Se ogni secondo della nostra vita
si ripete un numero infinito di volte
siamo inchiodati all’eternità
come Cristo alla croce

(Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere)

Tekel: tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato mancante

Daniele 5,27

Un Romanzo che non riesco ad indicare senza la lettera iniziale maiuscola. Un Romanzo assoluto quello più famoso di Kundera, essenzialmente universale in quanto filosofico e musicale e che, unico, coglie con uno sguardo originalissimo, il paradosso dei percorsi di vita in quanto entra nel profondo attraverso narrazioni e ragionamenti focalizzati sull’ l’alternanza esistenziale tra “pesantezza” e “leggerezza”. Ha ragione Parmenide? Il “leggero” è sempre positivo oppure possiamo schiantarci e autodistruggerci inseguendolo?

Il romanzo inizia in modo sorprendente con una citazione straordinaria dell’idea più greca e più folle di Nietzsche: l’eterno ritorno dell’eguale. Kundera coglie subito la tragicità e l’estrema pesantezza di tale idea filosofica. Persino Hitler nel lungo corso della storia perde peso nella costante fugacità di ogni cosa.

Ma se tutto deve un giorno tornare, allora, la caducità è riscattata anche in una forma paradossale. Perché Nietzsche ha inventato questo pensiero? In realtà, penso che sia molto più razionale di quanto possiamo immaginare nella sua mente. Nietzsche recupera il pensiero greco su un cosmo non creato, quindi quale dispiegamento di una durata di tempo senza fine.

Questo postulato se viene incrociato con un’idea, anch’essa greca, di una materia finita, limitata come quantità seppure immensa, (Aristotele riteneva la determinatezza un corollario di ogni idea di corpo) produce nel tempo la possibilità astratta di una ricombinazione totale della materia tale che possa accadere che ogni evento ritorni come già sia accaduto.

Ovviamente, dal punto di vista statistico non sarebbe concepibile tale idea in quanto anche il più semplice insetto è così complesso che ci vorrebbe l’eternità solo per ammettere una sua comparsa casuale nel tempo, figuriamoci le infinite varianze di ogni storia e accadimento individuale. Ma l’idea di Nietzsche appare oggi molto pascaliana: è un “come se” che permette di divinizzare il contingente, di sintetizzare Parmenide con Eraclito.

Si tratta di un geniale tentativo di responsabilizzare e ri-sacralizzare l’umano in una prospettiva di totale immanenza. Se tutto deve tornare allora ciascuno di noi appare assolutamente responsabile della conduzione propria vita e appare chiamato a viverla al meglio per reggere il peso di questo pensiero che il suo stesso autore riteneva il più “pesante” di tutti, come una prova eroica che pochi potrebbero vincere in pienezza. Non si tratta, infatti, di una semplice ripresa delle antiche idee stoiche-neoplatoniche-gnostiche sui cicli cosmici e sugli eoni ma di un eterno ritorno dell’eguale, epifania di un atomismo democriteo estremo.

In questo, Nietzsche mescola concezioni antiche ad una sorta di nuovo e originale “egualitarismo ontologico” del divenire, della singolarità individuale. Su questo tema, Kundera ragiona come Carmelo Bene (anche se riduce la vita a commedia più che a tragedia): la vita è un teatro effimero. Assurdo come la celebre frase del Machbeth amata da Carmelo che sintetizza il non senso del divenire umano individuale: non c’è possibilità di avere una seconda possibilità di ripetere la vita, ma siamo costretti a recitarla in modo irreparabile, senza un copione.

Sia Kundera che Carmelo cercano un equilibrio fra peso e leggerezza in una sorta di loro personale arte alchemica. La poetica di Carmelo Bene è tutta ruotante attorno al desiderio del volo, dell’abbandono, cioè dell’epifania improvvisa della grazia, della sprezzatura, di un’arte cioè che danza, essenzialmente musicale. La sua è opera di fluidificazione e oblio dei testi e del tragico in un lirico sognante, irreale, straniante. Non dimentichiamo il carteggio di reciproca stima fra Kundera e un altro amante della leggerezza ontologica: Fellini. Kundera ragiona come il logico austriaco Heinz Von Foerster: nulla nelle scelte quotidiane dell’esistenza è dimostrabile né spiegabile né riducibile ad un’alternanza vero/falso ma tutto è metafisico in quanto indecidibile.

