I miei nipoti Carolina e Leonardo, due gemelli, hanno compiuto diciotto anni il 12 novembre. Lo so, l’informazione può essere considerata superflua, ma c’è una ragione se apre questo articolo. Quel giorno Glen Hansard suonava a Milano al Teatro dal Verme. Avevo preso i biglietti in piena estate, pensando: vabbè, figurati se i ragazzi ci inviteranno alla festa del loro diciottesimo, ricordando che dopo la mia impiegai qualche ora a scrostare gli spaghetti dal muro del tinello (avvertenza: mai bere un bottiglione da 5 litri di vino rosso del supermercato in tre). Invece no: l’invito è arrivato puntuale e insistente, di rifiutare non se ne parlava, e quindi è scattato il piano B. Tutto questo per spiegare che c’è un motivo valido se insieme a Gloria ho fatto 1.200 chilometri e rotti per arrivare fino a Zurigo e vedere lì il concerto di questo artista irlandese, che mi aveva generosamente messo da parte due pass, visto che la data era sold out da tempo. Così ci siamo messi in macchina, nonostante una mezza allerta meteo e un po’ di pioggia fitta nelle prime centinaia di chilometri, e dopo una prima tappa in zona Lago di Como, la mattina del concerto eravamo nella più grande città della Svizzera, pronti per la serata.

(Quasi) finita la parte diaristica, nel perfetto rispetto dell’autobiografismo tipico della scrittura intorno alla musica, serve una parentesi sul momento della carriera di Hansard, che in ottobre ha pubblicato il suo quinto album solista, All that was east is west of me now, e che naturalmente è la parte più corposa delle esibizioni in questo tour, come lo sarà in quello estivo. L’album è certamente uno dei migliori pubblicati fin qui dal premio Oscar 2008 per la miglior canzone (Falling Slowly, cantata insieme a Marketa Irglova, il film era Once), un disco che dopo il precedente This wild willing, un po’ incerto tra escursioni elettroniche e influssi mediorientali, lo riporta al sound più familiare, che qua e là ricorda i Frames, la band di cui è leader da decenni, e che alterna sferzate robuste come The feast of St. John e Down on our knees alle ballate che sono la specialità della ditta, come Ghost o Short life.

There’s no mountain è un capitolo a parte: il video (come del resto quello di The feast of St. John) è stato girato a Lucca nello scorso luglio, grazie al rapporto del cantautore con una nutrita comunità di fan lucchesi e toscani. E qui tocca aprire una seconda parentesi: quell’amicizia è nata per quello che qualche sprovveduto chiamerebbe caso, nel 2014, quando Hansard, in vacanza da quelle parti, passò davanti alla vetrina di un negozio di dischi, lo Sky Stone & Songs, il cui titolare sognava da tempo di organizzare un suo concerto per festeggiare il ventesimo compleanno della sua attività. Da quell’incontro nacque un concerto segreto, tenuto due giorni dopo in una vecchia tipografia dismessa, diventata uno studio di artisti.

Nello stesso stanzone pieno di fascino, a nove anni di distanza, si è girato il video che trovate sotto le mie parole. E se per caso vi sembrasse di riconoscere tra le comparse l’autore di questo pezzo, avete ragione, e c’ero anche quella prima volta, quando senza far pagare un euro a nessuno Glen si mise seduto davanti a una cinquantina di persone per regalare loro una serata indimenticabile. Da allora è tornato a Lucca altre tre volte, trovando sempre il tempo e la voglia di suonare per gli amici, sempre gratuitamente. Nella penultima occasione, nel 2020, ha conosciuto Piero Perelli, batterista lucchese che poi è entrato a far parte della sua band (anche se non è presente in questo tour perché impegnato con Vinicio Capossela in giro per l’Italia).

