“Vabbè, uffa”, pare di sentirla la madre di Giovanna Daddi. Ancora Jacques Prévert, notte dopo notte: Che giorno è
È tutti i giorni
Amica mia
È tutta la vita
Amore mio.

D’altronde, se voi foste stati Giovanna Daddi ragazza non avreste ascoltato, notte dopo notte, i nastri di poesia incisi per lei da Dario Marconcini?

Slanciati e belli, i Daddi Marconcini sono insieme davvero da tutta la vita adulta, consorti e amici, in casa, in palcoscenico e, per Jean-Marie Straub, Danièle Huillet e Paolo Benvenuti (Leoni d’oro alla carriera a Venezia nel 2006) anche sul set. Regista e attore lui, attrice lei. Nella Pontedera della vespe e delle api Piaggio hanno portato il mondo della cultura teatrale per decadi e decadi. Un ménage tradizionale come sfondo dell’arte: il lavoro nella ditta di famiglia per Dario, la routine domestica per Giovanna, anche autista dal piglio sportivo perché il marito non guida. Un figlio, un nipote.

Una formula solo vostra. Come avete cominciato?

Daddi: “Dario prestissimo, io lo seguivo. Faceva gli spettacoli qui a Pontedera, solo poi è arrivato Buti (il delizioso Teatro Francesco di Bartolo, a qualche km da Pontedera n.d.r.). Il primo spettacolo fu “Macbeth”, poi io ho smesso. A Buti non c’ero, non so perché. Però l’accompagnavo e controllavo: seguivo le prove e mi occupavo dei costumi”.

Ti eri pensata attrice?

Daddi: “No”.

A un certo punto ti è venuta l’ispirazione?

Daddi: “No, non mi è venuto niente. La mia era azione, fisicità, salti mortali. Un’ esperienza che arrivava dal teatro di strada e dai seminari con gli attori di Grotowski”.

L’humus di Pontedera era così fertile?

Marconcini: “L’abbiamo fatta noi… Pontedera”.

Invertiamo, allora: voi siete stati l’humus. Racconta.

Marconcini: “Al principio ero l’attore della Filodrammatica di Pontedera, una cosa classica da paese. Poi sono andato all’università a Pisa dove incontrai dei maestri fra i quali Ruggero Jacobbi, il famoso regista che aveva fondato insieme a Strehler il Piccolo di Milano e poi era partito per il Brasile. Tornato a Pisa aveva creato una compagnia teatrale di studenti universitari dei quali, diciamo (sorride n.d.r.), ero il più bravino, il suo pupillo. Abbiamo fatto un’annata di spettacoli, si parla di un’Italia di molti anni fa, andando anche in tournée all’estero, nella Spagna sotto Franco. Storielle lunghe della Spagna franchista…lasciamo perdere”.

Le sentiremmo.

Marconcini: “Troppo lunghe. Lavoravo nella Filodrammatica di Pontedera, a Pisa nel teatro universitario e in una compagnia a Livorno: la mia settimana era molto impegnata fra un treno e l’altro. Infine rimasi soltanto a Pontedera con la Filodrammatica portandola già a un altro livello, creai un gruppo di lavoro che col tempo divenne importante, mettemmo in scena il primo spettacolo su un testo fatto dal Living Theatre delle favelas brasiliane e cominciammo a fare teatro di strada”.

Anni Sessanta?

Marconcini: “Sì, vennero dei critici prestigiosi a vederci e uno di questi era Paolo Emilio Poesio della Nazione che scrisse: “C’è una piccola stella che occhieggia”. In quel momento decidemmo di passare a una forma di professionismo e facemmo dei seminari in una villa data dal Comune: lo studio del teatro attraverso i libri, da Stanislavskij a Moreno, legato all’improvvisazione, Alla ricerca del teatro perduto di Eugenio Barba era il libro base. Telefonammo, scrivemmo al Barba in Danimarca, e fummo invitati a vedere lo spettacolo che stava preparando. Giovanna faceva già l’attrice nel Macbeth. Montammo su un pulmino 600 e su una Mercedes, vedemmo Min Fars Hus (La casa del padre) e rimanemmo sconvolti. Eugenio Barba ci disse che c’era un giovane di Pisa che stava scrivendo la tesi su di lui: Roberto Bacci. Cercai Bacci, cominciammo a lavorare. Nacque da lì tutta la storia del teatro di Pontedera, con il Piccolo di Pontedera già proiettato nel professionismo. L’idea era chiamare gli autori che avevamo letto oppure, se erano morti, vedi Stanislavskij, fare l’esperienza attraverso i loro testi. Chiamare Eugenio Barba, chiamare Grotowski, Peter Brook. Piano piano dai libri siamo arrivati alle persone”.

