E’ ormai risaputo il significato dell’espressione “nimby”, ovverto not in may backyard, tradotto semplicemente alla lettera “non nel mio giardino”. Comodo alibi per il quale pretendendo di difendere il proprio “cortile” dai danni dell’inquinamento e dei cambiamenti climatiti, si vuole che tutto ciò che inquina, rovina, modifica avvenga al di fuori del recinto della propria area di vita. Un atteggiamento miope, ma anche sostanzialmente stupido e poco preveggente. Come i fenomeni climatici in rapido aggravamento quanto a frequenza, a potenza e ad imprevedibilità stanno dimostrando in tutto il pianeta, quello che succede in un luogo è all’origine di quello che può accadere in un altro anche molto lontano tanto da far pensare ad un’assenza di osmosi. La scienza e lo studio del clima, dei mutamenti naturali a seguito delle evoluzioni incontrollate con le quali siamo costretti a misurarci, dà sempre più forza e credibilità ad un’altra famosa espressione secondo la quale il battito d’ali di una farfalla diciamo in Europa, può essere causa di un uragano nell’Oceano Indiano. Un’iperbole, certamente, ma assai efficace. Come dimostrano molti ritrovamenti e ricerche i movimenti all’interno dei mari e degli oceani sono di tale portata e in evoluzione continua tanto da produrre variazioni e cambiamenti incrociati a distanze che secondo alcuni nmnon sarebbero accettabili. Eppure, accade. Il globo è sferico e come a dire i fenomeni hanno una valenza che viene caratterizzata anche dalla rotazione di mari e terre emerse intorno all’asse planetario. Una grande trottola dove le forze in equilibrio garantiscono stabilità, quelle che creano squilinrio al contrario possono indurre mutamenti dannosi ed incontrollabili.

Abbia detto non nel mio giardino. Due fenomeni che pensiamo possano dare una piccola misura di quanto abbiamo sottolineato riguardano il nostro mare Mediterraneo, quel mare nostrum dei romani, a livello geologico uno specchio salato che ha subito in dimensioni e in caratteristiche mutamenti accentuati nel mutare delle epoche. Ai nostri occhi, nell’ambito della nostra vita ci accorgiamo poco di quel che è stato, di quel che è e di quel che potra essere, ma le ricerche e il lavoro degli scienziati aiutano a fare chiarezza e a dare indicazioni di percorso che non è più possibile sottovalutare.

Due fenomeni, dunque, per non parlare soltanto in teoria o con belle frasi, per comprendere i cambiamenti in atto in questo grande mare interno, per millenni culla di civiltà e di sviluppo dell’umanità.
Il primo è quello posto in evidenza da uno studio condotto dall’Istituto per le risorse biologiche e le biotecnologie marine del Cnr (Cnr-Irbim) e l’Università di Bologna che ha rilevato lo stoccaggio di idrocarburi policiclici aromatici nello scheletro di Balanophyllia europaea e ha permesso di correlarlo in relazione all’età dell’animale identificando come l’accumulo in questione sia fortemente dannoso nei tessuti e nelle alghe simbionti del corallo mediterraneo della specie indicata. Lo studio è stato realizzato nell’ambito del dottorato internazionale congiunto Cnr–Unibo in “Tecnologie innovative e uso sostenibile delle risorse di pesca e biologiche del Mediterraneo” e delle attività di ricerca del Fano Marine Center - Centro di ricerca sulla biodiversità, risorse e biotecnologie marine. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science of the total environment.

“Gli idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) sono una classe di inquinanti organici derivanti dalla combustione incompleta di materiale organico e dall'uso di olio combustibile, gas, carbone e legno nella produzione di energia. Gli Ipa sono largamente presenti in mare e rappresentano un potenziale rischio per la fauna marina, visti i loro effetti tossici”. A spiegarlo Mauro Marini, ricercatore Cnr-Irbim. Il lavoro dei ricercatori ha dimostrato per la prima volta la presenza di alcuni idrocarburi, come acenaftene, fluorene, fluorantene e pirene, selezionati per la loro rilevanza ambientale, in un corallo largamente diffuso appunto nel mar Mediterraneo.

