Vissuto a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, Mathis Grünewald (Wurzburg 1475 circa – Halle sulla Saale 1528) rimane ancora oggi un pittore in parte misterioso, che nel momento del trionfo italiano del Rinascimento, esprime l’angoscia nordeuropea del dolore, dell’apocalisse, in una passione religiosa che sfiora l’orrore e il mistico, espressione di un sentimento appassionato da parte di un artista che conosce l’arte italiana ma si fa anticlassico. Diversa è infatti la sua sensibilità che viaggia tra ricordi gotici, scene realistiche, visioni oniriche e senso di una fine imminente. Si forma osservando Memling, van Eyck, Schongauer, Michael Pacher, ha rapporti con Durer, si inserisce nelle conquiste spaziale e cromatiche del tardogotico ma cresce fino a trovare la propria indiscutibile visione.

La luce reale e irreale e le Crocifissioni

Non gli interessano la prospettiva e il corpo idealizzato ma l’espressione di un sentimento religioso ed umano nella realtà più cruda, la natura come spazialità panica, il tono visionario di ciò che si rappresenta mediante un colore che varia: brillante, cangiante, sensibilissimo alla luce. Essa è la grande protagonista delle sue opere, capace di modularsi in turgore cristallino e ombre fuggenti, in note lunari e territori fangosi: reale e irreale. Fisica e simbolica ma sempre radice di un trasalimento metafisico, di un eccesso tra orrore e misticismo.

Già nel Cristo deriso (1504-1505, Monaco, Alte Pinakotek), un notturno senza pietà, c’è la furia diabolica scatenata. Si osservi il pugno alzato dello sgherro, il giovane dalla faccia scimmiesca, la figura porcina del capitano e lui, il Cristo bendato col sangue che gli cola dal naso, una larva umana silenziosa. Un espressionismo spiazzante, un furore diabolico sull’”Uomo dei dolori”. La Crocifissione di Basilea (1500-1508, Kunstmuseum) è collocata in un altro notturno plumbeo, entro un paesaggio surreale dove scorre un fiume verdastro. Il Cristo esile come un fantasma è appena spirato, ha il perizoma stracciato al vento, i dolenti sono bloccati in tinte avvampanti e gelide al tempo stesso in una natura spettrale. Un dolore cupissimo.

In un’altra Crocifissione (1510-1511, Washington, National Gallery) la concitazione del dramma è ancora più forte. La croce rozza ed arcuata sostiene un Cristo sfinito dal capo incoronato da spine immense e aguzze, dal corpo abbruttito dalle ferite, disossato, mentre i dolenti paiono disperati a urlare un “perché?”. C’è una luce biancastra che piove sulle figure, la natura intorno è franata nel terremoto di cui parla il vangelo. Una natura ancora verdastra, muta in un tempo sospeso, la luce vagante su una tragedia che è apparizione di dolore e terrore. È un dipinto che attesta la fede come compartecipazione totale, una pietas smisurata come smisurata è stata la morte dell’Innocente.

Dopo il Polittico di Isenheim, Grunewald che lavora per il principe-vescovo Alberto di Brandeburgo, dipinge i Santi Erasmo e Maurizio in conversazione tra un anziano e un soldato (1517-1523, Monaco, Alte Pinakotek). Erasmo è in realtà il cardinale Alberto, il vescovo di Lutero – a cui l’artista aderirà -, ritratto dal vivo con efficacia, vestito sontuosamente di oro e gioielli, descritti minuziosamente, mentre Maurizio è un soldato di colore chiuso in una armatura d’acciaio. È nelle opere estreme che Grünewald chiude la sua meditazione sulla Passione di Cristo con un linguaggio ancora più dolente che ormai apre al surreale. Il Trasporto della croce (1523-1525, Karlsruhe, Staatliche Kunsthalle) è una processione agitata, nevrotica: i carnefici infieriscono sul Cristo visibilmente sofferente e con uno sguardo implorante verso il cielo. Immensa, pesante è la corona di spine, violenta come gli sgherri. I colori acidi, i ghigni furenti in abiti contemporanei ricordano la terribile guerra dei contadini di quegli anni, repressa nel sangue dai signori.

La straziante, impietosa Crocifissione dello stesso museo, vede un Morto stanco, immenso, purulento, sulla croce arcuata e fragile, sta per cadere a terra. Un fondo scuro, colori elettrici. Il volto del Cristo è un capolavoro espressionistico: la bocca aperta nel grido strozzato in un urlo spaventoso, il cespuglio di spine in capo, irte, enormi. Una scena simile è destinata a produrre nel fedele - siamo in anni di un’autentica rivoluzione religiosa - una sorta di “stigmatizzazione” dell’anima insieme al Cristo diventato “verme della terra”. Maria e Giovanni sono figure tragicamente sole, in attesa di una nuova armonia con la creazione, come Grünewald aveva espresso anni prima nell’arcobaleno che circondava la ridente Madonna di Stuppach, radiosa in mezzo ad una natura in fioritura (1517-1520).

