A Siracusa si deve sempre tornare, dice Viola Graziosi. “Perché è una delle esperienze più grandi in assoluto”. E non è trascurabile la “vicinanza” della città all’Olimpo.

Ragazzina sui dodici anni, Viola era già al teatro greco quando suo padre Paolo provava la Medea con Valeria Moriconi. “La storica Medea della Moriconi”. Graziosi interpretava Giasone e, pur impegnato nella conquista del vello d’oro, osservava con attenzione la figlia, decisa a diventare attrice per richiamo ineluttabile. Le faceva una sorta di provino, voleva accertarsi che avesse talento, per non condannarla alla frustrazione costante che affligge i figli d’arte senz’arte.

Figura patetica "l’erede inadatto"...

Papà lo sapeva e non voleva iniziassi una strada senza sbocchi. Andavo alle prove con lui e chiedevo agli dei di Siracusa e del mare di ispirarmi. Lavoravamo sul monologo di Giulietta ed è stato bellissimo perché papà si comportava con me come un compagno di squadra. Mi diceva: "Devi muoverti in qua, in là", ma non mi impostava e questo mi ha resa libera. Gli sono veramente grata per gli spazi che mi ha lasciato nel suo campo che è diventato il mio.

Chiedevo aiuto agli dei, cercavo un’ispirazione che non sapevo ancora dove trovare e sono stati loro a insufflarmela. Gli dei sono i più credibili, nel bene e nel male, perciò dico sempre che tutto è partito da qui e dalla benedizione di questo luogo. Ho avuto la fortuna e anche l’onore di andare in scena al Colosseo ed essendo romana di nascita è stato emozionante percorrere i Fori imperiali dicendomi: "Sto andando a recitare al Colosseo!". Però è un posto con un’energia bassa, molto bassa: ci senti il truce. Invece il teatro greco di Siracusa è miracoloso.

All’inizio della vostra storia, tuo marito Graziano Piazza ti ha regalato una cartolina di Eva Kant e Diabolik con su scritto: “Supereremo ogni ostacolo nella nostra meravigliosa avventura”. Voi due come Eva e Diabolik. Qual è la vostra criminalità. Forse, fare cultura?

Eh sì, fare cultura, non accontentarci. Ma anche portare avanti l’idea di una coppia nuova, con libertà e profondo amore, direi spirituale. Un amore suggellato da un matrimonio, ma non in senso cattolico. “Un’impresa criminale” amorosa richiede l’azzardo e quel rubare il tempo, un bacio. Mantenere vivo il sentimento, che non sia mai trappola, che non sia abitudine, ma al contrario una pratica di vita autonoma e profondissimamente insieme. È un tentativo, il nostro.

Abbiamo fatto una bomboniera che era composta da una bottiglietta di rosolio per l’ebbrezza, da una noce per simboleggiare la nascita, con il rito del matrimonio, di una terza vita della quale prendersi cura, la nostra, che non si sostituisce alla mia o alla sua. Poi una carta da gioco per l’idea del rischio e anche del barare, ogni tanto, se serve. In senso buono. Non si può essere sempre troppo ligi. E una frase di Rumi: “Lascia che la bellezza di ciò che ami sia ciò che fai”. Noi abbiamo una vicenda un po’ particolare, non so se un po’ la sai.

Ci siamo conosciuti quando ero una bambina di dieci anni e mi ero innamorata di Graziano che, però, all’epoca di anni ne aveva venticinque. Lavorava nel Tito Andronico con la regia di Stein dove recitava papà. Sono cresciuta in Tunisia e raggiungevo papà in tournée durante le vacanze scolastiche. Mi innamorai subito di questo giovane attore che faceva Demetrio. Bellissimo. Stavo fissa nel suo camerino, muta perché non poteva venire fuori quello che si stava scatenando dentro di me: un’esperienza amorosa primaria.

Mi chiedevo in mille modi quale strategia seduttiva avrei potuto mettere in atto per conquistarlo, ma capivo che c’era un problema oggettivo che non avrei potuto superare in quel momento. Mi ricordo di aver fatto questo pensiero: dieci-venticinque non è possibile, venti-trentacinque, forse. Trenta-quarantacinque sarà perfetto. E ci siamo ritrovati.