Sono venuti tutti?

Marconcini: “Tutti. Incredibile. Decidemmo anche di creare la sezione Ira, Istituto ricerche antropologiche, aperta ai teatri dell’oriente, diversi, lontani da noi. Andai in India con Giovanna, cercammo il kathakali; invitammo il teatro delle ombre di Bali. Nel nostro piccolo centro toscano arrivavano le grandi figure e le grandi esperienze internazionali. A un certo punto c’erano tanti galli nel pollaio e decisi che era meglio che mi ritirassi e andai a Buti.

Quando?

Marconcini: “All’inizio degli anni Ottanta. Dopo una ventina di anni di lavoro a Pontedera, dove rimase Bacci. Avevo appena realizzato il Progetto Stanislavskij, le regie del teatro in cui lavoravo come docente e con me c’erano la Marisa Fabbri, Jerzy Stuhr e Richard Cieslack, tre attori immensi e creatori del teatro del ‘900. A Buti nacque un’altra storia che deriva un po’ dalla mia ricerca in Oriente, un po’ dal mio amore per il teatro brechtiano e un po’ dagli improvvisatori in ottava rima che avevo avuto l’occasione di conoscere con Barba quando era venuto. Ritrovavo negli improvvisatori quello che avevo visto sia nel teatro orientale che nel teatro di Brecht cioè il lavoro sul personaggio. Ed era una cosa bellissima perché improvvisamente sei fuori e sei dentro. Basta un attimo, un passo sulla scena e racconti la storia. Esci fuori dalla scena, bevi un bicchiere di vino e chiacchieri senza nessun birignao. Il “chi sono, da dove vengo” è insopportabile. Eri dentro e fuori, eri brechtiano e non brechtiano, eri un attore orientale che raccontava delle storie secondo una tradizione portata dai padri, dai nonni per cui avevi questo rapporto con l’archetipo, con il rito familiare antico e con la contemporaneità. Era un modo che ho amato profondamente, diverso da quello dell’attore che veniva fuori dalle accademie.

Da Pontedera a Buti, ancora più piccolo e remoto. Eppure avete portato il mondo, anche lì.

Daddi: “Infatti nelle riunioni importanti della Provincia, per esempio, Buti veniva sempre citato come una perla”.

Marito e moglie, colleghi, amici. Come funziona quando preparate uno spettacolo?

Daddi: “Dario in genere è quello che sceglie i testi e li propone a me o a un altro attore che lavora insieme a noi. Io all’inizio sono sempre un po’ sulle mie, anche perché non penso mai di arrivare a fare qualcosa. Non avendo un’accademia alle spalle, mi domando se riuscirò. Quando vedo ogni attrice penso: ma io non farò mai quelle robe lì. Non lo dico per modestia: è verità. Perciò, dopo il confronto sul testo, c’è l’incoraggiamento da parte di Dario e, da parte mia, il piacere, superati gli indugi, di riuscire sempre a stupirlo con delle soluzioni che porto in scena. E questo mi dà tanta gioia”.

Recalcitri, ma poi ti abbandoni?

Daddi: “L’abbandono mio è totale, senza difese”.

E tu Dario come scegli il testo?

Marconcini: “Tante volte è casuale. È il testo che sceglie te… dico una banalità. La scelta di Ecuba (Ecuba, la cagna nera, allestimento dell’autunno 2022 n.d.r.), è stata una reazione a uno spettacolo che non mi era piaciuto. E siccome da tempo pensavo a Giovanna come Ecuba, ma non avevo trovato la soluzione, mi sono ripreso una vecchia traduzione non dico della scuola, ma quasi, e ho cercato di estrarre il senso di Ecuba legato anche alla guerra in Ucraina, con queste vecchie rimaste sole. Per cui scegliere Ecuba è stato un riflesso del contemporaneo e un ritornare dentro i grandi testi dell’antichità dove finalmente ritrovi una scrittura straordinaria. Dalle Troiane ho voluto prendere soltanto i pezzi di Ecuba cercando di sistemarli insieme e ho messo davanti al pubblico questa donna sola, senza scena, buttata lì con delle antiche memorie che le venivano addosso”.

