In me perduta folla ha sentimento come se dentro secentesca gelida incrosta superficie altra materia viva sé dilaceri.

(Carmelo Bene, La beata Ludovica Albertoni, ‘L Mal de fiori)

Due capolavori del Bernini, oltre lo stesso Barocco, opere che superano ogni tempo e giungono al limite delle capacità di espressione umana. Un Barocco eterno, senza tempo e che appare puro e totale eccesso dell’umano verso l’assoluto che irrompe nel tempo e nel corpo: ecco l’estasi di Santa Teresa d’Avila nella deliziosa chiesa di Santa Maria della Vittoria in via XX settembre e l’estasi della beata Ludovica Albertoni, terziaria francesca, nella Chiesa di San Francesco in Ripa a Trastevere.

Un percorso che è bello da fare a piedi, da nord a sud, sostando a lungo in questi luoghi sacri per cogliere ogni dettaglio di un’arte che appare quasi entrare nell’irrappresentabile. Partiamo da Santa Maria della Vittoria, una chiesa-tempio, che sembra un’arca, una navicella, uno scrigno elevato a cui si accede salendo e che appare tutta impostata sul tema del conflitto radicale fra la Vergine e le eresie. Il tempio, infatti, celebra la Vergine Maria quale “colei che distrugge le eresie” evidenziando quindi gli aspetti guerreschi e mistici della Madre di Dio cristiana.

Seguendo la verticalità semantica dei questa Chiesa ecco apparire nell’ultimo altare a sinistra la nostra opera, elevata in alto, piccola dimensionalmente ma immensa nella sua profonda intensità e in una condensazione espressiva massima, unica. La santa appare insieme ad un angelo che brandisce una grande freccia d’oro che mira al suo petto. Teresa, uno degli spiriti più mistici dell’Occidente, anima ardente, severa fondatrice di monasteri carmelitani e riformatrice del monachesimo femminile, autrice dello stupendo “Castello interiore”, itinerario e viaggio dentro l’assoluto dell’anima illuminata dallo Spirito, appare qui colta nell’essenza del momento senza tempo, aionico, della propria estasi mistica.

Ekstasis è termine greco antico che significa farsi da parte, lasciare spazio ad altro, essere posseduti e così appare Teresa colta e trasfigurata da un Bernini divinamente ispirato. È lei e non è lei. Assenza e presenza nello stesso spazio-tempo che si dilata nell’attimo della sua contemplazione in un non-tempo e in un non-spazio che è il corpo invaso dallo Spirito.

Un’opera che possiamo definire con Salvador Dalì realistica e per nulla allegorica o simbolica in quanto la contorsione del corpo e le molte anomalie posturali ed espressive sono manifestazione diretta e immediata proprio del fenomeno dell’estasi mistica, cioè il subire del corpo e dell’anima umana l’irrompere di un’illuminazione divina trionfale e prevalente rispetto alla quale l’essere umano non può che arrendersi in una feconda e sapiente passività.

Teresa ha il capo reclinato verso l’alto, gli occhi chiusi, la bocca semiaperta mentre la mano sinistra e il piede sinistro appaiono abbandonati, inermi, specie il piede che penzola nell’aria come se non appartenesse più al resto del corpo.

Il velo monacale ci stupisce anch’esso in quanto appare mosso da mille ondeggiamenti, come animato da un vento interiore vivace ma delicato, come l’acqua della piscina di Siloe era agitata divinamente dal passaggio di un angelo secondo la tradizione d’Israele. L’angelo è efebico, molto giovane e le sue vesti sono leggere e sottili e viene colto dal Bernini in un frame dilatato, in un kairòs non computabile che appare sia prima che dopo la trasveberazione, cioè la trafittura mistica del cuore della santa. La freccia d’oro è ancora nella sua mano ma la statua di Teresa ne mostra tutti gli effetti immediati e non dimenticabili.

L’arte è qui atto assoluto, dimensione aionica che unifica i tempi e supera le distinzioni di un tempo lineare e progressivo. Non c’è più un prima né un dopo. Aurea la freccia come quelle di Apollo, l’obliquo, il lossia cioè obliquo. La freccia è obliqua verso il cuore, sede dell’essenza della vita, sede della sapienza e della volontà nelle concezioni antiche.

Aurei anche i raggi potenti e dritti che esplodono scendendo in modo epifanico dall’alto, da Dio, verso la scena e il momento dell’estasi. Non a caso la freccia apollinea o artemidea appare frequentemente nell’iconografia alchemica sei-settecentesca quale allegoria delle nozze alchemiche fra mercurio e zolfo, quale Sale dei saggi, intus-legere dell’estrattore, segno risolutore e di congiunzione fra gli opposti. Questi raggi, così semplici, sicuri, certi, rivelano insieme alle nuvole sopra al tabernacolo quegli aspetti rivoluzionari del Barocco romano che lo rendono eterno e sembrano già anticipare l’arte moderna con la sua tendenza all’astrazione e all’informale. Raggi che indicano l’irrompere della Grazia, l’autorivelarsi di Dio nell’attimo, lo squarciarsi del tempo, l’essere trapassati dall’assoluto in trasparenza: la luce dell’anima. Corpo che non fa resistenza alla luce che si manifesta in potenza.

