Tempo fa ho avuto modo di recuperare una serie-tv prodotta da Amazon e passata in quasi totale sordina. Presentata a Cannes nel 2019, Too Old to Die Young è il primo prodotto seriale interamente realizzato da Nicolas Winding Refn, un regista che anni addietro ha avuto modo di segnare indelebilmente la rassegna francese con il suo Drive, lungometraggio grazie al quale si è aggiudicato l’ambito Prix de la mise en scène nel 2011.

Da allora, il regista danese ha scelto di allontanarsi dalle luci della ribalta hollywoodiane, rinunciando a varie proposte lavorative (Spectre, ventiquattresimo capitolo della saga dedicata all’agente James Bond, tanto per citarne uno) al fine di ottenere una maggiore indipendenza e libertà decisionale, anche a costo di lavorare con budget enormemente inferiori a quelli offerti dall’industria cinematografica statunitense.

Dopo Only God Forgives e The Neon Demon, pellicole tanto controverse quanto esteticamente superlative, Refn ha accettato la sfida di cimentarsi col mondo della televisione (o post-televisione, in questo caso). Una scelta non del tutto inedita in verità, se si tiene conto dell’episodio “Nemesis” di Agatha Christie’s Marple, da lui diretto nel 2009. Un approccio più conservativo si potrebbe dire, imitato anche da altre grandi personalità del settore come Steven Soderbergh, regista di entrambe le stagioni di The Knick (2014-2015); o Cary Fukunaga, che ha diretto la prima acclamata stagione di True Detective (2014).

Ciò che tenta di fare Refn, con Too Old to Die Young, è di porsi nel difficile terreno dello showrunner, una figura che coordina e sovraintende tutto l’apparato celato dietro alla scrittura dei nuovi episodi ed alla successiva realizzazione pratica.

Un ruolo che non sempre coinvolge in prima battuta la sceneggiatura o la regia di un prodotto, generando una posizione inedita per i cineasti più ortodossi: più gestionale che non esecutiva.

Non è il caso di Nicolas Winding Refn, che assieme al fumettista statunitense Ed Brubaker (Batman e Captain America sono soltanto due dei numerosi titoli che vantano una sua firma) crea la propria prima miniserie, contribuendo anche sul piano della sceneggiatura e figurando come regista unico. Un prodotto spalmato lungo dieci puntate di varia durata (si oscilla tra 31 e 97 minuti), capace di mostrare la chiara volontà di mettersi in gioco per dare vita, già dal minutaggio estroso, ad un qualcosa di decisamente originale. Le vicende si sviluppano perlopiù attorno alla città di Los Angeles, fatta eccezione per qualche escursione oltre confine in Messico. È un mondo difficile quello che viene proposto allo spettatore e risulta chiaro, fin da subito, come il protagonista Martin Jones (interpretato da un ottimo Miles Teller) sia una figura complessa da decifrare, capace di innescare sentimenti contrastanti. Parliamo di un agente di polizia complice, dal minuto zero, dei ricatti a sfondo sessuale mossi da un collega nei confronti di una povera malcapitata.

E le cose non migliorano col passare dei minuti, con Martin che, per fare luce sull’omicidio del citato collega, decide di rivolgersi a Damian (Babs Olusanmokun, recentemente visto in Dune di Denis Villeneuve), un importante boss locale, anziché seguire il normale iter procedurale che egli stesso dovrebbe promuovere in quanto tutore della legge.

È un mondo marcio, malato e senza possibile redenzione quello affrescato da Refn, che non lesina colpi bassi anche al resto del corpo di polizia raffigurato, in maniera iperbolica e grottesca, come un covo di rozzi fascisti incapaci di fornire un concreto sostegno alla società.

Tanto che, in seguito, Martin deciderà di sposare la “missione” di Viggo Larsen (John Hawkes), un ex agente federale che giustizia i colpevoli di pedofilia seguendo le indicazioni di Diana DeYoung (Jena Malone), figura professionale posta a sostegno delle vittime di tali atroci atti.