“I risultati dimostrano - aggiunge - che Balanophyllia europaea accumula questi contaminanti nel tessuto, nello scheletro e nelle alghe zooxantelle che vivono in simbiosi.. Associando i dati degli Ipa contenuti negli scheletri ai dati all’età della popolazione in esame, è stato possibile stimare la capacità di stoccaggio a lungo termine degli idrocarburi policiclici aromatici, in particolare sino a 20 anni, negli scheletri di corallo”, prosegue il ricercatore Cnr-Irbim. “Lo stoccaggio di per sé sottrae contaminanti dall'ambiente. Tuttavia, le sostanze restano tossiche per il corallo e possono avere effetti diretti sull’animale arrivando a provocarne la morte in caso di contaminazioni estreme. Queste sostanze potrebbero essere di nuovo rilasciate nell'ambiente al momento della degradazione del corallo.

Inoltre, i cambiamenti climatici provocando l'acidificazione dei mari, possono causare una più veloce degradazione delle strutture coralline e quindi un più rapido rilascio nell'ambiente di queste sostanze contaminanti. Questa prima indagine è il punto di partenza per studi futuri nel bacino mediterraneo. Valutare i livelli e le fonti di questi inquinanti diffusi e dannosi è infatti di cruciale importanza per stimare i rischi per gli organismi marini”.

Conclusioni sconfortanti se le uniamo all’allarme rosso che riguarda la salute delle barriere coralline in tutti il mondo. Autentici monumemti della natura per la loro bellezza e per l’incredibile storia che è dietro alla loro formazione. Un patrimonio in pericolo che l’inquinamento dei mari sta rendendo quasi irreversibile e che per molti dei luoghi più spettacolari della Terra, ai quattro angoli del pianeta, potrebbero essere causa di distruzione e di scomparsa insieme con le barriere di veri e propri ambienti, di flora e fauna sopra e sotto il livello del mare.

Accanto a questo preoccupante fenomeno, solo una piccola parte dei danni in corso in tutto il mondo, esistono anche altri fenomeni che indicano i forti mutamenti in atto. In questo secondo caso sempre indicando qualcosa di concretamente accertabile, la scienza ci dice che per oltre 150 anni, le specie ittiche indo-pacifiche hanno colonizzato il Mediterraneo entrando dal Canale di Suez. Una ricerca coordinata dal Cnr-Irbim indica ora la possibilità che il fenomeno si estenda verso l’Oceano Atlantico a causa dei cambiamenti climatici. Il lavoro in questione è stato recentemente pubblicato su Frontiers in Ecology and the Environment.

Qui siamo dinanzi ad un fenomeno che esso stesso nasce con “l’apertura del canale di Suez nel 1896 che ristabiliva un contatto tra il Mar Rosso e il Mediterraneo (esistente in epoche geologiche), permettendo a centinaia di specie esotiche, tra cui più di cento pesci tropicali di penetrare e invadere il mare nostrum”, come spiega Ernesto Azzurro del Cnr-Irbim di Ancona, autore dello studio.

“Questo fenomeno- osserva - spesso indicato con il termine di migrazione lessepsiana, in omaggio all’ingegnere francese Ferdinand de Lesseps che realizzò il Canale di Suez, ha cambiato per sempre la storia del Mediterraneo, con rilevanti impatti ecologici e socioeconomici”. Lo studio supportato da un set di modelli di distribuzione e testato su dieci specie ittiche, illustra la possibilità di una migrazione lessepsiana estesa che implicherebbe la riconnessione degli oceani Indo-Pacifico e Atlantico, separati da milioni di anni. Alcune specie del Mar Rosso come il pesce palla maculato “Lagocephalus sceleratus”, il pesce flauto “Fistularia commersonii” e la sardina di Golani “Etrumeus golanii”, sono state già segnalate in prossimità dello stretto di Gibilterra, alle porte dell’Atlantico, indicando con ciò quanto sta accadendo e che non era stao mai accertato e studiato. “Non si tratta di un ritorno alla Tetide, il grande oceano marino che circondava le terre emerse milioni di anni fa, ma di uno scenario di omogenizzazione biotica dalle conseguenze difficilmente prevedibili”, conclude Manuela D’Amen dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale Roma (Ispra). “L’emissione di gas serra in atmosfera sta spingendo il nostro pianeta verso delle soglie critiche e questo studio ribadisce la necessità di accelerare l’attuazione di politiche climatiche, come concordato alla scorsa COP 26 e come sostenuto dalla comunità scientifica internazionale”.

