Parlare di Antartide appare sempre un esercizio quasi metafisico, tanta è la distanza e la particolarità del continente ghiacciato al polo Sud del pianeta. Parlare di Antartide vuole anche significare quasi un luogo nel quale le avversità, i dissidi, gli scontri, la brutale geopolitica di questi anni hanno un’eco fioca, rarefatta. L’essenzialità della vita in quei luoghi, la spartana condivisione degli spazi, delle risorse, l’estrema complessità di atti in altre latitudini consueti e semplici, sembra quasi allontanare i dissidi nella consapevolezza fisica e psicologica che, senza l’aiuto dell’altro, non ci può essere sopravvivenza dinanzi alla tremenda durezza dell’ecosistema e delle difficilissime condizioni tecniche e operative che incontrano quanti laggiù sono presenti anche per mesi all’anno, nel tentativo di comprendere e conoscere ciò che in quel luogo, nelle profondissime carote di ghiaccio che vengono prelevate, possa aiutare l’umanità ad avere indicazioni più precise su quello che la Terra ha passato secoli, millenni, decine e centinaia di migliaia di anni fa.

Una domanda non peregrina mentre quell’ecosistema pur resiliente e ancora sostanzialmente integro, comincia a risentire a livello planetario delle dinamiche di cambiamento della Terra, della sua atmosfera, dei suoi mari e delle terre emerse. Cambiamenti che fanno parte di mutamenti continui e costanti della vita sul pianeta, ma che negli ultimi decenni sembrano assumere a causa dell’attività umana aspetti sempre più drammatici. Quindi l’Antartide costituisce per l’umanità oggi una sorta di scrigno delle domande, delle risposte e delle possibili azioni da intraprendere per frenare prima, poi contenere nella speranza di invertire almeno in parte l’evoluzione sempre più accentuata e catastrofica di molti degli avvenimenti in corso ad ogni latitudine. Se il Pianeta sta male, in certo senso potremmo dire che anche il continente ghiacciato non sta troppo bene. Si pensi all’aumento degli iceberg che si separano dalla banchisa con numeri ed evoluzioni non più riferibili ai fattori climatici di sempre, quegli inverni e quelle estati che da tempo immemorabile sono state rassicurante dinamica.

Eppure, possiamo dire che, l’Antartide costituisca per un’umanità in crisi e dilaniata, piena di contraddizioni come anche di potenzialità - dove però poco meno di un miliardo di persone non ha nutrimento sufficiente dinanzi a intere regioni nelle quali lo spreco alimentare sembra senza limite e possiamo anche dirlo senza vergogna, oppure dove i diritti umani difesi e contenuti nella Dichiarazione del 1948 sono ancora per la maggioranza del genere umano soltanto delle belle enunciazioni o delle aspirazioni alle quali non basta la durata di una vita o di tante vite per vederli realizzati – qualcosa di molto simile a quell’ultima Thule, ovvero la mitica destinazione dell’umanità in cerca di conoscenza e saggezza, guarda caso immaginata al polo nord, all’estremo opposto del pianeta, in quell’area denominata Oceano Glaciale Artico.

Quest’ultimo, un’immensa distesa di acqua marina e di ghiaccio con attorno a corona le terre emerse dei continenti dell’emisfero settentrionale. Miti leggende, immaginazione hanno sempre pensato e descritto per l’umanità in cammino luoghi come quello, nel quale le contraddizioni si sarebbero sciolte e per il genere umano si sarebbe potuto costruire un futuro diverso, quanto meno per coloro che alla ricerca di essa avessero dedicato il proprio pensiero. Un’orizzonte ideale, insomma per sollevare lo sguardo dall’oggi e verso cui protendersi. O forse, più realisticamente, una grande speranza per sorreggere le fatiche e le asperità. Non sembri questa lunga descrizione una dilazione o distrazione, quanto piuttosto una sorta di prologo a quello che la scienza continua a scoprire e a proporre a tutti noi in termini di conoscenza del nostro passato e di quello che potrà essere il nostro futuro.

In questo quadro, la nostra attenzione si sofferma allora verso una importante scoperta compiuta di recente, con la individuazione di un crioecosistema unico nel suo genere, caratterizzato da un insieme di funghi e batteri, che è stato rinvenuto nelle brine ipersaline del ghiacciaio di Boulder Clay in Antartide. I termini tecnici e scientifici sono quelli con i quali è stato descritto quanto rinvenuto, ovvero un ecosistema a bassissime temperature eppur vitale, in condizioni estreme tali da aprire però nuovi scenari su quanto accade nel nostro pianeta nel suo sostanziale ed immutabile (solo in parte) percorso intorno al Sole, tra i pianeti e le stelle. La scoperta della quale si parla è contenuta nella relazione di ricerca, pubblicata su Scientific Reports. Uno studio condotto dall’Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche di Messina (Cnr-Isp), nell’ambito del progetto Ipeca coordinato dall’Università di Trieste, in collaborazione con l’Università degli studi dell’Insubria (Varese), l’Università degli studi di Perugia, l’Università Ca’ Foscari Venezia e la Libera Università di Bolzano.