Tornando all’album, ci sono le ispirazioni di artisti e gruppi che hanno formato Hansard, come i Pixies in Down on our knees o Leonard Cohen in Sure as the rain, ma c’è soprattutto lui, in una musica spesso in bilico tra il cantautorato folk e il rock, mentre il soul, altra passione fin dai tempi in cui era tra i protagonisti del film The Commitments di Alan Parker, è meno presente rispetto al passato.

Siamo arrivati nella Volkshaus di Zurigo, un grande edificio con ristorante, bar e sala da concerti o spettacoli teatrali, nel pomeriggio, così abbiamo assistito alle prove, riuscendo a sbirciare la cura con la quale Hansard e i musicisti mettono a punto alcuni momenti dello show e intanto i tecnici dietro al mixer sistemano i livelli audio. Un paio d’ore dopo abbondanti stavamo aspettando l’orario del primo live, quello dell’ottimo Mark Geary che ha aperto le date in Svizzera e a Milano, quando abbiamo visto una piccola folla di giovani correre dall’entrata appena aperta verso la prima fila, per conquistare la transenna. Ci siamo uniti a loro, spalla a spalla con ragazzi che probabilmente giravano intorno ai venticinque anni e che non avevano alcun problema a stare tre ore e mezzo in piedi, essendo dotati di schiene ancora seminuove.

Lo spettacolo è iniziato puntuale in orario svizzero (20:20, viva la civiltà!), Hansard è apparso subito in grandissima forma, cominciando con la delicatezza e i ricordi francesi di Sure as the rain, mettendo alla prova la voce nelle tonalità più profonde, una voce forse mai sentita così calda e avvolgente nella dozzina di suoi concerti a cui ero stato prima.

La setlist ha alternato i brani dall’ultimo album e alcune delle canzoni più amate dal pubblico, pescate dalla discografia solista (Time will be the healer, My little ruin, la formidabile Bird of sorrow, tanto per citarne qualcuna), dalla parentesi Swell Season (come When your mind’s made up e naturalmente Falling Slowly) ma anche nel repertorio dei Frames (Fitzcarraldo). I momenti più intensi probabilmente sono stati quelli intimi di Leave a light, una specie di ninna nanna quasi sussurata («E lascia una luce accesa nella tua finestra solitaria/ e un sincero benvenuto nei tuoi occhi/ Da molto lontano, nell’oceano profondo e nero/ Sei la persona che verrò a trovare») ma per una volta anche due cover.

Prima American Townland degli Interference, implicitamente dedicata alla situazione di Gaza («Ora c’è sabbia per la Palestina ed erba per Israele» e ancora «Smettete tutti di combattere per il vostro Dio, non può sentirvi in mezzo al rumore delle bombe»), poi Coyote, completamente improvvisata. Mentre stava iniziando un altro pezzo, Glen ha detto «No, stasera ho voglia di suonare qualcosa di Joni Mitchell», lanciandosi in quella splendida sventagliata di parole, una delle più difficili sia da ricordare che da cantare, con ogni verso che incombe incessante sull’altro in un profluvio di poesia. Il finale, per una volta senza uscite, rientri e bis, come peraltro annunciato (ma in pochi ci avevano creduto) è stato quello più classico, con Her mercy e This gift.

Nel backstage, dopo aver salutato l’amico liutaio svizzero e animatore culturale René Reusser, Hansard ha voluto provare al volo una chitarra appena realizzata, così pochi minuti dopo aver smesso di suonare sul palco si è ritrovato a suonare fuori dalla porta del suo camerino, con un sorriso stanco e felice sul viso. Ha abbracciato tutti, ha offerto birre, si è unito al coro quando Mark Geary ha intonato la sua It beats me con quel refrain «Hail Mary, motherless grace» che ha sigillato una serata speciale.

Tornando in albergo a piedi nel freddo vero di Zurigo, pensavamo alla fortuna degli incontri, alla bellezza della musica, al caso, che forse non esiste e al fatto che, come canta Glen Hansard, «Non c’è montagna che non si possa spostare o scalare», anche se il tunnel del San Gottardo rende tutto più semplice.