La velocità della freccia mostra insieme ai raggi che scendono dall’alto la velocità soprannaturale della grazia santificante che prende possesso di tutto l’essere umano. Le direzioni di freccia e raggi si incrociano proprio verso il cuore di Teresa, luogo ora ierogamico, teandrico, stanza segreta di un mistero radiante. Il corpo della santa appare senza più peso e animato da un vento interno, abissale, vivificante che ne prende possesso mentre lei è rapita, svanita, svenuta. L’angelo ha un leggero sorriso, come di chi conosce bene i trionfi divini e la bellezza dell’arrendersi umano all’azione di un Dio che si delizia dell’animo umano che possiede.

La veste angelica si congiunge con la veste monacale che diventa una sorgente, una tempesta delicata, una fonte di dolcezza vibrante. Con grazia l’Angelo colpisce al cuore la santa rivelando la Grazia e come sigillandone la fede, coronandone il desiderio celeste, sposandola nell’Eterno. L’Angelo e la Santa sono fisicamente molto vicini ma la distanza è siderale, cosmica, colmata dal colpo di freccia della Luce divina che unifica i due abissi, quello celeste e quello corporale in una nuova unità inedita, inaudita, sorprendente. Per questo, Carmelo Bene amava così tanto questo Bernini, per il suo eccesso, per il suo oltrepassare ogni canone, anche barocco.

La poetica di Carmelo si fonda infatti sul concetto di “estasi” che ritroviamo anche nell’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello, cioè mette al centro il tema di quello che possiamo chiamare: la “trascendenza tramite l’assenza”, il superamento dell’Io nel vuoto dell’inesprimibile, nell’Ineffabile della Voce. E qui la voce è luce fatta marmo, dynamis che si avvolge su se stessa in un vortice impensabile, oltre ogni concetto perché come diceva Carmelo: la poiesis è risuonare oltre il concetto. Abbiamo l’opera, non solo una statua, cioè un mero manufatto, un oggetto, perché tutto il marmo appare scosso da un fremito continuo e traboccante attraverso proprio la passività della postura femminea.

Eppure Carmelo amava di più la Beata Ludovica, l’altro assoluto del Bernini, tanto da dedicarle una lunga poesia tra quelle del suo poema ‘l Mal de fiori. Tanto da inserirla specularmente nella sua versione teatrale dell’Amleto: Hommelet for Hamlet tramite un’attrice che ne riproduceva il sembiante quale chiara incorporazione del suo concetto barocco-futurista di “abbandono”, di volo, di grazia. Questa per lui l’arte: il perdere il controllo, il superare l’ego, l’esprimere l’inesprimibile tramite la contorsione del corpo e del linguaggio.

Anche quest’opera è posta in fondo al lato sinistro della chiesa. Opere simili ma entrambe uniche. Ludovica: sposa, vedova, madre dei poveri recita la didascalia ecclesiale. Qui abbiamo una piccola cappella, come uno stretto corridoio che si restringe ulteriormente in corrispondenza della statua. Non ci sono qui angeli ma solo il corpo della donna.

La luce è quella naturale, che viene dall’alto, dall’Altro. Il velo è meno pesante e spesso, la statua posta più in basso appare più visibile nel suo complesso. Qui si apprezza meglio il velo che diventa fontana di energie in movimento e traboccamento. Aveva ragione Carmelo: il corpo sembra elastico, fuso, deformato, collassato nell’apeiron della divina Grazia. Un corpo disarticolato, smembrato, che viola in modo naturale i canoni anatomici. Anche questo amava Carmelo che nel corpo fondò tutta la sua poetica ed ermeneutica. Noi siamo corpo, ripeteva con Nietzsche e con Tommaso d’Aquino e qui il corpo appare congiungere trascendenza e immanenza, appare già glorioso come quello del Cristo risorto, cioè tendente al superamento dei limiti spaziotemporali.

Il capo è reclinato verso l’alto ma i cuscini sono due e sono spessi generando l’impressione che il collo stia per spezzarsi; la mano destra si tocca il petto come a tenerlo saldo e fermo come se altrimenti potesse sbalzare fuori dal corpo e le ginocchia sono divenute due grandi sbuffi di vento sotto il velo. Appare eccessiva distanza fra le ginocchia piegate e il ventre, tenuto dalla mano sinistra che sfiora la destra come se il corpo si fosse allungato, come cera al fuoco.

Il velo religioso si mostra tutto smosso da numerose piegature a serpentina e le dita della mano diventano pieghe che turbinano senza fine. Ecco il “deliquio” che il Cantico dei cantici di Salmone indica in poche intense parole che il latino paradossalmente qui rende meglio della lingua originale: anima mea liquefacta est. Ecco “l’acqua ardente” dell’alchimia, la fusione in unità delle quattro radici empedoclee della natura. Il volto viene meno nell’adombrazione divina, l’anima è trafitta ma il corpo appare più vivo che mai, quasi serpentino. Ecco l’Arte delle arti: trasmettere il senso dell’Inesprimibile, cioè il senso mistico, senza spiegare né abbassare nulla dell’immensità dell’abisso che abitiamo senza accorgercene.