Muove le mani in modo speciale.

Marconcini: “Dal mio ricordo di una danza berbera che avevo visto in un festival in Marocco. Giovanna mi ha meravigliato molte volte durante il lavoro da soli. Quando apre la bocca in un urlo muto mi colpisce. Si sa che Ecuba finisce come una cagna urlando sulla nave che la porta via. Volevo che Giovanna abbaiasse, abbiamo provato tante maniere”.

Sono proprio le prove tremende in scena, vedi l’ubriachezza.

Daddi: “Terribili”.

Dario, alla fine di Ecuba ti alzi dalla tua sedia di spettatore e dici un passo dell’Amleto di Shakespeare. Come ti è venuto in mente?

Marconcini: “Non mi è venuto in mente. Amleto è sempre lì. Da po’ di tempo, quando faccio uno spettacolo vorrei distruggerlo, cioè non distruggerlo, ma vederne i meccanismi, non esserne affascinato e trovare il modo di smontarlo improvvisamente. L’ho fatto con l’ultimo Pinter, l’ho fatto questa volta citando un piccolo pezzetto di Amleto per evitare che ci fosse una forma di commozione…”.

Troppo facile.

Marconcini: “Ecco, brava. Ci deve essere una forma diversa di commozione”. Daddi: “Per me è stato difficile dicendo il testo, perché non è che lo recito, evitare sia la nenia del coro che il pietismo. Volevo che fosse freddo, lucido, crudele. Dopo gli altri spettacoli sentivo sempre una liberazione: abbracciarsi, salutare il pubblico. Ecco, dopo Ecuba avrei voluto chiudermi in un posto e non vedere nessuno e non parlare con nessuno perché questa tragedia non riuscivo a eliminarla. Dicevo a Dario: andiamo via, andiamo via”.

Volevi abbaiare?

Daddi: “Ringhiare”.

Giovanna, tu sorprendi lui, Dario sorprende te?

Daddi: “Sempre. È un sorprenderci”.

Sapete di essere affascinanti?

Marconcini: “No”. Daddi: “No. E non ci si guarda mai”.

Come voi ci siete solo voi.

Marconcini: “Bah…”. Daddi: “Tanti anni fa ho visto una coppia meravigliosa Leo e Perla (De Berardinis-Peragallo n.d.r.). Leo era un po’ gigione. Marconcini: “Il percorso non è quello di pensare di fare uno spettacolo per il pubblico. Lo fai per te stesso, al pubblico non ci devi pensare mai. Se ti lasci andare nella conoscenza profonda, misteriosa, pericolosa dai tutto te stesso e allora nel momento dell’offerta respiri insieme con il pubblico. Daddi: “Se dovessi pensare a me stessa non farei niente”.

Quindi tu, Giovanna, lo fai per il pubblico?

Daddi: “Certo. Lo faccio per condividere l’emozione che provo”. Marconcini: “È lo stesso, Giovanna”. Daddi: “No, io lo faccio per il pubblico”. Marconcini: “No, non lo fai per il pubblico”. Daddi: “Sto chiusa in uno stanzino? Voglio che lo spettatore senta tutto il dolore, la fatica, il piacere e che sia comprensibile cosa dico. Per me è comprensibile, visto che c’ho lavorato”. Marconcini: “Io penso al cosiddetto sacrificio. Non vorrei la parola sembrasse eccessiva, ma se è evidente il tuo sacrificarti avrai di riflesso immediatamente un rapporto con chi ti guarda. Tu sei solo e lo spettatore è solo, ma in quel momento lì c’è l’unione”. Daddi: “Ideologie, robe intellettuali. Per me è molto concreto”. Marconcini: “Io penso a un percorso interiore, misterioso, pauroso: la creazione è l’arte della paura.

Progetti?

Marconcini: “Non si sa, ma se dovessi stare senza far teatro starei molto male: qualcosa bisogna inventarsi. Siamo obbligati a farlo. Daddi: “Tu sei obbligato”. Marconcini: “Io, sì”. Daddi: “Faccio il prossimo spettacolo se con noi c’è Emanuele Carucci Viterbi”. Marconcini: “Se ci possiamo permettere un altro attore”.

Che si torni alla ribalta o meno, la Daddi, comunque, non si scompone. Sua madre, oltre a svignarsela per sfuggire l’ennesimo Prévert la istruiva: “Non devi avere paura del buio perché cosa c’è di giorno c’è anche di notte”.