Impossibile non ricordare l'iconica fotografia di un astronauta in tuta spaziale sulla Luna, apparsa sulle copertine dei giornali in tutto il mondo nel 1969, e che su Life era accompagnata dal titolo: To the moon and back (Fino alla Luna e Ritorno). Una fotografia scattata da Neil Armstrong al pilota del modulo lunare Buzz Aldrin che, come tutto l'equipaggio, indossava queste piccole meraviglie d’ingegneria e sartoria. Conosciute come “modello A7L”, erano tutte fatte su misura, e all'epoca costavano circa $100.000 ciascuna (oggi $700.000), cifra alla quale si dovevano aggiungere i costi del casco, delle soprascarpe, dei guanti e del “Portable Life Support System” (PLSS), lo zaino di sopravvivenza contenente l’ossigeno e il supporto ambientale. In pratica, ogni tuta spaziale, oggi come allora, è come una piccola astronave personale, in grado di offrire a chi la indossa, protezione e sostentamento durante le attività extraveicolari nello Spazio o su di un pianeta.

Perché funzionino, le tute devono essere pressurizzate dall'interno, il che significa portare in giro una piccola versione dell'atmosfera di cui gli esseri umani richiedono per restare in vita. In parole semplici, è come se fossero dei palloncini molto sofisticati, il cui compito è consentire a un’astronauta di muoversi in sicurezza in un ambiente ostile, a gravità limitata, ricoperto di polvere, e costellato da rocce taglienti e pericolose. Non solo, devono essere anche in grado di resistere a temperature estreme che partono da -280°C all'ombra fino a +240°C al sole, oltre a resistere alla perforazione da parte di qualche malefico micrometeorite, la cui velocità si aggira intorno ai 60.000 km/h. Come se questo non bastasse, dovevano essere elastiche e questa fu la sfida ingegneristica più difficile, perché gli astronauti dovevano essere in grado di muoversi con quasi la stessa libertà, flessibilità e agilità che avrebbero avuto sulla Terra.

Dovevano essere in grado di arrampicarsi, piegarsi, torcersi e guardarsi intorno, e soprattutto, muovere le braccia e le mani in modo da poter fare qualsiasi cosa sulla superficie della Luna o mentre camminavano nello spazio. I guanti, come disse un funzionario della NASA, devono consentire a un astronauta di raccogliere un centesimo. Alla già complessa risoluzione di questi ostacoli, si aggiunse la necessità che fossero ignifughe, dopo che l'incendio dell'Apollo 1, avvenuto nel gennaio 1967, era costato la vita all’intero equipaggio. Infatti, a seguito dell’incidente, la NASA stabilì che tutte le tute dovessero resistere a temperature di oltre 500°C, soluzione che fu trovata grazie all’adozione di un tessuto innovativo chiamato “Beta”, realizzato con microfibre di vetro rivestite in teflon, che fu poi utilizzato per lo strato più esterno della tuta finale.

Quello però che pochi sanno, è che a dare vita a questo fondamentale pezzo di tecnologia è stata la Playtex, al tempo nota azienda di moda intima femminile, specializzata in reggiseni, body e corsetti. Per essere più precisi va detto che le tute spaziali furono create dalla “International Latex Corporation” (ILC), che era il nome ufficiale dell’azienda a cui il marchio Playtex apparteneva che, a quanto pare, si propose come fornitrice delle tute intravedendo l'apertura di un «nuovo mercato» nella corsa allo spazio, basandosi sulla sua esperienza in fatto di materiali plastici adottati nella propria produzione per il mercato femminile. Con le conoscenze di oggi può apparire strano che la NASA si sia affidata a una fabbrica di reggiseni, ma la progettazione e la realizzazione delle prime tute lunari fu talmente intricata e piena di colpi di scena, da convincere Nicholas de Monchaux, professore di architettura al MIT, di scriverne la storia nel suo Spacesuit: Fashioning Apollo (2011), e alla Warner Bros. di acquisirne i diritti d’autore (2013) per la realizzazione di un film.

