altro, ma lo facciamo portando avanti dei valori non casuali e frutto di esperienze personali e di tradizione famigliare. In un mondo dove molte cose hanno perso valore e sono un mero simbolo di appartenenza, io voglio che il mio brand si faccia bandiera di qualcosa di più solido e sottile.
Cosa significa per te artigianalità?
L’artigianalità, per me, non è soltanto un modo di produrre: è un modo di pensare. Ogni capo che realizziamo nasce da un gesto umano, dalle mani di sarte esperte che conoscono la materia prima e che, quasi, la ascoltano e la valorizzano trasformandola con rispetto. Mi rifaccio ai valori trasmessi dal nonno affermando che, da noi, il tempo ha un valore: non lo misuriamo solo in ore bensì in attenzione ai dettagli, in prove, in correzioni anche minime che fanno però la differenza fra qualcosa di semplicemente bello e qualcosa di autenticamente nostro. Adoro quando, fra i vari aspetti del brand di cui mi occupo, so di dover trascorrere la mia giornata in sartoria: ogni punto, ogni taglio e ogni cucitura raccontano una storia di competenza artigianale e umana reinterpretata in chiave contemporanea. Credo che l’artigianalità sia una delle manifestazioni di lusso di oggi: quella che si riconosce non in un logo ma nella qualità silenziosa di un capo che dura nel tempo e, soprattutto, che porta con sé l’impronta di chi lo ha realizzato.
Nei capi di Poggiospada convivono tradizione e sperimentazione, un occhio al passato e uno al futuro: per realizzare la camicia Didi che è parte della nuova collezione, abbiamo dato una reinterpretazione della classica camicia rendendole la manica ampia e con un taglio crop. Nulla è fuori posto, tutto realizzato con cura e attenzione. Ecco la sperimentazione: si tratta dei primi capi di una serie che verrà realizzata in un fiocco di cotone sostenibile eccezionalmente morbido al tatto. Così le tecniche classiche del “saper fare” italiano si fondono con la modernità accolta in chiave arricchente e non a sostituire ciò che già esiste. L’artigianalità, in questo senso, diventa la nostra forma più pura di espressione: un dialogo tra passato e presente, tra la precisione del mestiere e la libertà della creatività.
Quale capo non manca mai nell’armadio di Carola?
Nel mio armadio non manca mai un pezzo vintage in particolare, io lo chiamo il “pezzone”: un classico doppiopetto maschile blu di Loro Piana con bottoni dorati opachi e fodera interna rosso cupo. Apparteneva a mio papà, credo abbia almeno la mia età ma porta i suoi anni divinamente, lane così se ne trovano poche oggi! É il mio passe-partout ed è molto spesso con me: sempre presente nell’armadio, essendo chiaramente di qualche taglia più grande mi fa sentire avvolta e coccolata e così è finito per diventare il classico blazer blu perfetto per gli incontri di lavoro più formali ma anche quello che indosso nel tempo libero con un mocassino e i jeans perché mi fa sentire in ordine. Quando non so cosa mettere, indosso lui, quando devo pensare a cosa indossare per un’occasione specifica, la scelta ricade su di lui! Anche in estate, a dispetto del materiale, è sempre con me: magari resta nel bagagliaio della macchina in attesa di una serata freschina di pioggia ma lo trovo fantastico anche indossato fuori stagione.
Progetti futuri?
Per raccontarti del futuro devo prima tornare un attimo al passato: sono laureata in giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano, non proprio la formazione che ci si aspetta da chi fa moda. Ormai è passato un certo numero di anni dalla mia laurea e nonostante io abbia continuato a formarmi, anche sui libri, per il lavoro che svolgo, avevo da tempo in mente l’idea di trovare un percorso di studi da intraprendere e aggiungere al curriculum che unisse i due aspetti. L’ho trovato: inizio nei prossimi mesi il master in “Fashion Law” organizzato dalla Università Luisa di Roma. A livello di brand, invece, sto in un certo senso vivendo quello che avevo organizzato come “futuro” tempo fa: volevo rendere il modello sempre più scalabile e procedere a una riorganizzazione delle figure professionali presenti.
Quella appena uscita, Amazzone Heritage, è la prima collezione realizzata interamente dal nuovo team: a livello professionale sono soddisfatta della scelta fatta e anche a livello umano c’è intesa e stima reciproca, lavoriamo bene e anche se può sembrare difficile da immaginare, questo fatto si percepisce all’esterno. Nei primi anni di attività ho collaborato con un laboratorio sartoriale che integrava anche la parte di logistica e spedizioni: nonostante gli accordi presi ho scoperto grazie alle mie clienti che non veniva usato il packaging personalizzato ma delle banali scatole color havana con i capi posti all’interno senza cura e altri “inconvenienti” di questo tenore. È stato per me fonte di rabbia e delusione, oggi invece spendo il mio nome affinché le clienti si fidino e faccio tutto ciò che è in mio potere perché l’esperienza sia positiva e questo soprattutto grazie al mio team, che si è rilevato vincente!















