Dopo essere rientrata dalla sua seconda missione, trascorsa a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, il 14 ottobre 2022, l’italiana Samantha Cristoforetti aggiunge un nuovo importante traguardo al suo curriculum di pilota e astronauta, suggellando una carriera “spaziale” straordinaria, conquistata dopo anni di duro lavoro e sacrifici, imponendosi in un ambiente prevalentemente dominato da uomini.

Con alle spalle una brillante carriera di pilota militare, Samantha Cristoforetti ha tenacemente lavorato per conquistarsi un posto nel gruppo astronauti dell’Agenzia Spaziale Europea, superando molti altri candidati, sia donne che uomini, fino a guadagnare il primo “biglietto” per lo Spazio con la missione “Futura”, realizzata tra il 2014 e il 2015, cinquantun anni dopo lo storico lancio di Valentina Tereshkova, per poi tornarvi il 27 aprile 2022, con la Crew-4 di SpaceX, nell’ambito di una missione scientifica denominata “Minerva”.

Cristoforetti è stata la prima donna italiana ad andare nello Spazio, rimanendovi per un periodo record totale di 369 giorni, superato solo - ad oggi - dalla statunitense Peggy Whitson, che attualmente detiene il record di un totale di 665 giorni passati nello Spazio (in più missioni).

Durante la sua permanenza in orbita, l’astronauta italiana è stata al comando del “Segmento Orbitale Americano”, per poi diventare Comandante della Stazione Spaziale Internazionale (seppur per pochi giorni) dopo essere stata la prima europea a compiere una passeggiata nello spazio, in compagnia del cosmonauta russo Oleg Artemyev. Prima italiana ed europea ad assumere questo prestigioso incarico, dopo tre donne statunitensi, e la quarta in 22 anni di attività umana sulla stazione spaziale.

Quest’ultimo dato è significativo e dimostra il ritardo con il quale le Agenzie spaziali hanno affrontato il “tema” delle donne nello Spazio. La storia delle donne nello spazio inizia nel 1963, con il lancio della ventiseienne russa Valentina Tereshkova (Vostok 6), fino ad oggi la più giovane mandata nello Spazio. I tempi però erano prematuri, i voli ancora pionieristici e l’invio di Valentina solo un exploit propagandistico.

Dovettero passare diciannove anni prima che un'altra donna, ancora una volta russa, tornasse nello spazio. Si trattava di Svetlana Savitskaya, che nel 1982 prese parte alla missione Soyuz T 7, che la portò a bordo della stazione spaziale Salyut 7, insieme ai compagni Leonid Popov e Aleksandr Serebrov, dove rimase per sette giorni. Due anni dopo ancora una "prima" per lei, durante la sua seconda missione spaziale (Soyuz T12), nella quale diventò la prima donna a effettuare un'attività extra-veicolare che durò tre ore e mezzo, nelle quali utilizzò utensili, saldò materiali e compì altri esperimenti in microgravità.

Se i russi si dimostrarono più possibilisti nell’impiego di donne cosmonauta, avendo istituito il primo gruppo cosmonaute nel 1962, nello stesso periodo della "corsa allo spazio" gli Stati Uniti furono ostinatamente diffidenti sullo stesso argomento. Lo stesso anno, una ragazza scrisse alla NASA che sognava di poter indossare un giorno una tuta spaziale. Come di consueto, l’Agenzia rispose personalmente alla giovane con una lettera molto gentile, nella quale, pur apprezzando il suo interesse, specificava che la NASA non aveva programmi che riguardassero donne astronaute, né di prevederli per il futuro prossimo.

Dovettero passare sedici anni, prima che l’Agenzia statunitense decidesse di reclutare le prime donne nel proprio programma spaziale. Di queste, la prima che andò nello spazio fu Sally Ride, nel 1983, con la missione Space Shuttle STS 7. Non che la NASA discriminasse le donne, anzi, molte di loro erano in Agenzia fin dai primi passi nello spazio, occupando anche posti fondamentali, come il film Il diritto di Contare ci ha mostrato, raccontandoci la storia della matematica e fisica afroamericana Katherine Johnson, morta all'età di 101 anni nel febbraio 2020, e che lavorò per la NASA, sfidando razzismo e sessismo, tracciando le traiettorie per il programma Mercury e la missione Apollo 11.

Ma nonostante si lavorasse per concedere il giusto spazio alle aspiranti astronaute, i candidati maschi erano percentualmente più numerosi delle femmine, e gli episodi di sessismo, soprattutto nei primi tempi, non mancarono di manifestarsi sia in Russia che alla NASA.