Ma veniamo alla storia. Più di due decenni prima dello sbarco dell’uomo sulla Luna, la ILC presentò al pubblico la sua ultima creazione: il Playtex Living Girdle. Si trattava di un reggiseno in lattice morbido che fu una vera rivoluzione, perché “sosteneva” senza l’ausilio di cuciture, punti, o fastidiosi ferretti, e permetteva di essere indossato modellando chi lo metteva, senza la necessità di un adattamento personalizzato come solitamente allora si faceva. Nel campo della Moda femminile fu accolto come una vera rivoluzione. Un annuncio sulla rivista Life dichiarava: "Un body ideale per tutte le occasioni, e che ti rende più snella che sia un abito da sera che un costume da bagno!". Oppure: “Comodo per il golf o la guida, come per ore seduta a una scrivania, e anche: Lavora o gioca, inverno o estate, la Playtex Living Girdle non si stanca mai per te.”. Questa curiosa e “intima” premessa spiega come la Playtex, sia riuscita nell’intento di aggiudicarsi la gara per la realizzazione delle prime tute lunari, quando tutto sembrava giocare contro l’azienda.

Quando la NASA bandì la gara d’appalto per la tuta Apollo nel 1962, l'ILC aveva da poco avviato una nuova Divisione di ricerca e sviluppo: la Speciality Products Division (SPD), nata per soddisfare le richieste di Marina e Aeronautica per la fornitura di caschi e tute da pilota a pressione parziale. La Divisione era stata affidata a Len Sheperd, un ex brillante studente del MIT che da giovane riparava televisori, prima di essere assunto da Abram Spanel, il fondatore della ILC. Partecipare quindi a una gara per lo studio di fattibilità di una tuta spaziale, non sembrò ai dirigenti della ILC un grosso problema, anzi, l'esperienza acquisita con la gomma in combinazione con materiali diversi, nella realizzazione di reggiseni e altri accessori per la moda femminile, li fece sentire sicuri di rispondere a tutti i requisiti contenuti nella scheda tecnica della gara.

In quegli anni, la gomma non era ritenuta un materiale adatto per una tuta spaziale. Infatti, tutti i prototipi presentati dagli altri concorrenti, appaltatori ben conosciuti dagli ingegneri della NASA, apparvero maggiormente favoriti perché avevano lavorato con l’Agenzia a prototipi molto più simili ad armature impenetrabili, ma di contro pesanti e ingombranti. Forte dell’esperienza nell’utilizzo del lattice, la SPD propose alla NASA un nuovo tipo di tessuto, che impiegava tubi di gomma flessibili a fisarmonica, al posto dei tradizionali giunti metallici utilizzati dai concorrenti. Accoppiati a cavi d’acciaio di restrizione che impedivano alle pieghe di appiattirsi, questo "corrugato" in lattice morbido consentiva una discreta mobilità sia nei gomiti, che nelle spalle e nelle altre articolazioni, inarrivabile con i sistemi studiati fino ad allora.

La combinazione dei materiali che formavano il soffietto, era qualcosa di profondamente familiare alla ILC, e come ha scritto De Monchaux nel suo libro, essere esattamente "… il tricot di nylon della superficie del reggiseno, la fettuccia elastica del cinturino, e la gomma immersa nel tessuto morbido, di cui era fatto un body modellante … ". Un altro vantaggio della Playtex era anche l’esperienza acquisita nell'assemblaggio di lattice resistente alle forature: in cinture; lenzuola impermeabili; bavaglini e fodere per pannolini.