Nel mentre ho fatto mille esperienze ho avuto anche un primo matrimonio che chiamo di allenamento, lui ha avuto una figlia. Figurati, è un fatto meraviglioso. A quel tempo gli scrivevo delle letterine da Tunisi e lui mi rispondeva, e la cosa pazzesca è che me le ha riportate.

Se l’era tenute!

Se l’era tenute. C’era scritto: “Mi manchi” che detto da una bambina che scopre l’amore è diverso che detto da una ragazzina adolescente che si ciba del romanticismo. Quel “mi manchi” a dieci anni era un’esperienza esistenziale. Ce n’è anche una, che mi ha mostrato di recente, dove con tono perentorio gli chiedevo di venirmi a trovare a Tunisi perché avevano finito lo spettacolo e io non riuscivo a concepire di non vederlo. Mi ha commosso.

Sei una voce amatissima dagli italiani e hai ricevuto il certificato di eccellenza Audible Studios “per l’eccezionale performance e la costante dedizione”: in 6 anni hai registrato circa 70 audiolibri. Che cosa significa leggere un libro per gli altri?

È cercare una relazione. Cosa che credo oggi sia fondamentale e io la sto cercando con tutti i mezzi possibili. Pensa che sto anche iniziando un progetto artistico su TikTok. Leggere ad alta voce è assolutamente parte del mio lavoro di attrice. È divertentissimo, è far suonare un’orchestra perché fai tutti i personaggi. Sei il narratore, i protagonisti, gli antagonisti, le parti piccole. È l’esaltazione delle nostre potenzialità: infatti, anche quando non è il ruolo giusto l’attore lo vorrebbe fare uguale!

Io registro tantissimo. In studio è più comodo con il fonico e il regista che mi aiutano, che mi dicono se c’è un rumore. Registrare in casa è delirante, ma è lo stesso un allenamento. Prendo in prestito la frase di Artaud “l’atleta del cuore”. Per me l’attore è un atleta del cuore che si allena tutti i giorni: l’interpretazione, il fiato, la velocità di passare da una cosa all’altra e, principalmente, la relazione.

Purtroppo, critico il mondo del teatro e mi ci metto dentro, ci siamo forse un po’ dimenticati della relazione con il pubblico. Credo ci sia urgenza di questa relazione e meno dell’espressione artistica e basta. Mi dico che il tempo della vita è poco e voglio godere di quello che mi può far crescere e la relazione credo sia la cosa che fa più crescere e anche la più difficile che ci è data in questo mondo.

Leggere mi ricorda che il mio mestiere di attrice non deve superare la funzione di farsi canale, di prendere le parole di uno scrittore e porgerle all’ascoltatore. Non deve venire fuori solo il mio ego, non deve essere un mio monologo, a parte che anche il mio monologo dovrebbe, spero, rispettare ed esaltare la parola dell’autore. A un testo teatrale manca la parte interpretativa e registica mentre il romanzo ha tutto.

Ecco, per me l’audiolibro ha il vantaggio di questa relazione voce-orecchio che forse è un po’ più scevra di pregiudizi su di sé e sull’altro e quindi crea una relazione molto intima. La voce e l’udito sono la prima relazione che si crea tra il feto e la madre.

A proposito di relazione, c’è stato un cambiamento nel pubblico teatrale?

Sì. Viviamo un tempo meno sereno dove i bisogni primari vengono più alla luce. C’è una crisi del teatro borghese, quello di un certo tipo di pubblico che andava a teatro perché si abbonava, per uno status, e ritorna la necessità del teatro come luogo dove conoscere noi stessi e poter trovare un’accoglienza del sé, di tutti i sé, che porta alla catarsi. Piangere insieme, ridere insieme, sentirsi parte di un tutto che lotta… è la condizione umana. In questo tempo si vede di più la verità, è faticoso, spaventoso. Toglie i brilluccichii, non so come dire.

Un po’ di "mulini bianchi" fatti fuori?

Esatto. Lo sento in questo periodo nel quale ho la fortuna di girare tanto con molti spettacoli, con questi monologhi, che è sempre una parola un po’ sbagliata perché sono dialoghi diretti. Una volta chiesi a un tassista: “Come li chiameresti questi testi?”. Mi ha risposto: “Tête-à-tête”. I tête-à-tête servono a ricostruire la relazione che si è persa con lo spettatore teatrale. O con chi di solito non va a teatro.