Il polittico di Isenheim (1512-1515)

Nell’aula del museo di Unterlinden a Colmar si spalanca una visione di terrore. Un Cristo immenso come il suo strazio si accascia, la bocca aperta nello spasimo, sulla croce. Dita contorte, un corpo coperto di piaghe purulente, un urlo lacerante gridato sul buio pesto. Negli anni in cui il rinascimento italiano esalta l’armonia universale in corpi di classica compostezza, questo pittore medita sul lato orribile della morte. Il suo è un Cristo piagato ed enorme – come tanti contemporanei nelle pestilenze ricorrenti, malati conservati nell’ospedale per cui il polittico è dipinto - trafitto da spine: già in decomposizione su di un cielo che sembra non rispondere. Un Eroe brutto, sgraziato, purulento, nel buio della fine, cui guarda una Maddalena in rosa, piccola e disperata, una Madre pallida in affanno sostenuta da un Giovanni tristissimo, un Giovanni Battista selvatico che lo indica come l’Agnello Mistico sgozzato. Figure sproporzionate in un Dies irae sul Morto e sulla terra contro un cielo oscuro, anche se non del tutto. Colori variegati, una tavolozza finissima - i rosa, i rossi, i verdi - luci oscillanti. Ma in questa umanità brutta e ferita l’umanità dolorante trova conforto perché Dio ha voluto provare il dolore più atroce.

Ai lati dello scomparto centrale del Polittico chiuso, commissionato dal priore dell’Ordine degli Antoniti, il siciliano Guido Guersi, due santi martiri: Sebastiano, giovane trafitto dalle frecce, di chiara derivazione italiana e Antonio Abate, barbuto martire nello spirito, fondatore dei monaci che si occupavano dei malati nell’ospedale (lebbrosi, sifilitici, appestati). Nella predella, il Cristo deposto mostra il corpo meno sfatto: il panorama contempla con colore stupendi la striscia blu del fiume, i monti Vosgi rossicci, il cielo di un particolare colore lavanda. La Maddalena è una maschera cieca, Maria è velata, Giovanni prega: dolore, eppure una fioca speranza, un brivido di pace.

Grünewald aggredisce, con la sua riflessione sulla solitudine dell’uomo - anche di un Dio - di fronte alla morte. Non descrive solo quella fisica, ma anche un’altra, più tremenda, quella dello spirito. Il soggetto è classico: le Tentazioni di San Antonio abate, su cui hanno meditato intere generazioni e dipinto schiere di artisti. Collocata a tergo del grande polittico, ai lati dell’altare ligneo con l’Ultima Cena e la statua di sant’Antonio, la scena vede ripetere nell’animo del santo lo strazio fisico e spirituale del Cristo. In un crescendo orrorifico, che ricorda il contemporaneo Bosch - ma con maggior esasperazione - creature mostruose assaltano l’abate per i capelli, trascinandolo in un paesaggio di distruzione catastrofica, fra picchi altissimi, case sconquassate, cieli vitrei su cui si apre, punto luminoso, una apparizione celeste. Ma così lontana, che la speranza che dovrebbe infondere, sembra irraggiungibile. È l’uomo sotto il peso della tentazione diabolica, che racchiude ogni deformazione possibile dell’anima, tradotta dalla fantasia visionaria di Grünewald e del suo tempo in forme ripugnanti. Il colore è gelido come la “prova” del santo, cui la luce celeste, lontana, pare aumentare l’impotenza.

In un pessimismo quasi cosmico, l’anima “germanica” affonda nel Cristo, uomo dei dolori, il proprio dolore. Con la “pietà” appassionata del tardo medioevo, eccessiva, ma che nella “sola fede” trova la risposta alla sofferenza umana. Ecco allora il Polittico aprirsi ad una visione di paradiso. Dall’Annunciazione sotto le volte di una cattedrale, con la Vergine dai rossi capelli, allo scomparto centrale, un trionfo di luce estatica. Qui un concerto di angeli musici sfolgora in gradazioni di bianco e rosso fiamma, sotto un baldacchino gotico, con forme che entrano ed escono dall’ombra come lucciole luminose. Dal ragazzo col violoncello in primo piano, vestito di rosa e bianco, agli altri spiriti che “diminuiscono” in proporzioni man mano che rientrano nell’oscurità è una orchestrazione di colori più “spirituali” che reali: è il paradiso in festa che si contempla, come la Madonna che sorride al Bambino sullo sfondo di monti infinitamente alti coperti da nubi, luoghi dei sogni e degli spiriti cari alla fantasia nordeuropea.

