L’eredità è qualcosa da cui non possiamo prescindere. Le cose materiali, i carichi emotivi, le questioni irrisolte… sono molte le dimensioni nelle quali noi ereditiamo dalle generazioni che ci hanno preceduto. La prima è il patrimonio genetico, che trasporta informazioni specifiche da, almeno, sette generazioni. Poi ci sono i talenti, gli strumenti con i quali veniamo al mondo, sono le doti che ci consentono di cavarcela nella vita se ci va bene, e di trionfare se ci va benissimo. Poi ci sono gli atteggiamenti del corpo e le attitudini della mente, plasmati con il contatto fisico, la vicinanza, la convivenza con la famiglia. Un’impronta la cui profondità è direttamente proporzionale al numero di ore di vita trascorse insieme, soprattutto durante l’infanzia. A volte è una cosa buona, altre volte meno.

Poi vengo gli anni degli insegnamenti. L’educazione, l’esempio, la trasmissione del sapere, che dovrebbe avere come scopo primo e ultimo creare nuovi individui autosufficienti. I genitori sono chiamati a fornire ai loro figli gli strumenti per proteggersi, preservarsi e guadagnarsi il pane, ma anche per divertirsi, riposarsi, fare sport, stare con gli amici, dare voce ai desideri e spazio alle abilità, affrontare le sconfitte, comprendere la morte, divenire genitori a loro volta. L’amore è un capitolo a sé, ma anche per quello i genitori tracciano un destino. E poi, c’è il legame con la terra di origine, qualcosa che è possibile dimenticare, provare a cancellare, faticosamente andare oltre, ma il Genius Loci dell’habitat dell’infanzia lascerà per sempre un’impronta nel nostro essere.

Nel momento in cui diventiamo orfani, oltre a tutto ciò che dei genitori già è impresso dentro di noi, può capitare di ritrovarsi ad avere a che fare anche con “le cose”. A volte, enormi montagne di cose, ed ereditarne molte non sempre è una fortuna. Se poi si ereditano oggetti e proprietà appartenuti a più generazioni il senso di responsabilità si amplifica, insieme alla fatica. Ma oltre all’impatto emotivo che questa nuova condizione ha su di noi, oltre all’energia fisica necessaria a svolgere lavori da facchinaggio estremo, oltre all’impegno mentale per la gestione delle operazioni burocratiche, oltre alla responsabilità di prendere decisioni in merito a questioni che fino a ieri non ci riguardavano, perché sentiamo che gestire l’eredità è un lavoro così impegnativo? Sicuramente lo è in proporzione a quanto è forte il legame con le radici familiari, e al tempo stesso ci troviamo nella difficoltà di maneggiare qualcosa che appartiene ad un mondo che non esiste più. Fino ad un passato non ancora remoto il patrimonio che veniva tramandato di generazione in generazione era vitale. Oggi, in questo nuovo mondo, la vita, le necessità, il contesto, cambiano talmente velocemente che si rischia di ritrovarsi con una gran quantità di materia del quale non siamo più in grado di riconoscere l’utilità. Cose che in passato avevano un grande valore oggi potrebbero essere solamente ingombranti, difficili da collocare e da smaltire.