Ma la poca esperienza dell'ILC con i contratti governativi, la scarsità di qualifiche aziendali e le piccole dimensioni della Divisione, che pur aveva contratti in essere con il Governo, la sfavorirono nella scelta finale, nonostante avesse soddisfatto tutti i criteri tecnici, e vinto la gara con il punteggio finale più alto rispetto agli altri quattordici concorrenti. I funzionari dell’Agenzia spaziale dovettero quindi scegliere se dare il contratto a un’azienda quasi sconosciuta, piccola e priva d’esperienza, oppure orientarsi verso aziende già note e per questo più affidabili. Alla fine, la decisione finale fu del tutto politica, poiché nessuno dei funzionari volle prendersi la responsabilità di andare davanti al Congresso, con miliardi di dollari e il futuro del programma spaziale americano in gioco, per spiegare che il primo uomo sulla luna sarebbe stato equipaggiato da una piccola Divisione di una società meglio conosciuta per la lingerie, alla cui guida vi era un ex riparatore di televisioni. Un’opzione questa, che non era proprio accettabile dalla NASA. Fu così che l’Agenzia affidò il contratto alla Hamilton Standard, ma per non perdere le innovazioni portate dalla International Latex, chiese all’industria di accordarsi con la ILC che, come subappaltatore, avrebbe fornito tutti i corrugati in gomma necessari ai movimenti delle articolazioni.

Sulla carta la soluzione sembrò ottimale, ma la NASA non tenne conto degli interessi economici che ruotavano attorno alla fornitura. Infatti, l’accordo non poteva funzionare, perché anche la Hamilton aveva una propria tuta lunare, e non aveva nessuna intenzione di lasciare spazio alla “piccola” ILC. Fu così che nei primi mesi del 1965, adducendo motivazioni come l’aumento immotivato delle spese, scarsi risultati nella preparazione dei materiali e ritardi nelle consegne, la Hamilton convinse la NASA della volontà di chiudere quanto prima il contratto con ILC per inadempienza. A seguito di questa decisione, la NASA confermò la fornitura alla Hamilton, che nel frattempo al posto di ILC aveva preso la B. F. Goodrich Standard, annunciando al tempo stesso che alla gara finale avrebbe partecipato anche la David Clark Company, in un primo momento eliminata.

L'estromissione dal contratto scatenò una tale serie di eventi, che potrebbero sembrare usciti da un film di Hollywood. La NASA, infatti, non tenne conto dell’ostinazione del capo divisione Len Shepard, che non appena seppe dell’esclusione chiamò il quartier generale della NASA, minacciando un’azione legale se non fossero stati ricevuti per un chiarimento. Accompagnato dal nuovo presidente dell'ILC Nisson Finklestein, prese il primo aereo disponibile e volò fino a Houston. Sorprendentemente, invece di presentarsi con i legali come si aspettavano i funzionari dell’Agenzia, Shepard offrì ai dirigenti della NASA la fornitura di un nuovo prototipo di tuta, interamente prodotta a loro spese, se solo avessero permesso all'azienda di competere contro Hamilton e David Clark. Non avendo nulla da perdere la NASA accettò la proposta, precisando che la loro presenza non avrebbe cambiato i criteri della gara, che sarebbe rimasta ai due concorrenti designati. Ora la ILC aveva la possibilità di dimostrare le proprie potenzialità, ma restavano solo sei settimane per presentare il prototipo, denominato AX5L. Per questo motivo in fabbrica seguì un immediato turbinio di attività. Mentre si raccoglievano i fondi necessari a coprire le spese, stimate in $110.000, il gruppo di lavoro alla SPD fu riorganizzato riducendolo a poco più di una dozzina di ingegneri e tecnici, che iniziarono a lavorare su turni di 24 ore. Arrivarono perfino a scassinare le serrature dei loro laboratori e magazzini, alcuni dei quali appena sgomberati dai tecnici della Hamilton, per recuperare materiali e documenti nel cuore della notte. Ciononostante, la ILC entrò nella competizione, che durava tre settimane, con una di ritardo.