Nel 1995, durante un'intervista che la cosmonauta Svetlana Savitskaya, rilasciò alla giornalista Clara Germani del Baltimore Sun, raccontò che quando entrò a bordo della Salyut 7, il comandante della stazione Valentin Lebedev la accolse a bordo con in mano un grembiule, e sorridendo le disse di "mettersi al lavoro". Naturalmente Svetlana non se la prese, riuscendo a stabilire rapidamente un rapporto professionale e di rispetto reciproco con l’equipaggio.

Anche Sally Ride fu oggetto di discriminazioni, ma questa volta da parte di alcuni media, che prima di partire con lo Space Shuttle le chiesero se avesse mai pianto affrontando i duri allenamenti per diventare astronauta, una domanda che certamente non avrebbero mai posto a un uomo.

Ci sono poi stati i goffi tentativi di gestire la novità della presenza femminile, in un mondo fino a quel momento esclusivamente maschile. A ricordare quanto fossero impreparati i tecnici della NASA negli anni ‘70, citiamo un divertente messaggio pubblicato su Twitter il 16 gennaio 2018, dal Nasa History Office, che mostra un cimelio oggi esposto nello Human Spaceflight Museum in Virginia, riferendosi a un commento di Sally Ride:

Gli ingegneri della NASA, nella loro infinita saggezza, decisero che le donne astronaute avrebbero voluto truccarsi anche nello spazio, così progettarono un kit per il trucco. Potete immaginare le discussioni tra gli ingegneri, prevalentemente maschi, su cosa dovrebbe andare in un kit per il trucco?

L’idea del "kit trucchi" da usare nello spazio risale al 1978, quando alcuni "lungimiranti" ingegneri, pensarono che fosse un accessorio indispensabile per le prime donne astronauta, così necessario, che poi non fu mai portato nello spazio. L’approntamento di un kit trucchi nasceva dal presupposto che avendone realizzato uno per l'igiene personale fin dalle prime missioni spaziali, all'epoca tutte al maschile, una donna si sarebbe truccata anche nello spazio.

Ma fa sorridere pensare a questi "bravi ingegneri" (tutti uomini) discutere fra loro su cosa dovesse portare nello spazio una donna, e questa fu solo una delle situazioni strane nelle quali le candidate astronauta dovettero confrontarsi. In un'intervista rilasciata dopo la missione, Sally Ride raccontò di alcuni giornalisti che le avevano insistentemente chiesto quali trucchi avesse portato nello spazio, senza essere minimamente interessati a chiederle se avesse incontrato delle difficoltà nel far funzionare il braccio robotico dello Shuttle, o a liberare i due satelliti per le comunicazioni sistemati nella stiva della navetta.

Una situazione sessista che si ripeterà nel 2015, questa volta a scapito di un gruppo di candidate cosmonauta della Roscosmos, quando alcuni giornalisti russi chiesero nuovamente (sic!) che trucchi si sarebbero portate prima di iniziare una simulazione di un viaggio lunare. Un atteggiamento discriminatorio che purtroppo sembra voler resistere a ogni costo.

Un altro argomento “molto femminile" nel quale fu coinvolta la Ride, fu la "questione degli assorbenti igienici". Dovendo organizzare le scorte standard per ogni volo, i programmatori della NASA le chiesero se per una missione di una settimana potevano bastare cento assorbenti, oppure fosse meglio raddoppiarne il numero. L'astronauta rispose sarcasticamente che duecento non sarebbero bastati, per poi uscire dall’ufficio programmazione lasciando i tecnici perplessi. Fortunatamente, giunsero alla conclusione che forse non era necessario averne un numero così considerevole, sebbene si trattasse da tempo di un argomento “spinoso”.

Durante le prime fasi dell’esplorazione spaziale, infatti, la gestione del ciclo mestruale fu uno dei criteri discriminanti che i medici (tutti maschi, molti dei quali militari), posero come ostacolo alla presenza delle donne nello spazio. Lo stesso William Lovelace, che nel 1960 sottopose per scopi medici venti candidate agli stessi test utilizzati dalla NASA per reclutare gli astronauti, ignorò il problema semplicemente perché eventuali missioni femminili sarebbero state di breve durata.

