A Burgas, sul Mar Nero, suonava il pianoforte. A Sofia, sotto al monte Vitoša, faceva l’attrice. Di quelle da autografo, dopo decenni la riconoscono. In teatro, al cinema, in televisione. Da Euripide a Tennessee Williams. A Roma, sui sette colli, faceva, meno spesso, l’attrice. A Roma, sempre sui sette colli, fa la madre di tre figlie, la moglie e la docente di tecnica di recitazione alla Scuola Nazionale di Cinema del Centro Sperimentale di Cinematografia. Eljana Popova, la Juliette Binoche di Bulgaria, si diceva in giro. Eljana Popova, senza bisogno di confronti, diciamo noi, in scena ha interpretato tanti ruoli e fuori scena ha avuto numerose vite: Vissi d’arte, vissi d’amore potrebbe essere il motto di ognuna. Per amore del focolare domestico, dall’intramontabile richiamo, ha rinunciato all’arte che, però, è rispuntata.

È nata a Burgas, «una città di provincia molto viva culturalmente, con un’ottima orchestra, un ottimo teatro», dove frequentava il liceo musicale, suonava il piano, non figurandosi concertista, bensì critica musicale o insegnante di storia della musica. Si era preparata pure per diventare giornalista, l’attirava. Ma questa è una vita che non le è toccata, se non sullo schermo dove è stata Maria, la reporter più amata dai bulgari.

Invece?

Ho deciso di provare a entrare nell’Accademia d’arte drammatica di Sofia: c’erano 5000 candidati per quaranta posti. Mi hanno presa subito ed è cominciata la mia seconda vita, legata al teatro.

Quanti anni avevi?

Diciannove. Mi sono trasferita a Sofia ed è stato un cambiamento abbastanza doloroso per una ragazza che non era mai stata fuori casa. Poi, fino all’età di 26 anni ho vissuto sul palcoscenico e girando per la televisione e il cinema.

Con fama.

Sono stata molto fortunata. Dicevano che ero brava. Forse ero brava. Noi tutti eravamo bravi. Ci davano una preparazione solida. Gli attori che facevano cinema e tv lavoravano anche in teatro. Si faceva il teatro di repertorio. Io ho avuto la fortuna di servire per il ruolo di Anja nel Giardino dei Ciliegi che il mio professore allestiva al Teatro Nazionale e ho debuttato. Ero già stata la protagonista di un film e una delle protagoniste di una serie televisiva che ha avuto tanto successo. E così sono diventata famosa. Era più facile allora diventare famosi: c’erano due canali e le serie bulgare le trasmettevano sempre sul primo, alle 20:30. L’intera Bulgaria le vedeva.

La tua parte nella serie?

Una giovane giornalista battagliera per le cause sociali, perciò la gente si è appassionata. Qualche tempo fa sono andata alla Pasqua ortodossa nella chiesa bulgara qui a Roma, e una signora tanto carina, che cantava e aveva portato da mangiare, mi guardava - sono quasi irriconoscibile - e dopo un po’: «Ah, è la giornalista Maria, la seguivo tanto». In realtà le cose più importanti le ho fatte in teatro, dove però ti vedono in pochi. Quando sono arrivata in Italia, con una borsa di studio del Ministero degli Esteri, ho portato il curriculum e mi ricordo che la segretaria mi disse: «Signorina, scriva quello che veramente ha fatto perché questo non è possibile». Ma era tutto vero! In un teatro di repertorio la mattina provi una pièce e la sera reciti in un’altra. In quattro anni avevo fatto undici protagoniste. In Italia non c’è un sistema che offre ai giovani una gavetta così.

Come hai affrontato la notorietà?

Non c’era lo star system. La gente mi riconosceva, ma nessuno dava fastidio: prendevo gli autobus. I miei genitori Nicola e Zorka, che mi hanno sostenuta anche quando era difficile, mi hanno insegnato l’umiltà, la modestia e non hanno mai detto: «Sei bella, sei brava». Dovevi fare bene il tuo lavoro, una cosa molto calvinista, se posso dire. Contavano lo studio, la disciplina, la serietà, se poi diventavi celebre, bene. Facevo una vita normale, ciò che mi dava grande soddisfazione era proprio il lavoro in sé.