Gli eventi durante la valutazione furono altrettanto drammatici. La cerniera interna della tuta della ILC si ruppe alla prima pressurizzazione, costringendo l'azienda a noleggiare un jet per riportarla alla sede della SPD, che si trova dall’altra parte del paese, nel Delaware. Ritornata al NASA Ames Research Center, Moffett Field in California, la AX5L superò tutti i test, ma partecipando fuori gara non era selezionabile. Agli altri concorrenti le prove andarono molto peggio. L'elmetto della David Clark esplose, quando il collaudatore tentò una manovra d’uscita d’emergenza dal Modulo Lunare, portandosi via anche il suo naso. Mentre l’addetto al collaudo della Hamilton non riuscì più a rientrare nel Modulo Lunare, perché le spalle della tuta si erano gonfiate fuori misura: "bloccando così l'astronauta immaginario sulla superficie della luna per sempre”. Questi incidenti invalidarono le tute della Hamilton e della David Clark, e per la NASA questa bocciatura equivaleva a rifare una nuova gara, evento che avrebbe portato a un gravissimo ritardo nell’intero progetto lunare. Certo c’era sempre la AX5L della Latex, ma era fuori dalla competizione, e quindi non utilizzabile se non forzando le rigide procedure della NASA.

Gli equilibri cambiarono inaspettatamente quando al Centro venne a far visita il vicepresidente degli Stati Uniti Hubert Humphrey, al quale furono mostrate le tre tute. Humphrey notò che due portavano l’emblema della NASA, mentre quella della ILC era senza. Il Vicepresidente non sapeva a quali aziende appartenevano le tute in prova, e rivolgendosi ai presenti chiese il motivo di quella mancanza, ma nessuno gli diede una risposta. Disse allora Humphrey: “Immagino che quella ancora senza emblema sia la vincitrice della gara, giusto? Ma anche a questa domanda seguì un lungo imbarazzato silenzio.

Pochi giorni dopo Finklestein ricevette una telefonata da Houston per negoziare un nuovo contratto. Il colloquio che seguì fu memorabile. In un primo tempo Finklestein non si fece trovare, dicendo alla segretaria di dire a Houston che era impegnato nei festeggiamenti per la vittoria. Incalzato dalle continue telefonate, alla fine decise di andare a rispondere di persona. Dopo aver sentito la proposta, replicò che al momento non era interessato, anzi, stava pensando di buttare la tuta nel fuoco per verificare se resisteva alle fiamme come calcolato. Dall’altro capo del telefono il funzionario della NASA scandalizzato strepitò: “ma state scherzando vero? E Finklestein: “In parte si. D'altronde sapete bene quanto ci avete trattato male.”

Considerando che erano entrati nella competizione come indipendenti, e che la tuta era di loro proprietà in quanto fabbricata a loro spese, Finklestein riuscì a ottenere un contratto che oltre alla fornitura di tutte le tute spaziali necessarie al programma Apollo, ripagava l’azienda per tutti i torti subiti. Fu così che nel 1969, Neil Armstrong e Buzz Aldrin poterono camminare sulla Luna al sicuro, grazie alle tute cucite da una azienda di reggiseni.

Contrariamente a quello che si può pensare, la vera storia delle tute lunari non è quella legata alla conquista della luna, ma ai “tecnici coinvolti” da Len Sheperd alla sua realizzazione, che altro non erano che un gruppo di bravissime sarte. Molte di queste professioniste, infatti, provenivano direttamente della Playtex, il che significa che erano passate da un negozio che produceva reggiseni e body a un altro che produceva abbigliamento per la luna. Non fu un lavoro facile, infatti, a queste donne, che pur avevano un'abilità estrema, si chiese di raggiungere una ‘precisione senza precedenti’, ancora più di quanto si richiede in una casa di alta moda, perché le specifiche della NASA imponevano tolleranze inferiori al mezzo millimetro dal bordo di ogni cucitura!

