Il sake, anche chiamato erroneamente sakè, è probabilmente la bevanda giapponese più famosa al mondo.

Oggi, tutte e 47 le prefetture Giapponesi producono sake.

Quando parliamo di bevanda alcolica, però, non ci riferiamo ad un distillato (grappa/whisky) ad un liquore (limoncello) e nemmeno propriamente ad un fermentato (birra) o ad un vino; possiamo comunque dire che il mondo del sake è una realtà indipendente che appartiene ad una categoria tutta sua.

In realtà quello che noi chiamiamo sake è un particolare fermentato di riso conosciuto in Giappone come nihonshu (alcol giapponese) in quanto in giapponese la parola sake significa semplicemente “bevanda alcolica”.

Gli ingredienti del sake sono pochi e semplicissimi: riso, acqua e il fungo aspergillus oryzae, chiamato più semplicemente koji, che è il responsabile della saccarificazione del riso durante il processo di preparazione.

Il primo sake di cui siamo a conoscenza è chiamato kuchikami (sake masticato in bocca) perché gli ingredienti venivano masticati e poi sputati in un tino a fermentare.

La masticazione era essenziale perché, grazie alla ptialina, gli enzimi presenti nella saliva iniziavano il processo di saccarificazione (conversione in zucchero) degli amidi e da lì aveva luogo la fermentazione.

Sicuramente il risultato non è quello che conosciamo noi oggi ma lo stesso processo di masticazione si ritrova anche nella preparazione della chica sudamericana, una bevanda alcolica preparata a partire dal mais.

Il koji

Questo fungo contiene degli enzimi particolari che saccarificano l’amido presente nei chicchi di riso, i lieviti, selezionati e aggiunti in un secondo momento fermentano gli zuccheri presenti nel composto. Proprio questa è una delle differenze principali tra il sake e le altre bevande alcoliche, in questo caso il riso subisce contemporaneamente più di una fermentazione, e viene definita comunemente fermentazione multipla parallela.

Con il passare del tempo il sake divenne sempre più raffinato e di qualità e raggiunse una popolarità tale che fu istituito un organismo per la sua preparazione addirittura nel palazzo imperiale di Kyoto, l’antica capitale dell’impero giapponese, con la successiva creazione di una figura professionale apposita per la preparazione del sake, ovvero il toji.

Oggi il toji è una figura professionale molto rispettata nella società giapponese, al pari di un medico o di un avvocato.

Ma quanti tipi di sake esistono?

Quando parliamo di sake, dobbiamo essere consapevoli che, così come accade per il vino, per l’olio, la birra o altri distillati, ne esistono diverse tipologie.

La National Tax Agency, agenzia delle entrate giapponesi, ha elaborato diverse categorie per le varie tipologie di sake in base alle loro caratteristiche. Era il 1992 quando fu redatto un disciplinare che farà da riferimento normativo sia per i produttori che per i consumatori, stabilendo due macro categorie, non tenendo conto del sake definito futsushu, da non confondere con quello che noi potremmo chiamare vino da tavola, bensì un sake fuori dal disciplinare.

Le due macro categorie sono i sake Junmai e i sake con alcol aggiunto, dove la prima racchiude tutti i sake i cui ingredienti sono solamente acqua riso e koji, mentre nella seconda categoria possiamo trovare sake dove, oltre agli ingredienti principali, vi è anche la presenza di alcol etilico.

Senza entrare troppo nel dettaglio della produzione del sake, per chi volesse iniziare un percorso di degustazione guidata e formazione di questo fermentato, basti sapere che, uno dei passi principali per la classificazione e produzione, è la sbramatura del chicco del riso a seguito della raccolta.

Questo passaggio permette di eliminare dalla parte più esterna del chicco le proteine, i lipidi e i minerali; in questa fase i chicchi vengono inseriti in apposite macchine levigatrici e sbramanti fino al punto desiderato.

Da questo processo avremo perciò una netta classificazione dei sake, i chicchi sbramati molto, fino quasi alla gemma daranno profumi e sapori più eleganti e fini di frutta fresca come melone, banana, mela verde, mango, al contrario i sake ottenuti con chicchi di riso non molto sbramati avranno sapori pieni di amido e riso cotto.

Come bere il sake… caldo, freddo o….

Vi siete mai chiesti come si beve il sake? Quando, in un ristorante orientale, per concludere il pasto, vi portano il classico bicchierino di sake, le opzioni sono due: caldo o temperatura ambiente, in verità abbiamo anche un’altra possibilità e cioè quella di bere il sake freddo o ghiacciato senza assolutamente comprometterne le caratteristiche organolettiche.

Ricordatevi sempre che una temperatura eccessiva causa l’evaporazione della componente alcolica e degli ingredienti con un punto di ebollizione più basso. La temperatura di servizio non influisce sulla capacità del commensale di percepire l'acidità a differenza dei gusti dolci che, vengono meglio riconosciuti a una temperatura prossima a quella corporea.

Se scegliessimo di pasteggiare con il sake nel massimo rispetto della cultura gastronomica giapponese piuttosto che degustarlo solamente a fine cena, la regola vorrebbe che la temperatura del sake e quella del cibo corrispondano.

Ricordate che il sake è una bevanda che si presta a sperimentazioni di vario tipo, perciò provate, assaggiate, degustate, cercate il sake che più vi aggrada, quello più fruttato, quello più dolce, acido, secco, caldo, freddo, dapprima un piccolo sorso quasi a bagnarsi le labbra e via via cercando, chiudendo gli occhi, di scovare tutti i sapori e i profumi che questa splendida bevanda, ricca di storia, porta con sé.

Io lo consiglio anche come aperitivo, gli sparkling sake infatti stanno prendendo sempre più piede nella cultura enogastronomica mondiale come già da anni sta facendo il mondo della mixology con risultati stupefacenti.