Alla morte di mio padre mi sono ritrovata a dover mettere mano agli oggetti accumulati da lui e da mio nonno, ed è stata l’occasione per rovistare anche dentro me stessa. Due generazioni di padri che si sono dedicati con cura maniacale alla conservazione delle cose, che un bel giorno sono arrivate a me, insieme all’onere di decidere del loro destino. Mi sono dovuta interrogare su quale fosse l’essenza del legame tra mio nonno, mio padre e me, per comprendere quale fosse il senso e il valore di ciò che avevo ricevuto e come mai quell’incombenza mi risultasse così faticosa. Qual è dunque il fil rouge che mi collega alle mie radici in modo così profondo? La risposta è arrivata inaspettata: il legno. La materia più sacra di questo pianeta. Mio nonno era un ebanista di professione, mentre mio padre era un cercatore di funghi e un artigiano per diletto, con una passione smisurata per il legno, che da giovane comprava, aggiustava, costruiva, restaurava mobili per puro divertimento, che invecchiando ha iniziato a recuperare vecchie cose di legno che altri avrebbero buttato via, come spinto da un senso del dovere di aggiustarle e ridare loro dignità e funzione. In ultimo, come per istinto, portava a casa rami e bastoni che raccoglieva per strada, perché il loro “essere di legno” era comunque una ragione sufficiente per essere tenuti da conto (vi è anche un risvolto ecologico raffinato in questo comportamento, ma di sicuro non ne era cosciente). Dai boschi ai mobili ai funghi agli alberi senza soluzione di continuità. Queste sue passioni hanno sicuramente creato in me un imprinting molto forte. Anni di scuole artistiche mi hanno iniziata alla reverenza verso la carta (sempre di alberi si tratta), poi come scenografa il legno è stato il materiale principe del mio lavoro. Oggi insegno il valore di arredare case con materiali naturali e gli alberi e i boschi sono sempre al centro della mia attenzione professionale. Tutto ruota intorno al legno, da almeno 3 generazioni. La connessione che sento con i pezzi di legno plasmati dal tempo e dal lavoro, dagli elementi naturali come acqua, sole, vento, dalle mani degli artigiani, o dall’intervento di altri animali, è pari a quella che provo per gli alberi vivi e vitali: sono frammenti di conoscenza, saggezza, custodi, testimoni di vita. Ogni pezzo di legno è sempre vivo, utile e perciò prezioso.

Eccomi dunque con la mia eredità: oggetti dai valori molto diversi che raccontano la storia del ‘900, tenuti da parte, accumulati con attenzione come si fa con un tesoro, divengono la mia dote. Una enorme quantità di materia trasferita di generazione in generazione, di cui ogni pezzo ha una sua bellezza peculiare, un valore oggettivo e uno affettivo, oppure conservato anche solo perché magari, un giorno, sarebbe potuto “tornare utile”. Sembra strano a dirsi, ma anche biologicamente siamo fatti così. Una volta lo chiamavano DNA spazzatura: residui vestigiali, scarti di lavorazione, materiale di risulta di processi evolutivi… matasse di catena genetica apparentemente inutile che al momento opportuno può diventare materia prima grezza. Da quel gomitolo ogni tanto il corpo ripesca qualche pezzo che gli serve. La capacità di problem solving del nostro organismo attiva e disattiva risorse in base a necessità sempre nuove, spesso imprevedibili, incalcolabili… inimmaginabili. Dal carrozzone del patrimonio genetico che ci portiamo appresso, apparentemente pieno di cose superflue, ogni tanto recuperiamo un antico strumento, che per qualche misteriosissima ragione, torna utile nel nuovo mondo. Questa attitudine, che la natura microscopica è in grado di compiere in modo meraviglioso, si manifesta anche nel comportamento di molti esseri umani.

Un tempo in modo proficuo, funzionale e con risultati davvero pregevoli, gli oggetti che erano stati costruiti in legno o metallo potevano essere ritrasformati e riadattati quasi all’infinito. Il tronco di un albero, dopo infinite trasformazioni, poteva ultimare la sua esistenza anche dopo centinaia di anni di utilizzo, alimentando il fuoco necessario a cuocere una zuppa, per nutrire essere umani venuti al mondo molte generazioni dopo l’uomo che aveva tagliato l’albero per ricavarne il tronco. Ma questa è la storia del legno e degli esseri umani prima della plastica, prima dell’imperare consumistico dell’usa e getta, del mono-dose e mono-uso, dell’obsolescenza programmata. L’attitudine ad accumulare rispondeva ad un istinto molto profondo e dobbiamo essere grati per la dedizione con la quale i nostri antenati si sono presi cura delle cose, riconosciamo tutto l’amore che ci hanno messo, comprendiamo tutta la passione che hanno dedicato al conservare materia e lavoro, come energia condensata, che rimane presente, perché in ognuno di quegli oggetti è ancora racchiuso un insegnamento. In ogni cosa di quel passato davanti ai nostri occhi e nelle nostre mani c’è un messaggio per noi. Comprendere quei messaggi è l’unico modo per onorare quell’eredità, fare nostro quello spirito e riuscire a sublimarlo dagli oggetti.