Ancora, su questo tema, con centinaia di specie esotiche, il Mar Mediterraneo viene oggi riconosciuto come la regione marina più invasa al mondo. E anche questo è frutto di una ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista Global Change Biology e coordinata dall’Istituto per le risorse biologiche e biotecnologie marine (Cnr-Irbim) di Ancona, che ricostruisce la storia per le specie ittiche introdotte a partire dal 1896. “Lo studio dimostra come il fenomeno abbia avuto un’importante accelerazione a partire dagli anni ’90 e come le invasioni più recenti siano capaci delle più rapide e spettacolari espansioni geografiche”, spiega Ernesto Azzurro del Cnr-Irbim e coordinatore della ricerca. “Da oltre un secolo, ricercatori e ricercatrici di tutti i paesi mediterranei hanno documentato nella letteratura scientifica questo fenomeno, identificando oltre 200 nuove specie ittiche e segnalando le loro catture e la loro progressiva espansione. Grazie alla revisione di centinaia di questi articoli e alla georeferenziazione di migliaia di osservazioni, abbiamo potuto ricostruire la progressiva invasione nel Mediterraneo”. Tale processo ha cambiato per sempre la storia del nostro mare. Sono due le porte di ingresso di questa colonizzazione sottolinea la ricerca: “Le specie del Mar Rosso, entrate dal canale di Suez (inaugurato nel 1869), sono le più rappresentate e problematiche. Ci sono, tuttavia, altri importanti vettori come il trasporto navale ed il rilascio da acquari. I ricercatori hanno considerato anche la provenienza atlantica tramite lo stretto di Gibilterra”. Che cosa sta accadendo con l’intensificarsi di questo mutamento, di questa invasione? Per i ricercatori, alcune specie costituiscono nuove risorse per la pesca, ben adattate a climi tropicali e già utilizzate nei settori più orientali del Mediterraneo. Allos tesso tempo però, molti ‘invasori’ provocano il deterioramento degli habitat naturali, riducendo drasticamente la biodiversità locale ed entrando in competizione con specie native, endemiche e più vulnerabili. Il ritmo della colonizzazione è così rapido da aver già cambiato l’identità faunistica del nostro mare; pertanto ricostruire la storia del fenomeno permette di capire meglio la trasformazione in atto e fornisce un esempio emblematico di globalizzazione biotica negli ambienti marini dell’intero pianeta”.

Fenomeni specifici, mutamenti in atto e con la capacità di cambiare per sempre il volto di mari e terre che conosciamo. Pensare che l’azione dell’uomo, la dispersione se non lo sversamento degli idrocarburi o il loro naturale depositarsi nelle acque a causa del traffico navale, da un lato, e dall’altro il dato umano dell’apertura di Suez e di quello che ha provocato e che ora sta dando nuovi elementi di studio per la sua estensione in direzione atlantica, sono altrettanti efficaci e semplici dati che spiegano più di ogni altro ragionamento come pensare di salvare il proprio “backyard” sia non solo impossibile e stupido, ma anche insensato perché all’origine spesso di chiusure e di volontà negative nella adozione e realizzazione comune, mondiale, di programmi di contenimento dei cambiamenti climatici e del loro bagaglio di danni ireversibili. Programmi che sono sempre più urgenti proprio in senso inversamente proporzionale alle suddetta resistenze!