Nonostante le difficoltà e i tempi contingentati, queste magnifiche specialiste riuscirono nell’intento di mettere insieme ventun strati di sottili tessuti altamente tecnici, tra cui un panno in fibra di silice rivestito di teflon, e uno intrecciato da sottilissime fibre d’acciaio inossidabile. Il tutto era unito insieme “come una matriosca", perché altro non erano che ventun tute distinte, cucite una sopra all’altra, e per farlo le sarte della SDP utilizzarono solo le mani e delle normalissime macchine da cucire della Singer. Per ottenere il massimo livello di sicurezza, ogni singolo spillo o graffetta temporanea erano severamente regolamentati, oltre che generalmente sconsigliati. Per essere sicuri che nulla fosse dimenticato fra le trame, l'azienda arrivò a installare, con i rischi che comporta, una macchina a raggi X sul pavimento dell'officina, così da poter scansionare con facilità le tute alla ricerca di eventuali “spille canaglia”.

Cathleen Lewis, curatrice dell’International Space Programs and Spacesuits, presso il National Air and Space Museum dello Smithsonian a Washington, in una intervista ha definito il lavoro di queste donne psicologicamente massacrante. Un singolo errore, specialmente uno che danneggiasse le fibre, significava buttare una tuta intera e ricominciare tutto da capo. Ma non c’erano solo le sarte, in piedi, spalla a spalla, c’erano anche quelle che Cathleen Lewis ha definito: “le signore della colla". Specialiste che applicavano con precisione la colla su tutte le guarnizioni di gomma, e lo dovevano fare: "Molto, molto rapidamente. Molto, molto efficientemente e senza difetti” perché asciugava in pochissimo tempo. C'erano poi quelle che chiamavano “le tuffatrici", perché lavoravano gli strati di gomma necessari a creare i giunti flessibili delle articolazioni. Lo facevano immergendo i tessuti nel lattice, con la stessa perizia e abilità che mettevano nella realizzazione dei corsetti elastici e dei body. Un'altra prova, se serve ancora, dell’intima relazione tra Playtex e il programma Apollo. Si pensi che fino al 1966, i tubi di lattice liquido che correvano verso la sala d’immersione dove lavoravano le “tuffatrici”, uscivano dagli stessi serbatoi che rifornivano le linee di assemblaggio di guaine e reggiseni.

Le sarte e le specialiste dell'ILC ebbero quindi la grande responsabilità e tutto il peso, della realizzazione delle tute spaziali Apollo. Né dimenticarono mai durante la lavorazione, che i loro “abiti” sarebbero stati indossati da persone reali, e per rendere ancora più concreta questa responsabilità, ogni tuta portava la fotografia dell'astronauta a cui apparteneva. In questo modo si riuscì a realizzare una reale connessione fra le sarte e la persona che avrebbe portato la tuta che lo avrebbe mantenuto in vita, grazie alla loro maestria nella realizzazione di un vero capo di abbigliamento, e non di un oggetto altamente ingegnerizzato.

Alla fine, le tute hanno fatto di più che mantenere una barriera protettiva tra la vita e la morte su un suolo incredibilmente alieno. Infatti, grazie agli sforzi combinati del programma “tuta spaziale”, e gli stessi materiali che la ILC aveva utilizzato per la nascita della Playtex e del suo abbigliamento intimo femminile, Armstrong e Aldrin furono in grado di flettere gomiti, ginocchia e caviglie con il minimo sforzo, eseguire esperimenti, raccogliere campioni di rocce e polvere, e fare una corsa non programmata per fotografare un cratere a circa duecento metri dal lander lunare. Neil Armstrong, il primo uomo a scendere sulla Luna, le definì come: «Uno dei veicoli spaziali più fotografati della storia … Indossandolo avevi la sensazione che fosse robusto, affidabile e dopo un po', al suo interno, ti sentivi quasi coccolato ».

Come Armstrong, anche tutti gli altri astronauti del progetto Apollo considerarono questi capi d’abbigliamento altamente sofisticati, come “parte stessa dei loro corpi". Un vero grande successo per una piccola fabbrica di reggiseni.