Per i personaggi del suo romanzo le scelte sono compiute come in dormiveglia, come seguendo un sussurro, un tema musicale, quello che lui chiama in relazione a Sabina e all’eterogenesi dei sensi della bombetta del padre: “fiume semantico”. Nel suo straordinario romanzo Kundera muove i suoi quattro personaggi principali: Tomas, Teresa, Sabina e Franz attraverso fasi alterne del dispiegarsi di queste due polarità, come esponendo temi musicali ampi e ritornanti. Non a caso i titoli dei sette capitoli sono ripetuti due volte: due volte compaiono “Leggerezza e pesantezza” e “Anima e corpo”.

Corpi che sembrano leggeri come quelli di Tomas e di Sabina e anime che sembrano pesanti come quelle di Teresa e di Franz. “Insostenibile” è il corpo o l’anima? Nell’antichità il peso aveva anche un valore come si evince dalla psicostasia egizia dove li cuore doveva pareggiare il peso dell’allegorica piuma di struzzo della dea Maat e come si evince dalla citazione del libro profetico di Daniele dove l’anima di Nabucodonosor viene pesata similmente dal giudizio di Dio e nella stessa visione dell’inferno della visione apocalittica di Fatima dove le anime malvage vagano nell’aria e nel fuoco “senza peso” come i lussuriosi sbattuti dal vento del quinto canto dell’Inferno di Dante. Tomas segue spontaneamente cicli di liberazione dal peso verso il leggero, come Sabina con i suoi “tradimenti” degli imperativi morali imposti dal Kitsch e dai contesti socio-politici.

Tomas prima si libera dalla sua famiglia e dai genitori e poi finirà per liberarsi anche dalla sua vita erotica libertina in quanto divenuta anch’essa un dovere morale. Il rapporto con Teresa di Tomas inizia e finisce con il tema della compassione giocata in senso anti-nicciano quale massima forma dell’amore quale la rinuncia alla propria forza. Tomas troverà la propria catarsi proprio nell’accettazione del peso, della via meno facile: il ritorno a Praga dalla Svizzera, il suo articolo anti-sovietico sul mito di Edipo, la rinuncia alla carriera medica, il ritirarsi con Teresa in un paesino di campagna.

Una sorta di katabasi che sembra sprofondare sempre di più il protagonista verso il “pesante” ma che viene invece vissuta da Tomas quale processo di progressiva liberazione e interiorizzazione. Teresa è il peso ontologico: l’importanza delle coincidenze nell’incontro don Tomas (gli “uccelli” compassione verso il cagnolino Karenin e l’immagine della cornacchia morente). Eppure anche lei fugge dal peso di una madre materialista e disturbante ma per lei la leggerezza è il vivere in modo animico il proprio corpo nell’amore quale affiorare dell’anima dal profondo fino a fior di pelle.

Tomas vive come ex chirurgo lavavetri coccolato dai suoi clienti due anni di vacanza erotico-esistenziale. Una leggerezza insostenibile che lo porteranno a lasciare l’amata Praga per un non-luogo dove vivrà una vita semplice, quasi edenica. Ma anche qui la leggerezza sarà insostenibile: la sua noncuranza causerà l’incidente per l’avaria dei freni dove troverà la morte con Teresa, appena prima di essersi riconciliato con un altro “peso”: il proprio figlio. Per Franz il rapporto con il leggero e il pesante ontologico è più ambiguo: a differenza di Sabina lui ama il kitsch della “Grande Marcia” cioè l’idealismo di massa occidentale con la quella retorica che per lui è l’aura di Sabina e il fascino del peso mentre il Kitsch per Kundera, e per Bene, è pura leggerezza ma insensata: una recita che riduca la vita a una bolla di sapone, a instupidimento, a mera vuota fiction televisiva, surrogato del reale, simulacro che sostituisce sia il corpo che l’anima. E per inseguire il suo peso che in realtà è leggerezza Franz troverà la sua morte, come una punizione per aver lasciato la sua leggerezza sostenibile data dal suo rapporto con la sua studentessa con i grandi occhiali che ha il privilegio di non mostrare alcun nome.