La ricerca, promossa nell’ambito del Programma nazionale di ricerche in Antartide (Pnra) finanziato dal Mur e coordinato dal Cnr per le attività scientifiche e dall’Enea per l’attuazione operativa delle spedizioni, ha permesso l’identificazione di brine endoglaciali , ovvero interne al ghiaccio, nell’area del ghiacciaio di Boulder Clay, nei pressi della Stazione scientifica italiana ‘Mario Zucchelli’. “Di recente abbiamo rinvenuto brine ipersaline all’interno dei ghiacci di questa zona antartica che, per la loro diversità microbica e geochimica, determinano un habitat unico rispetto alle brine finora studiate in quell’area. Questa diversità di microrganismi è la probabile conseguenza di una progressiva concentrazione di acqua marina nelle masse ghiacciate, che iniziò a verificarsi già in epoche remote”, la spiegazione di Angelina Lo Giudice, ricercatrice del Cnr-Isp. Un ambiente simile a quello delle Blood Falls, famose per la loro colorazione rossastra, nelle Dry Valleys dell’Antartide orientale, dove è presente un sistema idrologico di brine ipersaline all’interno del ghiacciaio Taylor.

La sostanza e il valore della ricerca e della scoperta vengono descritti nella relazione nella quale si parla di habitat particolari, dove l’elevato contenuto di sale nel ghiaccio fa sì che le brine si mantengano allo stato liquido. Un dato questo che fa ipotizzare che ci possano essere crioecosistemi simili anche in altre aree terrestri dove sono presenti ghiacciai”, la conclusione di Maurizio Azzaro, ricercatore del Cnr-Isp e coordinatore scientifico della trentottesima spedizione italiana in Antartide. “Da molti anni il nostro istituto - osserva il ricercatore - lavora su queste tematiche, che sono considerate pioneristiche. L’obiettivo delle ricerche è quello di acquisire maggiori informazioni sulla vita microbica in condizioni estreme, perché la nostra idea è che possano esistere criecosistemi anche sui pianeti cosiddetti ghiacciati, ad esempio come Urano e Nettuno”.

Considerazioni queste che ci portano in certo senso in quello che si osservava in precedenza, ovvero in quella dimensione quasi metafisica che sembra accompagnare ricerche come questa che alla maggior parte dell’umanità possono sembrare lontane anni luce dai bisogni e dalle esigenze quotidiane, ma che in realtà sono molto più vicine di quanto possa apparire, come la semplice constatazione dell’esistenza di brine in quelle condizioni estreme. Basta osservare infatti che il dizionario definisce brina la “precipitazione atmosferica notturna dovuta a solidificazione ( brinamento ) del vapore acqueo o della rugiada, in seguito a raffreddamento avvenuto dopo la sua formazione sugli oggetti esposti all'irraggiamento notturno; si presenta sotto forma di piccoli grani di ghiaccio bianchi e opachi o di piccoli aghi semitrasparenti”.

Al ché dinanzi alla definizione vi è il piccolo particolare che queste brine si trovano in realtà incastonate nei ghiacci “eterni” per così dire con ciò creando immediatamente una domanda: come è possibile tutto questo? E la domanda successiva, è forse quella più calzante: Se queste formazioni si trovano all’interno di formazioni ghiacciate mai scioltesi in epoca storica o nel quadro delle conoscenze acquisite, qualsiasi formazione o qualsiasi forma di vita in esse presente potrebbe svelarci molto dell’evoluzione del pianeta e porci allo stesso tempo domande esistenziali sulla loro possibile genesi ed evoluzione in condizioni diverse? La distanza temporale di ere e non di migliaia o decine di anni, ci pone di fronte a qualcosa che può apparirci aliena e che invece è il frutto naturale dell’evoluzione della Terra.
E proprio per questo, come per la eterne domande dell’umanità, è importante la conoscenza e la scoperta di nuove inimmaginabili realtà.

Il riferimento ai grandi pianeti transaturniani, caratterizzati da una condizione ghiacciata e con atmosfere per noi difficili da calare nella realtà e che possiamo soltanto immaginare ci fa poi comprendere come le scoperte sulla Terra, frutto della genuina ricerca, ci possano consentire di avere nuovi elementi di conoscenza dei grandi corpi celesti che ci accompagnano nel sistema solare e che insieme alla Terra sono nati e si sono formati agli albori dell’universo e delle galassie.

Proprio dunque, un’ultima Thule, da cercare e agognare per guardare con occhio disincantato e realistico e con speranza nel domani, alle miserie dell’oggi, frutto della prepotenza, dell’arroganza, della sopraffazione, dell’egoismo e di tanti altri “ismi” che vorrebbero un’umanità piegata sull’oggi, nella quale spegnere o controllare quell’aspirazione che Dante Alighieri descrisse nel canto ventisei dell’Inferno con due parole, “virtute e canosenza”. Dove la “a” non è un errore ma la prima forma della parola usata dal sommo Poeta!