Ti manca?

Mi mancava molto. Adesso no. Al principio, in Italia, ho recitato in diverse fiction (Incantesimo, Il maresciallo Rocca, fra le altre n.d.r.). Quando ho deciso di lasciare il teatro per la famiglia - non avrei potuto andare in tournée - ho pianto parecchio. Vent’anni fa ho cominciato a insegnare e ho provato una tale soddisfazione che ho proprio accantonato l’idea di recitare. E non mi manca più. Sono una privilegiata. Anche perché io non ho mai avuto un ego spropositato, la voglia di emergere, ma mi interessa vedere senso nel mio lavoro. Ho trovato più soddisfazione nell’insegnamento che nell’ennesima prostituta, donna di servizio, badante perché questi sono i ruoli di una che viene dall’Est. Salvo rarissime eccezioni è quello che ti offrono. Guadagnavo di più, ma preferisco guadagnare di meno e vedere un qualche senso.

Il senso è nell’aiutare un giovane a riconoscersi?

Sicuramente. Partendo dal talento il mestiere va insegnato. Poi, se non sono patetica, aprire degli orizzonti più larghi che permettano di elevarsi come persone per recitare meglio. È alla base del metodo Stanislavskij. Questo aspetto per noi docenti è diventato importante vedendo che solo circa il 50% dei ragazzi riesce a mantenersi dopo il diploma. A me dà dolore perché io provengo da un mondo in cui se tu facevi l’accademia dopo avevi un lavoro sicuro. L’ambizione era rimanere a Sofia nei teatri migliori però, comunque, lavoravi e avevi la pensione. Con questa mentalità sono cresciuta. Nel vedere che si impegnano tanto, è seria la scuola del Centro Sperimentale, escono bravi e devono fare i camerieri e le commesse, so che è banale, ma mi piange il cuore veramente. Che senso ha? Eppure l’altro giorno una ragazza napoletana, Alessia, che dopo una fiction non ha più fatto l’attrice, mi ha detto: «Ritengo basilare il tempo trascorso al Centro sperimentale».

Che suggerisci ai tuoi allievi?

Guardare la vita, passare un po’ di tempo in silenzio, leggere, andare al cinema, ascoltare la musica, visitare le mostre. E fra gli esercizi: partendo da un fatto di cronaca prendersi cinque minuti per entrare in quella situazione, sia dalla parte della vittima che da quella del carnefice, e cercare con l’immaginazione e con l’animo di provare ciò che la gente ha provato. È molto utile.

Raccontavi che in Bulgaria vi creava frustrazione avere pubblico solo entro i confini.

Un caro amico, talmente scottato dal fatto che, anche dopo i cambiamenti politici, tu rimanevi nessuno al di fuori della Bulgaria, si è praticamente suicidato con l’alcol. Molti attori bulgari sono morti alcolizzati. Lì hai fatto tanto e altrove sei nessuno, per me è stato un buon esercizio di umiltà. Noi eravamo coscienti che il livello del teatro era alto, che la preparazione era molto buona, che si facevano cose buone, e che non si sapesse. Non c’era un pubblico più ampio e non avevi speranza di averlo visto che parlavi una lingua, ricca sì, ma che nessuno parla e anche se sapevi bene le altre, io sono fluente in italiano, russo, inglese, francese, l’accento rimane. Pensavamo fosse perché non si poteva viaggiare, invece anche dopo, quando sono cadute le barriere, rimanevi sempre di serie B: magari scritturano degli attori bravissimi di teatro per particine nei film americani che girano in Bulgaria. Christo Jivkov, un grande amico che, purtroppo, è morto da pochi mesi, era stato protagonista in Il mestiere delle armi di Olmi, ma poi si è macerato: è andato a Los Angeles senza riuscire a fare niente. Samuel Finzi, invece, è riuscito a fare carriera in Germania.