Le persone che non vengono a teatro è perché non lo sanno. La maggior parte non lo sa che è fatto per lui, per lei. Sono poche quelle che son venute e, deluse, non ci vogliono venire più. A me interessa il pubblico che non sa. L’estate scorsa ho recitato in luoghi non prettamente teatrali davanti a persone non preparate in quel momento. Quanto ne hanno bisogno, quanto ti sono grati. E sono io grata a loro. Questa è la risonanza della quale parlava Peter Brook. Se no che ci stiamo a fare? In fondo nasciamo, soffriamo e moriamo tutti.

Gli spettatori sono come degli assetati che stanno nel deserto e tu dai un bicchiere d’acqua. Qualcosa di molto semplice. Semplicità non vuol dire banalità ma fondamenta, essenza.

Sto facendo l’esperienza di TikTok perché quella è una platea e deve arrivarci qualcosa. Se oggi i giovani stanno sui social, non so quanta percentuale del loro tempo, e non vengono a teatro intanto io devo capire come stanno messi lì.

Che posti su TikTok?

Per adesso cerco di portare i personaggi. Una sintesi della sintesi. Sto studiando il linguaggio e i tempi sono strettissimi. Però è interessantissimo e i giovani reagiscono, pian pianino. Faccio i miei “show”. Non impartisco lezioni di teatro, ma parlo del mio lavoro come strumento di conoscenza. Ho pubblicato venti domande a raffica. Una era: “Hai paura del futuro?”. E un ragazzo mi ha risposto: “Quale futuro? Io non ho futuro”. Ecco, questo mi fa impressione. Il tentativo è di stimolarli a ritrovare una fiducia, una speranza. I nostri personaggi... i greci, Shakespeare, contengono tutto.

Vai su TikTok, ‘scrolli’ e magari ti capita la mia Giulietta. E magari ti colpisce. Non perché sono io, ma perché è Giulietta, perché è Shakespeare. L’arte mi ha salvato. Sarei morta, senza. Se mi ha salvato, penso, salverà anche l’altro.

Hai tanti spettacoli nella stagione 2022-23. Ce n’è uno - è una domanda un po’ qualunque, ma con la risposta la migliorerai - che ti sta molto a cuore?

Per me ogni spettacolo è un innamoramento assoluto e totale sennò non saprei farlo. Ma c’è una cosa che mi commuove: essere portavoce, “portacorpo”, della trilogia sulle donne del mito scritta da Luciano Violante. Due giorni fa (alla fine di novembre n.d.r.) mi è arrivata Circe, dopo Clitemnestra e Medea.

Come attrice e come persona è straordinario portare in scena la testimonianza di vita di Violante che è stato presidente della Camera, magistrato e invece di scrivere un’autobiografia o un saggio, ha scelto la forma teatrale e attraverso le figure di donna elabora quella che è stata la sua esperienza. Riguarda il nostro presente, la nostra storia ed è un atto d’amore perché la forma teatrale è di per sé un atto amore. Da quando è iniziata la trilogia dall’estate di due anni fa con il debutto di Clitemnestra questi tête-à-tête…

Ormai i monologhi si chiamano così, grazie taxi driver!

…mi accompagnano perché posso ritagliarli in mezzo ad altre tournée. Mi sorprendono. Un uomo che fa questo dono e lo fa attraverso di me è molto importante. Un grandissimo onore, un grande onere. Leggendo questa Circe penso: “Bene, la mia anima potrà fare un passo avanti di crescita”. A un certo punto la crescita è togliere, togliere, togliere. E per fortuna, ne parlavo proprio con Graziano, si dice che quando una cosa ti arriva è perché sei pronto.

Poi Agnello di Dio di Mencarelli, uno spettacolo splendido che parla dei giovani con un linguaggio semplice ma non banale; quello su Sibilla Aleramo che nasce dall’audiolibro che ho inciso. L’ho proprio sentita pulsare, l’Aleramo. Mi chiedo perché non si studi a scuola. Fedra di Seneca, un personaggio stupendo, con Graziano che fa Teseo. E la prossima produzione del Teatro della Città di Catania che è L’amante di Pinter che faremo Graziano e io, diretti da Veronica Cruciani. Credo non sia mai stato fatto da una coppia vera. Un bel gioco (ride)!