Minimal e raffinato, così si definisce lo stile di chi indossa i Capri pants, solitamente abbinati a sobrie t-shirt del tipo marinière con le classiche righe orizzontali bianche e blu in stile parigino e scarpe basse tipo ballerine. Il pantalone è stretto attorno alla gamba, adatto a fisici minuti e gambe sottili. I Capri pants trionfano a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, dapprima tra le mura domestiche come capo delle casalinghe americane. A quei tempi sullo schermo le donne sono ancora rappresentate coi tacchi e zuccherosi abiti a fiorellini, come quelli indossati nelle Eating Figures di Wayne Thiebaud – pittore americano famoso per le sue torte, gelati e rossetti a cui la Fondazione Beyeler di Basilea ha di recente dedicato una mostra a pochi anni dalla scomparsa avvenuta nel 2021 a 101 anni – e poi anche sul grande schermo e sulle riviste di moda. Inventa i Capri pants la prussiana Sonja de Lennart nel 1948, ma li rende iconici per il piccolo schermo Mary Tyler Moore, che interpreta Laura, la moglie del protagonista, per il “The Dick Van Dyke Show”.

Per il grande cinema sono le Vacanze romane di Audrey Hepburn (1953) a far trionfare lo stile caprese firmato dalle sorelle Fontana, mentre l’anno dopo Hubert de Givenchy lo replica con la Sabrina di Billy Wilder. Da capo per casalinghe e giovani ingenue come la Sandra Dee di Scandalo al sole (1959), questi pantaloni così versatili diventano anche uniforme esistenzialista associati a maglioncino dolcevita rigorosamente nero, come insegna Juliette Gréco. I Capri pants non passano mai di moda, ma si può dire che nel tempo diventino un must have trasversale, con una doppia anima da brava ragazza e da bad girl, come la Mia Wallace, interpretata da Uma Thurman, scatenatissima sulla pista da ballo insieme a John Travolta per Pulp Fiction di Quentin Tarantino (1994). Gambe infinite, camicia bianca e Capri pants.

Capri pants
Programma tv
“The Dick Van Dyke Show” (1961-1966)

Nella nostra intervista, Giulia Rossi ci racconta l’universo della moda dalla A alla Z, illustrato attraverso i film, le canzoni o le immagini che hanno tramutato un capo d’abbigliamento o uno stile in un simbolo. Da Marilyn Monroe e il suo leggendario abito nude con cui, in maniera seducente, cantava Happy Birthday Mr. President, a Euphoria, con i suoi glitter e le nuove tendenze che nascono con la Gen Z. In 132 voci, piene di riferimenti che stimolano la curiosità e la creatività di chi le legge e interpreta, Giulia Rossi trasforma la cultura di massa in un passe-partout che riesce ad aprire le porte del fashion system a tutti i lettori più curiosi.

Parto con chiederti della tua personale relazione con la moda. Quali sono le sfide del rimanere aggiornata a proposito di un universo in continua evoluzione.

Sono sempre stata una persona curiosa, stimolata dalle molte espressioni artistiche e creative, in particolare teatro, letteratura e cinema. La moda, da un certo punto in avanti della mia vita personale e lavorativa, è diventato il linguaggio attraverso cui leggere e interpretare la realtà. Essendo una giornalista e una semiologa, la moda per me è un universo di simboli con cui comunicare, al pari delle parole, è uno strumento in più da trattare con estremo rispetto e non con superficialità. Occuparsi di moda significa occuparsi di noi stessi.

Come hai scelto i lemmi da includere e contestualizzarli, facendo paragoni interdisciplinari?

Sono partita da parole e riferimenti che mi venivano naturali, che facevano parte del mio personale archivio e sono poi andata ad allargare su parole legate a temi e stili attuali oppure che si legassero a immagini iconiche della nostra contemporaneità. La sfida è sempre individuare, in ciò che appare o viene presentato come nuovo, le radici nel passato, gli antenati potremmo dire e anche verificare se il significato di un oggetto, colore o qualsiasi elemento legato all’abito abbia cambiato di significato nel tempo e nello spazio. Quasi sempre è così, ogni testo va analizzato nel suo contesto, questa rimane una verità fondamentale da cui non si può o non si dovrebbe prescindere, un metodo di lavoro e di vita.

Da tempo, presenti il tuo lavoro in Italia e all’estero. Come percepiscono la moda le culture diverse che ha incontrato?

All’estero o tra i molti studenti stranieri, prevalentemente americani, che incontro ogni giorno per i miei corsi universitari, c’è molto interesse per la cultura italiana e per lo studio di essa, mentre spesso all’estero c’è meno attenzione per l’estetica e per il vestire. Quando si dice che gli italiani all’estero si riconoscono per come sono vestiti, si sottolinea questa cura, che fa parte della nostra storia, del nostro passato che però diventa sempre attuale e ci proietta nel futuro.

Da studiosa di d’Annunzio, non posso tralasciare i momenti in cui è citato nel testo. Per cui ti chiedo quale pensi sia stata la sua influenza sullo stile dell’epoca e se la sua importanza è sempre attuale, da questo punto di vista.

D’Annunzio è stato un grande esteta, amante del bello, collezionista e forse tra gli ultimi veri dandy della storia. Una figura di riferimento per chi ama i dettagli e costruisce immagini e immaginari complessi fatti di rimandi molteplici e giustapposizioni non ovvie. L’amore per l’approfondimento, per o non ovvio, per ciò che non è sempre immediatamente facile, ma che richiede tempo e cura per essere scoperto: sono tutti aspetti che lo studio di questo letterato può favorire.

Posso chiederti se stai lavorando a progetti futuri.

Per l’accademia, così come per la consulenza di comunicazione dei miei clienti, cerco di aprire e implementare le connessioni e suggestioni che fanno parte del mio immaginario. C’è un nuovo libro in cantiere, di cui però al momento manteniamo la riservatezza.