Surriscaldamento globale e cambiamenti ambientali, epidemie, guerre e crisi umanitarie. Siamo ciclicamente sull’orlo di quel famoso baratro. Equamente vittime e carnefici del mito della crescita infinita, senza frontiere o confini, voraci del “tutto e subito”. Nonostante ciò, ad oggi, tra i vertici mondiali, si continua a ricercare nella demografia la causa principale della crisi globale, le cui radici affondano nella teoria popolazionista di Thomas Robert Malthus.

Considerato il padre per antonomasia della demografia, Malthus nacque nel 1766 in una famiglia della media borghesia, nella campagna inglese del Surrey. Dopo una brillante carriera accademica presso l’Università di Cambridge, nel 1797 venne ordinato pastore luterano, iniziando solo qualche anno dopo la carriera di professore universitario in Economia Politica. Le teorie esposte nei suoi saggi hanno impattato notevolmente l’immaginario collettivo, tanto che, ancora oggi, vengono discusse ed analizzate.

Nel suo Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società (1798), Malthus riflette sulle risorse alimentari disponibili a fronte di un andamento demografico sempre più crescente. La teoria, in un modello di previsione futura, si basa sul problema del controllo della popolazione, affidandosi a sistemi artificiali piuttosto che a quelli naturali come malattie o carestie. La tendenza universale della popolazione in un paese sviluppato è di crescere ad un tasso geometrico, cioè più velocemente dell’aumento delle risorse alimentari. Viceversa, l’offerta di cibo può crescere solo ad un tasso aritmetico, poiché non riesce a mantenere naturalmente il ritmo accelerato dell’incremento della popolazione, la quale progressivamente subirà un inesorabile immiserimento.

Malthus diventa così portavoce della dibattuta e controversa teoria della popolazione che, unita all’analisi monetaria, identifica la causa principale della povertà (e del sempre più ampio divario con la ricchezza) nel fatto che la popolazione tenda ad aumentare più rapidamente dei mezzi di sussistenza. L’incremento demografico può tuttavia essere ritardato da fattori repressivi, denominati freni, come guerre e carestie, o da fattori preventivi come il controllo sistemico delle nascite. In poche parole asserisce che vi saranno sempre più esseri umani e proporzionalmente sempre meno risorse sufficienti a sfamarli. Fa inoltre un parallelismo tra società semplici e complesse, in un’ottica ottocentesca, affermando che le società primitive, e quindi semplici, avevano necessariamente praticato una qualche forma di controllo delle nascite in quanto non avrebbero potuto evolversi e sopravvivere vista la scarsità di risorse alimentari.

Nelle società piccole con una limitata estensione territoriale, con forme di organizzazione politica meno complesse e con un indice di popolazione numericamente contenuto, il sistema economico risulta nettamente più semplice. I bisogni dell’uomo, in questo caso, sono soprattutto primari e di basso livello, come nutrirsi e difendersi. Una società che ha solo bisogni primari produce un basso livello di consumi, in quanto gli scambi sono ridotti ed il denaro è di scarsa utilità. È sufficiente che ogni membro agisca individualmente per soddisfare le proprie necessità e innescare così un circolo virtuoso, poiché il benessere proprio coincide con quello del gruppo. I vizi, in questo caso, non sono forme di egoismo ma strumento di sopravvivenza, virtù private che si tramutano automaticamente in pubblici benefici.

In una società complessa, più numerosa e insediata su un territorio più vasto, i legami di dipendenza reciproca sono più articolati. Non è più sufficiente soddisfare le necessità individuali bensì occorre provvedere ad una serie di bisogni secondari e complessi, come ad esempio l’organizzazione del lavoro. La collettività è vista come una società fondata su reciproci obblighi e diritti, e non come una semplice somma di individui. Occorre, asserisce Malthus, un’organizzazione politica più raffinata che garantisca il buon funzionamento della società e contemplare parallelamente l’aspirazione del singolo con le esigenze della collettività. Anche in questo caso le virtù private diventeranno pubblici benefici ma occorrerà uno sforzo ulteriore per aiutare l’uomo a non ricadere nell’egoismo dei vizi, e per trasformare le sue passioni in virtù. Sono quindi necessari un buon uso della politica ed il perseguimento del bene comune, anche se ciò può richiedere l’infelicità del singolo.

Lo spigolo estremista del suo pensiero sui vizi personali in virtù del bene comune stride e si confronta con il nascente “problema” del lusso nella società settecentesca ed ottocentesca, in cui lo stesso Malthus viveva. Il lusso infatti è parte della ricchezza che va oltre i bisogni dell’individuo, siano essi semplici o complessi. È il lusso giustificabile rispetto all’interesse generale? È moralmente accettabile e deve essere assecondato oppure controllato e represso, come già succedeva nel Medioevo con le leggi statuarie? Questi gli interrogativi del mondo filosofico e politico dell’epoca.

Una grande società che si espande deve rendere possibile la moltiplicazione dei consumi: è infatti questo che motiva l’individuo a promuovere il proprio interesse e a soddisfare i propri desideri, arricchendo di conseguenza la società. Paradossalmente, per il filosofo, il lusso va assecondato perché, nonostante si tratti pur sempre della concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi e quindi di un danno morale, può rappresentare uno stimolo all’emulazione, creando ricchezza comune.

Il dibattito, in quegli anni, si evolve e passa da un carattere morale ad uno prevalentemente economico: si collega all’idea di progresso che si era affermata nell’Ancien Régime e ad un nuovo tipo di società che stava nascendo su basi democratiche, non ancorate alle diseguaglianze e all’immobilità dell’antico regime. Questa società democratica embrionale si misurava quindi attraverso i consumi; consumi che hanno permesso la nascita di una nuova rivoluzione industriale, passando però, in poco più di duecento anni, dal capitalismo al consumismo.

Malthus infatti non aveva previsto le rapide innovazioni tecnologiche e agricole che hanno aumentato la produzione alimentare, tanto che ora la situazione è diametralmente opposta: produciamo più risorse alimentari di quante ne riusciamo a consumare, in una cultura collettiva dello scarto. O meglio, nel lusso dello scarto.