Avevo sui trent’anni, non ricordo con esattezza ma era tanto tempo fa. Vagavo come ero solito fare per le lande più desolate e deserte che il formicaio in cui mi è toccato in sorte di nascere mi consentisse.
In Italia, tra la Romagna e la Toscana, esisteva ed esiste ancora una marca ancora selvaggia, quasi spopolata, buia anche nella surreale luce notturna delle immagini satellitari, quando gli occhi spudorati delle spie meccaniche che ossessivamente scrutano ogni angolo del nostro mondo volano sopra di essa. Ricordo una splendida giornata di primavera quando l’oro del maggiociondolo canta con le orchidee e le ginestre dei prati e i castagni preparano le loro infiorescenze dal profumo spermatico che fioriranno il mese successivo.

Nel silenzio e nel mistero del verde smaltato di fiori mi ero inoltrato per un sentiero che tra castagni secolari risaliva dolcemente una stretta valle tra montagne boscose. Ai lati del cammino, sui prati, sotto quegli enormi alberi, pascolavano grandi bovini bianchi, dalle arcaiche, gigantesche corna lunate, lenti e solenni come ere geologiche. In fondo al sentiero scorsi un uomo che camminava in direzione opposta alla mia, era alto, vecchio ma ancora agile e forte e portava una gerla intrecciata di vimini carica degli ortaggi più belli e opulenti che avessi mai visto.

Sembrava uscito da un quadro di Grant Wood tuttavia lo salutai e gli chiesi se sapesse di qualche rustico o podere in vendita lì in zona. Fece finta di pensarci un po’ su poi disse, con uno strano accento toscano, che vendeva il suo di poderi, poco più in alto, con orto casali e tutto il resto. Duecento metri avanti, quando una deviazione sulla sinistra si fosse staccata dal sentiero che stavo percorrendo, avrei dovuto imboccarla e avrei visto il Vignale.

Se mi fosse piaciuto lo avrei potuto rintracciare chiedendo di lui ( mi disse il suo nome) all’osteria la Faina sulla strada statale per Firenze. Camminai, percorsi quei duecento metri e salii sulla deviazione a sinistra come mi aveva detto e fu così che vidi il Paradiso.

O quello che allora mi pareva gli somigliasse di più . Un gruppo di case di sasso, dai tetti in scaglie di arenaria, costruiti in lieve declivio su prati meravigliosi in una radura circondata da castagni secolari, con l’ orto più grande e bello che avessi mai visto. In quel mese benedetto le rape erano fiorite e un mare giallo oro richiamava sciami di api in un ipnotico ronzio che nella luce del meriggio mi pareva risuonasse dell’eco della Creazione.

Cieli azzurri e nuvole candide fuggivano silenziosamente contro l’ ampia chiusa della valle tra foreste che la mia immaginazione si figurava come gli ultimi estremi rifugi di tutto ciò che di verde e bello ammantava ancora il mondo. Fu un colpo di fulmine. Quel Luogo incantato doveva essere mio.

Dovevo avere quei boschi, quelle pietre, quegli alberi con ere di storia inscritte nella corteccia e nei misteriosi bassorilievi delle loro radiche, le serpi, i lupi e i cinghiali, gli scarabei e le poiane con i loro stridii alti nel cielo. Tutto quello doveva essere mio. Dovevo avere quel microcosmo sotto la mia protezione, per custodirlo, proteggerlo e amarlo come solo io avrei saputo fare.

Scesi, contattai quel fantasma e gli comprai il Vignale con tutta la vita innocente e selvaggia che si portava appresso. Ero diventato, o più esattamente mi sentivo, responsabile della vita e dell’armonía di quel luogo, come se con una stupida transazione economica ed una firma da un grasso notaio avessi acquisito, per diritto Divino, il potere di vita o di morte su quella minuscola particella del Creato che avrebbe poi esercitato, lei sì per legittimo diritto, il suo potere su di me. Come tutti i Luoghi Incantati il Vignale aveva folletti, demoni e numi tutelari.

Tra i Numi ricordo un allevatore di un podere vicino, con la sua famiglia, un uomo d’altri tempi a cui avevo affidato la gestione del mio castagneto che, con i suoi 14 ettari, andava ben al di là delle mie capacità gestionali. Era ruvido ma a modo suo elegante, eloquente ed essenziale come i responsi oracolari, rassicurante e inesorabile come i fenomeni atmosferici: “così era perché così doveva essere”, da ere immemorabili, e io cercavo di imparare da lui quel quieto assenso al destino suo e del suo mondo.

Tra i demoni ricordo un altro mandriano, apparentemente aspro e scontroso, che possedeva pascoli e castagneti attraverso i quali dovevo passare per andare da me. Con il tempo imparai ad apprezzarlo e capii come con la sua “ferocia” custodisse il tempio meglio di chiunque altro.

E vi erano folletti e misteriose creature come un magnifico daino bianco, grande e solenne, che nelle grigie giornate invernali o nelle calde serate estive, nella magia delle lucciole, compariva tra i boschi dell’altro versante della valle e che poi scomparve, forse ucciso dai cacciatori per un atroce programma di “selezione” venatoria sensato come tutti i tragici e ridicoli “programmi ministeriali” di gestione territoriale di questo assurdo paese in cui mi tocca di vivere.

