Ci sono luoghi che si muovono veloci, e altri che ti obbligano a rallentare.
Il lago è uno di questi.
Tre settimane a Como, per lavoro, mi hanno insegnato più di quanto pensassi.
Non ho girato grandi ristoranti. Forse tre. Non ho avuto tempo per lunghe passeggiate o aperitivi in piazza.
Ma il lago mi è entrato dentro lo stesso, con la sua lentezza.
Con il suo modo di riflettere tutto — anche me.
Il lago riflette.
Lo fa in silenzio. Senza rumore, senza fare onde, senza cambiare il cielo.
Ed è così anche la cucina che nasce da queste rive: silenziosa, concentrata, pacata.
Niente frenesia, nessun bisogno di stupire con effetti speciali.
Solo l’essenza delle cose.
Ho assaggiato un lavarello marinato agli agrumi, servito con una giardiniera fatta in casa e pane nero croccante: delicato, fresco, bilanciato. A fianco, un calice di Domasino IGT, bianco del lago, minerale e verticale, con profumi di fiori di campo, mela renetta e pietra bagnata.
Era come bere la luce che si riflette sull’acqua.
Poi ho trovato una trattoria che serviva agoni in carpione — piccoli, saporiti, immersi in un equilibrio perfetto tra aceto, alloro e cipolla: piatto antico, quasi dimenticato, eppure ancora vivo.
Lì, un Rosso di Valtellina ha fatto da compagno discreto e nobile.
Fresco, elegante, leggero nei tannini, servito più fresco della media, come le temperature di questi luoghi.
Il Nebbiolo di Valtellina — qui detto Chiavennasca — non ha l’austerità dei fratelli maggiori di Barolo o Barbaresco.
E io, che a Torino spesso vado, so bene che a quei vini ci si inchina.
Ma qui, tra lago e montagna, lo stesso vitigno indossa una giacca più leggera, senza cravatta, con la stessa classe ma meno cerimoniale.
Un rosso da bere senza pensieri, eppure capace di far pensare.
Non ci sono onde in questo vino, ma brezze.
Non ci sono muscoli, ma passi sicuri su una pietraia.
E lo straordinario è che si abbina perfettamente anche con il pesce di lago.
Un persico al burro e salvia, dorato in padella, ha trovato in un Sassella giovane un compagno ideale.
Lo so che sembra strano: il rosso con il pesce.
Ma non è un rosso qualsiasi.
È la montagna che si fa seta.
È il granito che profuma di viola, lampone, erba di campo.
È il vino che si è arrampicato per crescere.
E io, ai vini che faticano, ho sempre voluto bene.
Il Cervim tutela questa viticoltura eroica, fatta su pendii che fanno paura solo a guardarli.
La Valtellina è patrimonio dell’Unesco, e non solo per il paesaggio.
È un territorio che unisce bellezza e sacrificio, fatica e grazia.
Ogni sorso lo racconta.
E non è solo vino.
Il Bitto, per esempio, è uno dei formaggi più antichi e pregiati delle Alpi.
Prodotto in alpeggio tra giugno e settembre, con latte crudo appena munto, racchiude l’anima della transumanza.
Ci sono forme che invecchiano oltre 10 anni, come libri scritti dal tempo.
Il piatto che non dimentico è stato un risotto mantecato al Bitto con filetti di trota salmonata affumicata: un gioco tra dolcezza, sapidità e umami.
E lì ho voluto osare, ho ordinato un Inferno con leggera affinatura in legno.
E ancora una volta, nessun eccesso. Nessuna ubriacatura. Solo equilibrio.
Il tannino era presente ma fine, l’alcol mai invadente, la struttura non appesantiva il palato.
Era come un passo di danza in montagna.
Preciso, elegante, concreto.
Ogni piatto, ogni sorso, era un riflesso del luogo.
E il lago non ha tempeste.
Ha variazioni minime, brezze leggere, luce che cambia con grazia.
E così anche il cibo. Non colpisce. Avvolge.
Non stupisce. Rassicura.
E ti fa respirare.
Il turismo sul lago è diverso da quello marittimo.
Il mare è energia, forza, tempesta e rincorsa delle onde.
Il lago invece è calma, lentezza, riflessione e pazienza.
Chi viene qui — spesso dal Nord Europa — non cerca confusione. Cerca sollievo.
Non vengono per vivere una vita frenetica, ma per dimenticarla.
Io vengo dal mare. Dal Tirreno.
Livorno, Follonica, Grosseto.
E lì tutto è più veloce, più caldo, più rumoroso.
Amo il mare. Ma il lago mi ha insegnato un’altra cosa: che la calma è anche un gusto.
Che la lentezza è un sapore.
Che il tempo, quando si dilata, permette ai profumi di fiorire davvero.
Ho camminato poco, ma ho ascoltato molto.
Ho scritto appunti la sera, con la finestra aperta, e l’acqua ferma sotto.
E, come sempre, ho imparato qualcosa.
Ogni viaggio insegna, se lo si lascia parlare.
Il vino del lago non urla.
Ti sussurra al naso sentori di fiori di sambuco, pesca bianca, roccia.
Il vino della Valtellina, invece, è la montagna in voce: leggera, precisa, mai retorica.
Profuma di viole, ribes, a volte terra bagnata.
A volte incenso. A volte legno.
Profuma d’aria.
Il piatto e il vino si sposano, ma senza farsi foto.
Si conoscono in silenzio, come due che si sono già visti una volta, forse in un’altra vita.
E allora lo capisci: la cucina, la vera cucina, nasce solo dove c’è lentezza.
Dove la fretta non arriva.
La roba buona non nasce nei supermercati.
Nasce nei boschi. Nei campi.
Nelle mani di chi raccoglie, pesca, aspetta.
E nelle mani di chi cucina con rispetto.
Questo cerco sempre di insegnare, anche come professore.
Il rispetto del tempo. Della natura. Dei cicli.
La cucina non è solo tecnica.
È ascolto.
È riflesso.
Come il lago.
Nei prossimi mesi vi porterò ancora tra queste terre di lago e montagna, tra vini e piatti, tra storie e sapori.
Perché questo viaggio è appena iniziato.














