G(x) ⊃ N(∃y) G(y)
quindi (∃x) G(x) ⊃ N(∃y) G(y)
quindi M(∃x) G(x) ⊃ MN(∃y) G(y) (M = possibilità)

Gödel, La prova matematica dell’esistenza di Dio (Teorema)

Giocare con la metrica, i versi e le parole è un passatempo meraviglioso; ci si dà una regola da rispettare e poi si parte con la fantasia. Più regole, più fantasia: è il paradosso di una libertà assoluta di espressione che nasce da restrizioni ferree. Così funziona anche nel campo della composizione musicale: scrivere una fuga o un doppio coro prevede una solida padronanza di leggi rigidissime grazie alle quali possono nascere dei capolavori di una bellezza sublime. Nulla vieta naturalmente la possibilità di infrangere le regole: il poeta può decidere di scrivere ‘diti’ e il compositore di fughe può altrettanto decidere di procedere per quinte parallele, ma deve esserne consapevole e saper bene dove sta andando a parare. L’esperimento legato a God nasce proprio grazie a queste premesse.

Veniamo ora alla citazione di Kurt Gödel, matematico, logico e filosofo austriaco, che ho messo in esergo: di matematica ne so poco e di logica ancora meno ma è innegabile il fascino che quei simboli e quelle lettere esercitino sui noi cosiddetti “non iniziati”. Oltretutto l’estetica del teorema, nella sua semplicità così pregna di concetti complicatissimi, rimanda al mondo classico che meglio padroneggio, ci riporta a quelle sententiae latine che, con tre o quattro parole, si portavano dietro un mondo intero di significati. Quando ho letto il librettino di Gödel, senza capirci molto se non le parti descrittive e introduttive, mi ha colpito particolarmente l’idea antica della dimostrazione dell’esistenza di Dio, sviscerata in quel modo, così mi sono prodigato a pensare a qualche sistema alternativo e paradossale per provare a rincarare la dose non tanto sull’esistenza, quanto piuttosto sulla possibilità di decidere di non esistere più.

Le dimostrazioni, le famose prove dell’esistenza di Dio, si basano generalmente su un certo tipo di causalità scatenante e possono essere basate sul comune consenso, su argomenti teleologici, ontologici o cosmologici, sui gradi di vicinanza alla perfezione o su prove morali. Secoli di meditazioni, scritture e analisi hanno cancellato la semplice bellezza originaria della divinità. Una divinità che, già solo perché possibile, necessariamente è da sempre nella mente dell’uomo e, essendo, tutto può, proprio in quanto divinità.

L’onnipotenza però presuppone anche la capacità di annientare se stessi, di annullarsi per non rinascere più. Quindi Dio, potendo tutto, può decidere di annientarsi, e tale suicidio, credo, potrebbe rappresentare l’unica conferma in grado di dimostrare, non solo matematicamente ma anche nel pratico, l’esistenza di dio. Quel giorno, l’ultimo – come è naturale – anche per l’uomo, non è però ancora giunto: dunque fino a questa mia scrittura o Dio non è mai esistito, o non ha voluto manifestare la sua onnipotenza. E le due cose in un certo senso si assomigliano. Questo è il ragionamento: da musicista appassionato di giochi di parole non rimaneva che scrivere un testo per una canzone che spiegasse il tutto in modo strutturato.

Ecco da dove sono partito per costruire in dieci (1+2+3+4) errati endecasillabi, poiché costruiti a tavolino facendo in modo che i loro accenti principali cadessero sulla sillaba corrispondente al numero del verso, il testo per una canzone che intitolai God , nella quale l’ultimo verso sdrucciolo chiude il cerchio della dimostrazione. Il gioco metrico è rigido, anche se infantile, ma dal suo sviluppo si sono potute incastrare parole nei versi che, forse, sanno vagamente di poesia.

  1. Ìo non mi annullo in panzane che tu
  2. nemmèno vorresti aver concepito
  3. Parapìglia senza senso: stupito
  4. ci osservi càuto, certo già sapendo
  5. che la soluziòne coinciderà
  6. con l’autodistruziòne. Quanto tempo
  7. sprecato: lasciaci stàre. Continua
  8. a farti i fatti tuoi che ti è riuscito
  9. sempre bene. Dona di pietà a noi
  10. un autentico gesto: autodistrùggiti.