Per Franz il primo peso è la moglie-madre Marie Claude mentre il senso di vuoto della cattedrale di Amsterdam è un leggero amato e desiderato, liberatorio dalla Storia. Carmelo Bene sottoscriverebbe la positività musicale di questo “vuoto”. Per Marie Claude l’amore è lotta mentre per Franz è rinunciare alla forza, quella forza a cui Nietzsche non vuole mai rinunciare. Per Teresa il peso è la collina di Petrin con quegli uomini che aiutano a morire chi vuole morire e ai quali sfuggirà per un soffio di leggerezza ma il peso è anche “vertigine”, cioè ebrezza nell’arrendersi alla debolezza che Teresa esperimenta l’unica volta che tradisce Tomas. Il romanzo si conclude con il tema dell’animalità quale innocenza. Qui Kundera ha un’altra intuizione geniale: gli animali non hanno subito la caduta edenica, non sono stati scacciati dal Paradiso terrestre e per questo la loro spontaneità e innocenza ci affascina e ci induce ad un’intimità che assomiglia all’amore, molto più difficile fra persone umane. Gli animali esprimono una leggerezza d’essere sostenibile, incantevole.

Per gli uomini ogni volo di leggerezza si paga in una Nemesi che non lascia scampo. Così la leggerezza poetica delle foto di Teresa durante l’occupazione sovietica di Praga e così la liberazione di Franz nell’ammettere il suo tradimento alla moglie e nel lasciarla. Ma non è una Nemesi moralistica, piuttosto una compensazione negli equilibri instabili di quel processo alchemico che è la vita e che non è facile condurre con sapienza.

La stessa dittatura del Kitsch, oggi imperante e che Kundera profetizzò quanto Carmelo Bene sempre combatté e rifiutò, deriva dall’entusiasmo per la leggerezza, dal desiderio folle ma comprensibile di una Paradiso in terra, di un mondo “senza merda”.

Kundera ci ci insegna che l’eliminazione della “merda” è l’eliminazione dell’eros e dell’eccitamento, cioè dell’aspetto sanguigno e concreto della vita per una sua involuzione in una pesantezza opprimente tipica di una recita imposta e soffocante. L’insistenza di Kundera per un tema di un quartetto di Beethoven (op. 135, ultimo quartetto, quarto movimento) che espone il tema del “Dover Essere” (Es muss sein) quale Destino, cioè quale eterno ritorno del peso focalizza il perenne tema del rapporto fra natura e fine, fra esistenza e senso.

Lo stesso Tomas nell’ultimo pomeriggio della sua vita erotica-vacanziera in Praga sente la disperazione del vuoto per non essere riuscito a contattare una donna: il leggero si è convertito in pesante, la ruota si è ribaltata: occorre cercare un nuovo equilibrio. La “Grande Marcia” che spinge Sabina a tradire ogni legame e identità e spinge verso la morte Franz è come il mito americano della frontiera: un’ossessione che spinge il desiderio sempre oltre, che tiene viva all’infinito l’insoddisfazione e l’inquietudine.

Alla fine il Kitsch diventa non solo un regime globale di estetica sociale e di comunicazione alienante ma pure il destino effimero di ogni esistenza: finire in una manciata di inadeguate parole su di una lapide. L’immagine finale dell’inizio della follia di Nietzsche nell’abbracciare un cavallo frustato dal vetturino è la rivincita del Peso nella forma amorosa della compassione che trionfa nella storia bellissima di Tomas con Teresa. Una forza che si limita ad automantenersi o ad incrementarsi continuamente come quella sognata dal Nietzsche prometeico di tante sue opere che senso ha? Che valore avrebbe? Non ci sarebbe scambio né vera evoluzione. La com-passione invece è proprio il culmine dell’amore nella rinunzia libera e volontaria alla propria forza a favore di un’altra persona.

La ripetizione è leggera o pesante? Kiergegaard nel suo celebre saggio sul tema la ritiene leggera e desiderabile in quanto apre al senso dell’eternità, da tutti voluto e amato. Ma nell’idea nicciana dell’eterno ritorno dell’eguale la ripetizione diventa un incubo, ancora più assurdo dell’assurdità complessiva dell’immanenza. Kundera sembra pensarla come Kierkegaard: la felicità è desiderio di ripetizione. Solo gli animali sanno sostenere però la ripetizione perché il loro tempo è ciclico e non progressivo-lineare.

Alla fine Tomas diventa in un sogno di Teresa (sogni vivissimi, più della vita) un leprotto, segno mercuriale positivo. Ecco, la sapiente alchimia esistenziale di Kundera e che fu già di Carmelo Bene e di Arthur Schnitzler: il trasformare il peso in leggero e trovare una nuova sintesi. In Carmelo è il leggero del superamento dell’ego nell’ineffabile previa accettazione del tragico non senso dell’esistere, in Kundera e in Schnitzler è l’alchimia che sintetizza sogno e vita, essenza musicale dell’esistere e destino individuale. Schnitzler e Kundera scrivono uno stesso e unico romanzo musicale universale.