Per arrivare al Vignale bisognava percorrere circa due km di strada sterrata, una automobile normale non poteva farcela ma lei si. Perché il fantasma aveva un mezzo speciale per arrivarci e me lo aveva ceduto come dote assieme al fondo, una bellissima, fatiscente, vecchissima Land Rover 90 pick up, verde militare con guida a destra, direct from England, con cui entravo trionfalmente nel mito a bordo di un altro mito.

Ovviamente non era assicurata nè immatricolata, perché era una selvatica emanazione meccanica di quell’improbabile realtà, vero Genius loci indomabile e precaria come il Vignale, come la sua vita stessa. Lì ci portai mia Madre e mio Padre che amava particolarmente un grande castagno a tre tronchi sotto cui si addormentava beato, dopo avermi bonariamente rimproverato per aver acquistato un posto così selvaggio e fuori mano, ma avendolo in realtà accuratamente fotografato per poi dipingerlo in bellissime tele che conservo ancora come preziose reliquie.

Condivisi quell’ esperienza con una cara amica, un anima affine che sentiva, vedeva e viveva come me quel sogno. Fu un tempo magnifico, di avventure straordinarie in cui ci toccò di ricostruire strade franate per piogge torrenziali, di scacciare tori grandi come colline, di sfuggire a cinghiali e a nidi di vespe grandi come astronavi, al lume di candela, al fuoco di legna o alla luce di milioni di lucciole perché lì, al Vignale, quelle erano le uniche luminarie possibili.

Poi, lentamente , il Male si insinuò nel mio Regno, beffardo e inesorabile come il destino, insondabile e spietato come una antica maledizione. Perché proprio i grandi alberi, i castagni secolari che circondavano la mia casa come una sacra foresta, cominciarono a morire. È’ incredibile a dirsi e a raccontarsi ma è davvero così che avvenne.

Ciò che ritenevo più sacro e prezioso, ciò che simboleggiava per me l’eternità e il viatico che mi ricollegava ad Essa appassiva e mi moriva sotto gli occhi. Creature secolari che avevano prosperato per innumerevoli generazioni umane si seccavano proprio sotto il mio mandato. Durante il mio effimero regno e proprio sotto la mia “tutela “ si doveva svolgere questa atroce e beffarda tragedia ed io non potevo farci nulla.

Perché? Perché proprio a me? In realtà ho fatto tutto ciò che potevo per salvarli, potature selettive, abbattimenti strategici, sperimentazioni con la facoltà di agraria dell’università di Firenze perché il Vignale apparteneva a quella provincia, ma non ci fu nulla da fare. In realtà fu una catastrofe che decimò i castagneti di mezza Europa e in seguito vidi interi boschi morti alzare come braccia imploranti i bianchi rami secchi calcinati dal sole, in Corsica, in Grecia e nei Balcani, sui Pirenei come sulle Alpi.

Un fungo, mi dissero, un micete che aveva sempre convissuto con i castagni e il cui sviluppo era sempre stato controllato dai rigidissimi inverni che caratterizzavano quella zona, negli ultimi anni, grazie ad una serie di inverni eccezionalmente miti, era divenuto talmente aggressivo e virulento da uccidere gli alberi con cui aveva convissuto per secoli. Il “mal dell’inchiostro” lo chiamavano, perché prima di morire, dai tronchi attossicati gemeva un liquido nerastro simile ad inchiostro nero. Il castagno a tre tronchi, caro a mio padre, morì come molti altri attorno a lui e io ero lì come Ramesse d’ Egitto di fronte alle Piaghe Divine, impotente e disperato.

Me ne andai. Vendetti tutto a qualcuno meno sensibile di me. O forse, conoscendo chi lo comperò, più avvezzo di me alla beffarda crudeltà del destino. Il nuovo padrone amò il Vignale forse anche più di quanto lo avessi amato io. Di un amore più ricco e probabilmente più “malato” perché ci spese un patrimonio (cosa che io, nella mia vergognosa cautela non feci) e lo rivendette, in perdita, ad altri che non conosco. Ma non ho mai abbandonato quelle lande selvagge, come potrei? Sono legato ad esse e, come ho detto, costituiscono l’area più autentica e selvaggia nel raggio di cento miglia dal luogo in cui vivo, per cui, inesorabilmente, per curiosità o forse per un amore mai sopito, sono tornato a curiosare al Vignale.

Tutto è come allora. La strada, i prati, solo non ci sono più le vacche dalle corna lunate e i castagni attorno alla mia vecchia proprietà, mio Dio! sono tutti secchi, bianchi e calcinati, come sculture surreali. Quasi belli nella loro bianca morte. Fu come se i grandi alberi, i custodi del Tempo e della Memoria, mi avessero giudicato indegno di tale eredità e mi avessero come “diseredato” privandomi dell’inestimabile dono di condividere con loro l’esistenza su questa terra desolata.

Sono trascorsi parecchi anni e intanto i castagni superstiti si sono pian piano ripresi, sono passati attraverso altri flagelli ma meno letali di quello che uccise i miei, così abbiamo comperato un altro piccolo podere, un mucchio di sassi poco lontano dal Vignale. Si può raggiungere più agevolmente e comunque la magia aleggia ancora attorno a quei luoghi e se la fortuna e il destino ci assistono forse vedremo ancora il grande daino bianco pascolare, furtivo e solenne, nelle radure boscose della valle del Vignale.