Il principale antagonista di Martin in questo viaggio tra varie cornici infernali che, comunque, non lo purificano mai del tutto da una condotta morale deplorevole, è il criminale Jesus Rojas (Augusto Aguilera): rifugiatosi momentaneamente in Messico dopo aver ucciso il collega di Martin, tornerà sul suolo americano per regolare alcune questioni e vendicare la dipartita della madre (precedente agli eventi narrati dalla serie).

Nel corso delle puntate, Jesus verrà affiancato dalla misteriosa Yaritza (Cristina Rodlo), una figura dal passato ignoto e capace di mostrare poteri da medium. Più in generale, l’aria di ineluttabilità che circonda le sue azioni la pone in una condizione di dominio totale nei confronti dell’ambiente nel quale si muove; fattore reso manifesto anche dalla totale subordinazione sessuale che Jesus assume nei suoi confronti.

Too Old to Die Young non è una serie affine ai canali dell’intrattenimento più canonico, a partire dalla concreta difficoltà che un protagonista come quello interpretato da Miles Teller comporta in termini di allegiance con lo spettatore. La recitazione minimale e contenuta, ma capace di riservare grandi scoppi di violenza, rende Martin più una maschera che una persona, mosso quasi esclusivamente da stimoli esterni: la sua è, infatti, una figura monolitica, ieratica, quasi impermeabile al mondo.

Tale aspetto viene amplificato anche nella forma, con la serie che, quasi volesse esaltare il concetto di “montaggio proibito” tanto caro ad André Bazin, sfrutta sovente la soluzione dei long- takes, delle inquadrature allungate ben oltre la durata che il fruitore medio è abituato ad assorbire. In alcuni casi, ci si spinge fino ad arrivare nel territorio del piano sequenza: la seconda puntata ne costituisce un esempio, con un segmento narrativo di oltre dieci minuti che viene interamente gestito attraverso un’unica ripresa. La suddetta sequenza è sintomatica dell’andamento generale della macchina da presa, raramente coinvolta in rush adrenalinici: la tendenza, come si evince dal cinema più recente del regista, è quella di offrire un deciso grado di staticità e di lentezza nei movimenti, così da soffermarsi sui dettagli, sui cromatismi e sulle interazioni generate da corpi, forme, colori e oggetti. Di fatto, è lo spettatore che viene investito del compito di frazionare e ripartire le lunghe inquadrature offerte, donandogli un’importante libertà decisionale nella visione e nella scelta degli elementi da privilegiare sullo schermo.

Senza avviare un paragone con mostri sacri dello slow cinema come Béla Tarr, Apichatpong Weerasethakul o Theo Angelopoulos, si può comunque evincere il desiderio di Refn di dar vita ad una serialità diversa, con affondi decisi nel vasto campo delle arti visuali – e non solo, data la presenza del fedelissimo Cliff Martinez nel comparto sonoro, un elemento imprescindibile quando si valuta la cinematografia del regista danese. La percezione stessa del trascorrere dei minuti, mescolando tempo del racconto e tempo della storia, emerge in più di un’occasione, eliminando gran parte degli espedienti narrativi e formali che, solitamente, vengono inseriti al fine di mantenere alta l’attenzione nell’osservatore.

Tutto ciò, fa parte del gioco e del rischio che il regista sceglie di correre, anche a patto di ottenere giudizi contrastanti da pubblico e critica.

Non parliamo certo di un prodotto dal consumo immediato, da gustare durante una noiosa serata autunnale e con la testa stanca dopo innumerevoli impegni giornalieri. Too Old to Die Young è una serie che esige pazienza, attenzione e mente sgombra, anche a patto di avere una visione diluita nel tempo ed in netta controtendenza con il fenomeno del binge-watching.

Le tante ore di girato possono spaventare in questo senso, ma visto che ormai sono passati tre anni dall’uscita non c’è nemmeno motivo di farsi investire dalla frenesia di archiviare in fretta i dieci episodi proposti.

Un concept, in definitiva, capace di convergere molte energie sulla visione in sé più che sulla necessità di seguire funambolici intrecci di trama. Proprio per questo, non può che essere metabolizzato in un modo diverso da quello abituale, così da poter cogliere tutti i dettagli annidati sotto l’apparenza più superficiale.