Ma dove l’angoscia del Polittico ad ante chiuse - la vita umana - si trasforma in esultanza è quando si apre sul Cristo risorto, fluttuante nel cosmo con una luce che tramortisce le guardie. Frontale come una “vera icona” bizantina, con le palme delle mani aperte a mostrare le piaghe, il volto dorato che si confonde col lume, splendore su splendore, è immagine di una bellezza vincitrice che lascia il mondo – il sudario che trascolora dal biancoazzurro al rosso –, e sfida i secoli. Leggero e diafano nella notte stellata, di cui Grünewald coglie il senso panico dell’infinito con anima “romantica”: tanto la fede nel Cristo-Luce si unisce al desiderio di afferrare il respiro dell’universo. Qui si conclude il destino dell’uomo, in una glorificazione simile a quella del Cristo, nel cui dolore e nella cui resurrezione è possibile trovare speranza.

Una meditazione alta e inesorabile sulla vita umana, questa di Grünewald. Di qui l’apparente noncuranza nelle proporzioni dei corpi, l’uso innaturale del colore, l’estremizzazione del sentimento - dalla dolcezza alla gioia, dall’orrore allo spavento. Un’arte “visionaria”, in cui la “bruttezza” anticlassica diventa immagine psicologica e spirituale, lingua nuova per sondare gli abissi dell’uomo in cerca di risposte. Fino ad originare “altre forme” di bellezza, come quella del Risorto che nuota nello spazio, corpo libero dai vincoli del disegno e della prospettiva, e dalla cromia così abbagliante nei rossi e nell’oro, da essere ormai “astratta”. Grünewald precorre la modernità.

Il libro Mathis Grunewald. Orrore e visione

Lo storico e critico dell’arte Mario Dal Bello ha da poco pubblicato con la casa editrice “deiMerangoli” di Roma il libro Mathis Grunewald. Orrore e visione. L’autore ripercorre la vita e analizza le opere di questo artista per il quale linea e colore assumono un'importanza sostanziale, manifestando una sensibilità tardo-gotica ed espressionista. Suggestivo atto espressivo e primordiale, nervosa talvolta fino all'eccesso, la linea fa raggrinzare, torcere o sfavillare corpi, panneggi e paesaggi, donando loro la stessa tensione delle linee dell'architettura tardo-gotica.

Il colore è espressionismo puro, diventa carne e sangue e imprime ai corpi fisicità e concretezza attraverso le quali Grünewald esprime la propria intima realtà visionaria rendendone prepotentemente partecipe l'osservatore. L'uso così espressivo della luce e del colore è emerso soprattutto dopo il restauro del Polittico di Isenheim, ampiamente descritto nel libro. Lontano dall'accademismo e dalla rinascimentale perfezione dei corpi e delle proporzioni, l'arte di Grünewald, frutto di una religiosità appassionata che trova nel soggetto del “Crocifisso Risorto” l'immagine del dolore più crudo trasformato in luce, appare dunque emotiva e impulsiva, talvolta parossistica e frenetica.

La peculiarità sottesa di tutte le sue opere è la capacità di declinare l'orrore, rendendolo reale e nel contempo visionario, e di attingere a una fantasia sconfinata capace di descrivere l'abisso più imperscrutabile e la luminosità più abbacinante, come nel suo indiscusso capolavoro conservato a Colmar.

Dinanzi alle opere del maestro Matthias (o Mathis) Grünewald lo sguardo difficilmente può restare indifferente ed il processo non sembra potersi arrestare facilmente ad una superficiale curiosità. Del resto anche dinanzi alla vicenda della sua vita è difficile restare indifferenti. Sappiamo così poco di lui. Rimane aperta la discussione sulla sua stessa identità e conseguentemente sulla sua scelta confessionale.

(Claudio Guerrieri, dal saggio introduttivo al volume Mathis Grunewald. Orrore e visione, deiMerangoli Editrice, Roma 2023, p. 9).

Epilogo

Figlio del suo tempo, il Cinquecento con la riforma luterana e la Guerra dei contadini tedeschi e della sua terra, la Renania, Mathis Grünewald viene realmente scoperto alla fine dell'Ottocento. Acclamato come un precursore durante l'espressionismo tedesco, nella Germania nazista è considerato un fautore di "arte degenerata". Ma finalmente dopo la Seconda guerra mondiale si imporrà come uno dei più grandi pittori di tutti i tempi.