L’Ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno. Per questa eventualità vaga, che pareva farsi sempre più incerta col tempo, uomini fatti consumavano lassù la migliore parte della vita

(Dino Buzzati, il Deserto dei Tartari)

Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati (1940), mi sembra un’opera che appare sempre più attuale, sempre più filosofica e fatale per questo nostro strano tempo. Non tanto e non solo perché parla di guerra, e di guerra attesa a lungo e poi all’improvviso giunta, aspetto drammaticamente oggi a noi coevo per le vicende russo-ucraine, ma proprio per la sua profonda malinconia esistenziale che paradossalmente anima il racconto.

In primo luogo, è un romanzo anomalo già dal punto di vista tecnico: si tratta di un testo breve, con dialoghi corti, concisi e descrizioni veloci, sobrie, abbozzate. Sembra già la sceneggiatura di un film, il progetto di un romanzo, non un’opera definitiva. Tutto vira verso un senso di immediatezza e di essenzialità. Va' poi considerato che il tema basico del romanzo è il tema universale del tempo umano e del contrasto drammatico, esperienza per tutti, tra il tempo del flusso di coscienza e il tempo fisico e relazionale.

Drogo non cambia: è sempre l’eterno giovane che sogna la gloria in battaglia, quella gloria che ha ammirato in tanti racconti, quadri, storie. Ma quella gloria non giungerà mai. Altri soldati, beffardamente gaudenti e inconsapevoli, andranno al fronte proprio mentre lui, ormai anziano e malato, sarà in fretta congedato e allora gli resterà solo l’eroismo solitario e interiore di un incontro con la morte vissuto con dignità e semplicità, “stoicamente” potremmo dire.

I giovani soldati appena giunti dalla città invece avranno l’esperienza unica della gloria in battaglia, attesa invano da generazioni di sentinelle e ufficiali della Fortezza Bastiani e mai creduta dalla massa, anzi snobbata per un veloce carrierismo. Il Nemico che sembrava solo un Fantasma e un ricordo sbiadito del passato ora appare in tutta la sua potenza fisica e mitica. Questo ci ricorda letterariamente l’entusiasmo di chi combatteva, giovane, le guerre napoleoniche, da qualsiasi fronte le possiamo considerare. Allora c’erano giovani un po’ folli che erano felici di andare a combattere, con Napoleone o contro Napoleone, il Mito incarnato del Tempo, il Fantasma che diventa Storia hegeliana.

Un Faro beffardo sembra prendere in giro sia Drogo che generazioni intere che si sono consumate attendendo invano alla Fortezza Bastiani un Nemico che mai sembra arrivare. Cosa dire di questa Fortezza? E’ lei che ha formato un eroismo interiore in questi soldati speranzosi e tenaci? O è solo l’immagine dei paradossi di una vita spesso ingannevole con le sue illusioni? Può essere vista quale simbolo del tempo stesso, quale fattore costante della vita, fatale?

La polarità dialettica che regge tutta l’opera è appunto quella che si tende fra idealismo e pragmatismo. La vita militare appare molto abitudinaria, pragmatica, monotona, ma nel contempo sembra anche un rito sacro, una funzione metafisica, un qualcosa che sottilmente viene animato da una tensione verso il futuro, tra il leopardiano e il prometeico. Non fu anche Leopardi a suo modo un sopravvissuto ai suoi eroici furori idealistici giovanili? Non visse anche lui dentro un’invisibile Fortezza Bastiani fatta di illusioni mezze diroccate ma pure sempre continuamente sorrette e rinascenti? Dopo l’Unico di Stirner il capolavoro di Buzzati mi sembra la più forte obiezione all’istanza dell’Idealismo mai avanzata in Italia, luogo ricco di poetiche emozionali e di facile idealismo di massa.

Per questo Il deserto dei Tartari ci appare oggi quale immagine di una straordinaria chiarezza smascherante sulla pesante condizione sociale dell’umanità attuale, vista da un punto di vista interiore. Cos’è infatti il benessere standardizzato di massa se non una verniciatura idealistica posta sopra il trionfo dell’idolo-merce? Non è l’idealismo una retorica borghese che giustifica ogni tipo di dipendenza/sacrificio purché ammantata di una proiezione ottimistica verso il futuro?

In realtà era “deserto” anche la società cittadina piena di illusioni e di promesse di opportunità in cui cresce Drogo e da cui proviene. Verso quel deserto “coperto da illusioni” avrebbe dovuto tornare il giovane tenente dopo un breve purgatorio di servizio sul confine militare. Il nostro protagonista viene invece ammaliato dal fascino strano di quella Fortezza e delle allusioni simboliche che sembra irradiare e si immola non tornando in città, rinunciando al suo fattibile trasferimento. Drogo sembra quindi scegliere l’Eroismo, anche se un eroismo paradossale fatto di una lucida visionarietà. O semplicemente ha ridotto le illusioni della vita ad una sola, radicale, frontale? La Fortezza diventa l’Occhio, la forma-testimoniale del flusso di una coscienza agostiniana ma priva di un’orizzonte trascendente. Drogo diventa parte di quella Fortezza, si sublima in pura forma, poiesis circolare. Il suo sguardo non esce dal senso dell’orizzonte che annulla le distinzioni e placa l’inquietudine nella contemplazione del decorso del tempo.

Non a caso Buzzati lo scrive nel 1940, data fatidica per la storia italiana, la data dell’entrata in guerra. Ma il romanzo assume un simile valore storico-esistenziale anche negli anni 70, nel culmine della tensione fra Est e Ovest, tensione internazionale ma che attraversa anche le piazze d’Italia. Il pathos dell’Epos fa fremere un’ultima volta gli italiani. Ma l’ora della Gloria, del Kairòs sfugge un’altra volta. Il prosaico scorrere degli attimi annulla ogni tensione verticale, sul confine come nella città.

È tutto un sogno, un’illusione? Chi è l’alienato: chi crede all’avanzare dei Tartari oppure chi passa la vita in modo spensierato in città? Eppure un giorno i Tartari vengono avvistati e la loro ferrovia si fa sempre più vicina al confine, per spostare la loro artiglieria. È l’assenza di eroismo che genera l’unica poesia possibile nel regno dell’intrattenimento? La poesia del rimpianto di un eroismo mai vissuto. Ma la vita non cambia sostanzialmente con l’arrivo dei Tartari. La prassi non è poetica e brucia tutto nella sua velocità. Tutta l’epica è nell’attesa, ormai. Il Fato e il Tempo tutto sorvolano. Solo nelle Lettere resta il pathos dell’Epos, la vera poesia dell’Ideale il cui orizzonte è sempre più in là, irraggiungibile per sua natura. Un Ideale che è bello cantare ma impossibile da vivere.

Questo Buzzati lo sapeva…