Il problema emerse nuovamente, quando la Nasa decise di reclutare le prime donne astronauta per i voli dello Space Shuttle. Medici e ingegneri si posero domande su cosa sarebbe successo al ciclo da un punto di vista fisiologico e come controllarlo in microgravità. Poiché era un mondo dominato dagli uomini, vi era molta confusione in merito, come la testimonianza della Ride ci ha ricordato, ma furono le stesse candidate astronaute tranquillizzarono i tecnici, consigliando loro di “non considerarlo un problema, finché non diventava un problema”. Ma viaggiare nello spazio, si sa, è un po' come andare in campeggio, e gli ingegneri devono pianificare tutto il necessario, compreso quali e quanti prodotti sanitari sono necessari.

Naturalmente, come previsto dalle stesse candidate, si scoprì che la gestione del ciclo mestruale non comporta alcuna complicazione fisiologica, e la soluzione finale fu di interrompere il ciclo con l’adozione della pillola contracettiva, un metodo considerato assolutamente sicuro perché utilizzato su donne in ottima salute, e meticolosamente controllate dai medici. Esiste però ancora un problema tecnico, anche se in fase di risoluzione per i prossimi voli sulla Luna e per Marte, perché il sistema di riciclaggio liquidi presente sulla ISS non è stato pensato per gestire il ciclo mestruale, come dire che ancora una volta, quando si stava progettando la Stazione si era pensato solo a un equipaggio maschile.

In ogni caso, con il progetto Artemis, l’Agenzia spaziale statunitense ha preso molto sul serio la partecipazione delle donne nello spazio, ribadendo la volontà di lasciare a una delle proprie astronaute l’onore di scendere per prima sulla Luna. Un privilegio che coinvolgerà anche il secondo a sbarcare, che sarà un astronauta afroamericano.

Tuttavia, quando nel 2019, a bordo della ISS, si dovette annullare la prima storica passeggiata spaziale tutta al femminile, ci rivela come ancora ci sia molto da fare per raggiungere una pari attenzione fra astronauti uomini e donne.

La prima Extra Vehicular Activity (EVA) tutta al femminile, era stata annunciata dalla NASA, con molta enfasi, per il 29 marzo. Protagoniste dell’impresa, dovevano essere Anne McClain e Christina Koch, che insieme sarebbero uscite dalla Stazione spaziale internazionale ISS per installare all’esterno delle nuove batterie. Quando però si avvicinò la data indicata, la Nasa dovette frettolosamente rimandare la EVA, poiché a bordo si erano resi conto, che era disponibile un solo scafandro di taglia media, adatto alla corporatura di una donna.

Per inciso, le tute spaziali della NASA sono composte da diverse parti, che vanno assemblate per adattarsi al corpo dell'astronauta. In questo caso però, nessuno si era preoccupato di accertarsi se a bordo vi fosse disponibile un secondo “torso” di taglia media, o forse, peggio ancora, si era pensato che quello utilizzato per gli uomini, sarebbe andato bene lo stesso.

L’attività così pomposamente pubblicizzata dalla NASA dovette quindi essere frettolosamente rimandata. L’uscita però era indispensabile, e così si decise che la passeggiata spaziale sarebbe stata effettuata sempre da Christina Koch, ma insieme al suo collega Nick Hague. Solo quando a bordo arrivò da terra un torso medio, si poté programmare nuovamente l’uscita.

Questa volta Christina Koch fu affiancata da Jessica Meir, poiché la McClain era rientrata a terra con l’Expedition 58/59, dopo aver finito il proprio turno a bordo della ISS, non senza aver eseguito due EVA, per un totale di 13 ore nello spazio. Le due astronaute uscirono dalla Stazione spaziale internazionale il 18 ottobre, completando con successo i compiti a loro assegnati, durante una EVA di 7 ore e 17 minuti.

Come dimostra questo episodio, c’è ancora molto lavoro da fare per raggiungere una vera e totale parità di sesso e di genere, liberando il campo da ogni pregiudizio. In ogni caso, l’operato nello spazio di queste straordinarie donne, sarà certamente una ispirazione alle nuove generazioni, che si avvicineranno a questa nuova e stupefacente esplorazione.

Intervistata mentre era in orbita da Lawrence Jackson, della NBC News, la Koch, che ha il primato di essere la sola astronauta ad aver vissuto e lavorato nello spazio per 328 giorni in una singola missione, la più lunga realizzata da una donna, oltre a parlare della sua esperienza, e di cosa significa aver infranto un record che ha fatto la storia, con la prima passeggiata spaziale interamente femminile con Jessica Meir, ha voluto raccontare di come la sua passione per lo spazio sia nata da bambina, quando seguiva le imprese spaziali dei propri eroi, e della speranza che la sua impresa possa ispirare tutte quelle donne che, seguendo le sue orme, andranno a comporre la prossima generazione di esploratori, quelli che scenderanno su Marte.