Secondo Giacobbi, psicoanalista e docente di psicoterapia, ultimamente si è interessato ai problemi psicologici degli anziani, raccogliendoli nel volume Vecchiaia e morte nella società fetalizzata. La psicoterapia dell’anziano. Questo ultimo argomento mi ha molto sollecitato per la sua rilevanza umana e sociale e ho voluto approfondire assieme a lui questa tematica che oggi, con il continuo aumento dell'aspettativa di vita, risulta di grande attualità e impegno clinico.

Quali sono state le motivazioni che l'hanno portata ad approfondire i temi della psicologia clinica dell'anziano, della vecchiaia e della morte?
Sa, quando si scrive un libro, bisogna ammetterlo, la motivazione è sempre prevalentemente narcisistica. Stavolta però, ancora più forte è stata una motivazione etico-civile , determinata dalla consapevolezza che il nuovo tipo di vecchiaia e di morte che si sta affermando in Occidente è intollerabilmente anti-umano. C’è poi una motivazione anche di concreto interesse personale: mi sgomenta l’idea di arrivare in tarda età e ritrovarmi, avendo perso totalmente l’autonomia, allettato, attaccato a tubi vari e con la prospettiva di anni di agonia. E’ così che rischieremo sempre più di finire.

Antropologia della vecchiaia e della morte nel passato e oggi. Quale sostanziale differenza ha riscontrato?
Nel passato il vecchio, quasi sempre autosufficiente e socialmente utile, era rispettato, anche perché rappresentava una sorta di memoria storica cui si riconosceva una grande utilità socio-culturale: trasmetteva alle nuove generazioni saperi professionali, ricordava e testimoniava eventi e situazioni del passato, da cui traeva ammaestramenti per i giovani. Incarnava, nei termini dell’inconscio collettivo, la figura del Vecchio Saggio. Oggi il vecchio, costretto per lo più ad una sopravvivenza forzata in condizioni di perdita dell’autonomia e, spesso, della lucidità, è solo un essere senza dignità e un peso umano e sociale, per se stesso e per gli altri. Quanto al morire, un tempo si moriva “in pubblico”, tra parenti ed amici, in un clima di partecipazione familiare e sociale carico di senso. Oggi accade nella clandestinità dell’istituzione ospedaliera, che nasconde un morire ormai anonimo e penoso, privo di spessore umano.

Di fronte al protrarsi della vecchiaia ha parlato di "fetalizzazione". In che senso?
Qui c’è un punto fondamentale della mia riflessione. La vita dura sempre più a lungo, perché la scienza medica contemporanea ha acquisito strumenti farmacologici e tecnologici che consentono di procrastinare e protrarre sempre più in avanti il morire. C’è però un altro dato, che le statistiche non sottolineano a sufficienza: il mantenimento, in vecchiaia inoltrata, di condizioni di autonomia (motoria e mentale) non procede con la stessa velocità con cui procede l’allungarsi della vita. Ne consegue che la vecchiaia si sta sempre più “fetalizzando”. Cosa voglio dire con questa espressione? Mi spiego: un numero crescente di vecchi, sempre più vecchi, è destinato, prima di morire, a sopravvivere in condizioni di “fetalizzazione”, cioè trasformati in “feti-senili”, dentro i loro letti-utero, attaccati a tubi e ad attrezzature medico-scientifiche sempre più sofisticate, che li fanno sopravvivere comunque, in condizioni però di vita vegetativa e “fetale”, spossessati della loro condizione di persone. Dato poi il gap, di cui parlavo prima, tra la durata della vita e un non corrispondente protrarsi dell’autonomia, questo tipo di vecchiaia fetalizzata diventerà sempre più comune e finirà per rappresentare una fase nuova e finale della vita di ogni uomo. Mi chiedo: a parte il carattere a mio avviso aberrante del fenomeno, chi ne pagherà i costi sociali ed economici? Ci sono poi anche, e soprattutto, costi psicologici che non riguardano solo i vecchi. Ma di questo, credo, avrò modo di parlare in seguito.

Il "Regno della quantità e del numero", come l'ha definito, domina la società contemporanea, così la quantità di vita ne sostituisce la qualità diventando l'unico criterio di valore.
Sì, l’unico criterio per giudicare la vita e la realtà è diventato quello quantitativo: quanto più ho e tanto più sono. Ma non è così: la qualità della vita è più importante. E sopravvivere in certe condizioni è una disgrazia, non una fortuna. In ogni caso, si dovrebbe garantire al singolo di poter scegliere tra una durata ad oltranza della propria vita, ad ogni costo e in qualsiasi condizione, e il diritto, a un certo punto, di poter morire, senza che la scienza medica pratichi, a propria discrezione, forme di accanimento terapeutico.

Quale specificità ravvisa, su questa problematica, nella società italiana?
Ad esempio, in Italia il diritto di cui ho appena parlato è pesantemente messo in discussione. E infatti in Italia è largamente dominante la cultura cattolica, che è pervasivamente materna, assistenzialistica, accuditiva, particolarmente e ideologicamente orientata a fare della conservazione della vita un valore, assoluto ma astratto, indipendentemente dalle condizioni qualitative della sopravvivenza dell’individuo. Così la Chiesa cattolica, spesso poco sensibile ai valori della coscienza individuale, non riconosce il diritto del soggetto a decidere del proprio destino, morte compresa.