Lasciar andare non è una questione di coraggio. Ha a che fare con ciò che scegliamo come materia prima per plasmare il futuro. In passato possedere e accumulare cose era segno di ricchezza, nel nuovo mondo non può più essere così. Possiamo però rinnovare la nostra consapevolezza riguardo alla relazione con gli oggetti, riappropriarci del senso di utilità, recuperare la cultura e conoscenza dei materiali, ricominciare a costruire oggetti che possano essere aggiustati e imparare ad aggiustarli, che abbiano una bellezza ed un valore intrinseco, che valgano almeno quanto l’impatto generato per produrli e poi smaltirli (possibilmente il più tardi possibile). Ma soprattutto dovremmo re-imparare a vivere con meno cose. Dobbiamo permettere alle nuove generazioni di crescere con meno oggetti e più spazio, affinché diminuiscano su di loro pressioni, oneri e fatica fisica, affinché l’energia in loro e intorno a loro possa circolare più fresca e la vita essere più leggera possibile. Questa credo sia una delle forme di ciò che chiamiamo sostenibilità.

Cosa fare dunque con tutta quella materia? Cosa siamo chiamati a fare con la nostra eredità? Come possiamo rendere onore a tutto ciò che abbiamo ricevuto? Qual è l’essenza del valore che attraversando il tempo giunge fino a noi? Cosa ci è utile, cosa è materia prima grezza, cosa può essere fonte di benessere per noi oggi?

Così come nella parola eredità vi sono molti livelli di significato, anche “patrimonio” comprende sia “le cose del padre” che “il compito del padre”, come se insieme alle cose si ereditasse anche una missione. Siamo chiamati ad essere il punto di contatto tra il passato e il futuro. Arriva il momento in cui dobbiamo scegliere se, come, e perché continuare il cammino dei nostri avi, oppure trasmutarlo. Mio padre, dopo aver raccolto legno per novant’anni, nelle sue ultime passeggiate per il paese, non rincasava più come un tempo con qualche bastone di dubbia utilità, ma con un mazzolino di fiori per mamma, la sua compagna di vita. Quando abbandoniamo i progetti per il futuro, prendiamo le distanze dal fare, smettiamo di seguire la necessità di programmare e rimandare, quando il tempo è privo di prospettiva, allora si sta, semplicemente, in contatto con l’essenziale, e tutto ciò che ha valore è senza peso. E grazie a questo io ho potuto riconoscere che la mia eredità, apparentemente pesante ed ingombrante, è in realtà una moltitudine, magari incoerente, di piccoli gesti d’amore e grandi insegnamenti. Il peso si è trasformato in ricchezza quando sono riuscita a vedere oltre gli oggetti di quella preziosa collezione, a riconoscere l’intenzione amorevole che vi è condensata, a visualizzare la somma dei momenti passati insieme lavorando il legno, maneggiandolo, imparando a conoscerlo e a riconoscerlo. La sua eredità è la sapienza del benessere che deriva dal vivere circondati da quella materia viva, in tutte le sue forme, ad usarle, manipolarle, goderne. È l’insieme di tutte le ispirazioni che ho ricevuto attraverso le immersioni in esperienze sensoriali, creative ed emotive condivise. I legni di mio padre e di mio nonno hanno dato forma alla mia personalità, alla mia professionalità, ai miei gusti estetici, alle mie capacità, alle mie conoscenze, alla mia sensibilità. È dunque questa dimensione dell’eredità che dobbiamo far fruttare, è rendendo le nostre specifiche caratteristiche fonte di abbondanza per noi stessi che renderemo veramente onore a ciò che i nostri avi ci hanno tramandato. Il mio patrimonio è un cammino di attenzione e cura verso gli alberi in tutte le loro molte vite, una modalità personale di coltivare la relazione tra uomo e natura che io ho potuto apprendere, sperimentare ed espandere. Questo è un cammino che è iniziato prima di me e che scelgo di proseguire. Ad ogni modo non è necessario rimanere orfani per decidere di fermarci, guardare indietro, e scegliere cosa vogliamo portare avanti.