Scrisse Todorov: «Avevo condotto una vita da passatore in più di un modo dopo aver attraversato io stesso le frontiere, ho cercato di facilitarne il passaggio ad altri». A volte si è costretti a cancellare il proprio paese dal cuore.

Di Todorov, di Julia Kristeva noi non sapevamo niente. Erano dissidenti e li ho scoperti qua. Nemmeno di Christo, l’artista, si parlava, figurati se il regime l’avrebbe permesso. Hanno lasciato negli anni più bui quando la repressione era molto forte, ai miei tempi era più blanda. Io stavo ancora all’Accademia quando è morto Breznev, poi è venuto Černenko e infine Gorbaciov. A me la Bulgaria ha dato tanto, le devo la mia formazione. Fondamentali Bisserka Gramatikova, la mia insegnante di storia della musica, fra le persone più colte mai conosciute, che mi ha fatto leggere, vedere e ascoltare cose straordinarie nella provincia bulgara comunista, e Snejina Tankovska la mia insegnante all’Istituto superiore d’arte drammatica di Sofia alla quale devo tutto ciò che so sulla recitazione. E non solo. Senza queste due donne, non sarei ciò che sono. Sono così importanti gli incontri. Non posso dimenticare. Poi è proprio una questione di sangue: anche se provo una scissione perché, pur non sentendomi italiana, in Italia c’è la mia vita da troppi anni e a Roma ho trovato un percorso di fede. Non tornerei a vivere in Bulgaria che, però, resta un luogo dell’anima. Amo molto l’Italia, voglio precisare. E gli italiani. Quando sono arrivata non mi sono mai sentita straniera perché l’arte noi l’avevamo studiata. Un posto splendido, l’Italia. Napoli, la Sicilia… Conosco soprattutto la gente del Sud anche perché Mario (Squillante, il marito n.d.r.) è napoletano.

Da spettatrice che cosa cerchi?

La verità. Ho tenuto un laboratorio Alla ricerca della verità. Non mi piacciono le cose cervellotiche, snob. Amo il cinema di tutti i tipi, anche non realistico, ma devo sentire una sincerità e mi piace la magia, la fantasia, il trasporto in un altro mondo.

Chi ti conquista?

Tanti. Končalovskij, Michalkov, Tarkovskij, Polanski, Anna Magnani, Ingrid Bergman, la scuola inglese. E il cinema francese, un’attrice che adoro è Juliette Binoche.

Alla quale peraltro ti paragonavano.

Io sono nata in Bulgaria, lei è nata in Francia… ma anche la sua bravura. Non c’è paragone.

La Hollywood d’oro?

Adoro! Il bianco e nero. E apprezzo anche i melodrammi degli anni Cinquanta…

Con la musica zuccherosa.

Sì (ride n.d.r.)! Mi piace il cinema impegnato americano degli anni Settanta di Bob Rafelson, Jack Nicholson, Bob De Niro, Meryl Streep. La lista è troppo lunga: ho proprio un amore per il cinema e voglio trasmetterlo ai ragazzi. Per diventare bravi devono amare il grande schermo, i visi enormi.

I tuoi studenti ti ammirano tanto.

Sì, anche se dicono che sono poco diplomatica, poco delicata e rigorosa.

Per concludere?

Gran parte della mia vita è la famiglia. Ci sono stati dei momenti nei quali mi ribellavo: la famiglia ti toglie molti obiettivi intellettuali. Il 90% del mio tempo se ne andava per crescere le mie figlie. Per il 10%, però, non mi sono mai rassegnata, a costo di dormire poco. Davo da mangiare alle bambine e, con le ultime forze, correvo alla proiezione della Festa del cinema di Roma. Non potevo rassegnarmi, sarei morta. Ma ho sentito molto forte l’istinto materno. Mio padre aveva conservato le interviste di quando ero famosa e a 24 anni dicevo: «Voglio interpretare Nora di Ibsen e avere tre figli». Mi pento delle mie scelte? No. L’Italia mi ha dato tanto, penso sia un privilegio paragonare due mondi non perché li hai letti, ma perché li hai vissuti. In Bulgaria le banane c’erano solo a Natale.