Per trattare questa nuova vecchiaia, che genera una nuova "utenza", quale approccio psicoterapeutico ritiene più appropriato?
Le trasformazioni di cui ho sin qui parlato hanno creato una nuova “utenza”, sia tra i vecchi sia tra i loro familiari. Di fronte a tale utenza ci vuole innanzitutto un approccio laico, libero da ideologismi, non moralistico, quale la psicoanalisi è certamente in grado di offrire. E’ un approccio che consente al clinico di offrire un tipo specifico di aiuto psicoterapeutico, che si può articolare in tipologie diverse: i vecchi ancora in buona salute possono sicuramente affrontare, con vantaggi anche grandi, una psicoterapia che dia o ri-dia senso alla loro vita, li sappia riconciliare con essa e così trovare o ri-trovare serenità e fiducia in se stessi. Quei vecchi invece che sono ormai alle prese con un decadimento irreversibile, possono beneficiare di un soccorso diverso, nel senso di un sostegno psicoterapeutico che li aiuti ad adattarsi al declino e, soprattutto, ad affrontare ed elaborare l’angoscia di morte. Ci sono infine i loro familiari, che a loro volta possono necessitare di un aiuto psicologico.

E' possibile mettersi in gioco, sperare, cambiare a un'età avanzata?
Sì, anche un vecchio, a certe condizioni, può cambiare, anche radicalmente. A quali condizioni? Purché lucido e intatto nelle sue capacità autoriflessive e minimamente autonomo sul piano motorio. Deve inoltre sentire il bisogno di dare, o ridare, senso alla sua storia personale. La vita di ciascuno di noi ha registrato, lo sappiamo bene, perdite, fallimenti, delusioni, scelte sbagliate, tutte cose che, se rimangono incistate nella mente, possono rendere l’invecchiare ancora più penoso e angosciante. Se possibile, sarebbe vantaggioso per molti affrontare in una psicoterapia, anche relativamente breve, tali conti in sospeso.

Qual è il coinvolgimento emotivo suscitato nel terapeuta dalla relazione con questi pazienti?
Molto forte, perché con tali pazienti è inevitabile e ineludibile affrontare, come uomo oltre che come psicoterapeuta, la propria angoscia dell’invecchiamento e la propria paura di morire. Se poi riusciamo ad aiutare il paziente, da ciò deriva un aiuto ed una crescita anche per noi clinici. E di converso, se noi clinici maturiamo di fronte alla vecchiaia e alla morte una consapevolezza più lucida e più saggia, ciò aumenta la nostra capacità di aiutare gli anziani e i vecchi.

Dai suoi riscontri, che tipo di giovamento può trarre l'anziano dall'esperienza psicoterapeutica? Può accettare con più serenità l’idea di dover morire. E può sviluppare una maggiore capacità di autonomia pur nel decadimento senile. Nei casi più fortunati il vecchio può addirittura sviluppare una gioia di vivere, che ridà significato e piacere al suo vivere, pur in una situazione di decadimento.

Secondo lei anche i familiari degli anziani possono, a loro volta, beneficiare di un aiuto psicologico?
Certo, sono quelli che possono beneficiare anche di più di un sostegno psicologico. Sono infatti i più provati, più ancora dello stesso anziano, dal peso e dalla paura dell’invecchiamento del proprio genitore, che, a differenza che in passato, può durare anche molti anni, tanto da sottoporre a dura prova l’equilibrio psicologico dei figli e la qualità del rapporto affettivo tra genitori anziani e figli. Si pensi solo a come tale rapporto può essere alterato dalla situazione. Mi spiego: deve essere chiaro e deve essere detto chiaramente che si tratta di una situazione che riacutizza dinamiche di ambivalenza, per dirla in gergo psicoanalitico. Cioè i familiari del vecchio che sopravvive a se stesso e necessita di accudimento totale e costoso, in tutti i sensi, provano inevitabilmente, nei suoi confronti, sentimenti contrastanti: di pena affettuosa e di stanchezza e saturazione di fronte ad una “agonia” di cui finiscono per augurarsi la fine. Così si sentono in conflitto, colpevoli e “cattivi”. Di fronte ad una simile situazione l’aiuto psicologico è sicuramente opportuno e decisivo. E le devo dire che sono tantissimi, in effetti, e sempre più numerosi, i familiari di vecchi non più autonomi che si rivolgono a me per chiedere aiuto e sostegno.

Secondo Giacobbi è psicoanalista ASP (Associazione di Studi Psicoanalitici), membro dell’International Federation of Psychonalithic Societies, analista docente della Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica SPP e dell’Arpad-Minotauro di Milano. Ha pubblicato Storia della psicoanalisi. Scuole e figure. Percorsi e nodi (1993) e una serie di testi su problematiche transgenerazionali: Capitan Uncino. Genitori di adolescenti (1998), Peter e Wendy. La psicoterapia psicoanalitica del giovane adulto (2009). Si è ultimamente interessato ai problemi psicologici degli anziani, raccolti nel volume Vecchiaia e morte nella società fetalizzata. La psicoterapia dell’anziano.