Una bimba fantasma, morta nel silenzio di una casa vuota, mentre chi doveva vegliare su di lei e sul suo futuro ne cancellava tracce e ricordo; un uomo normale che uccide a mani nude e pugni e randellate un altro essere umano, colpevole forse solo d'avere la pelle di un colore diverso, mentre intorno, piuttosto che fermarlo, era tutto un clic di video e fiume di commenti e gridolini, come in uno spettacolo di musica pop; un anziano che, uscito come suo solito in piena notte, per percorrere un isolato sentiero di campagna, che cade e si spegne lentamente, per lunghi giorni, senza che nessuno ne senta le grida di dolore, quasi che chi lo conosceva non si sia reso conto o preoccupato della sua assenza, quasi che essa potesse rompere la loro tranquilla quotidianità.

In che Paese viviamo, verrebbe da dire, o forse sarebbe più corretto chiedersi se è questa l'Italia vera e che quindi noi tutti viviamo in una finzione continua, in cui ci disegniamo una realtà che non esiste, quella di consolidati legami di solidarietà, di ricerca del bene comune, della forza che ci danno rispetto e solidarietà.

Non è questo il mondo vero, però perché ciascuna delle tre vicende appena ricordate sono tutte convergenti in un solo solco: quello che ci dice che la nostra società, per come l'abbiamo costruita o abbiamo colpevolmente consentito che essa si evolvesse, è un continuo rincorrere valori personali e non quelli assoluti che dovrebbero presiedere ad un mondo in cui i valori principali siano condivisi e non invece contraddistinguano l'attività e la convenienza dei singoli.

Chi ha cuore, davanti al dramma di Diana, ha pianto, manifestamente o no, ma lo schiaffo virtuale che tutti abbiamo subito - tutti coloro che hanno il senso dell'amore - è stato forte quando una donna (la madre dell'assassina, la nonna della piccola vittima) ha ceduto alla spettacolarità del momento innalzando l'unica fotografia che aveva della nipote, ergendosi a difenditrice del suo ricordo.

Ma possibile che nessuno abbia colto l'ipocrisia di quel gesto, da parte di una donna che, al contrario del topos delle nonne e dei nonni, non chiedeva della nipote, non si faceva mandare delle foto, non si informava se, per i suoi sedici mesi, la bimba crescesse bene.

Si è ricordata di lei solo quando ha saputo che è morta o si era arresa all'aridità morale della figlia? Il nostro giudizio ce lo siamo fatti e non è salvifico del presente, mettendo da parte urli di dolore e lacrime.

E vorremmo che il Paese che politicamente sta per nascere o confermarsi, dopo la scriteriata chiusura dell'esperienza di governo di Mario Draghi, non abbia più a interrogarsi non per la fine di Alika, l'ambulante immigrato nigeriano, persona mite e che, tra mille difficoltà sosteneva la sua famiglia (la moglie, il figlioletto di otto anni e una bimba di dieci che aveva accolto a casa per sottrarla a un destino di privazioni e pericoli), ma sulla fiera del disinteresse che ha assistito alla sua morte. Pensando di prendere lo smartphone per filmare, senza perdere tempo per fermare la furia di un altro uomo, e non chiedere l'intervento delle forze dell'ordine.

Verrebbe da interrogarsi, ad essere perfidi, se questo distacco si sarebbe manifestato se l'aggressore fosse stato di colore e l'aggredito un bianco. Ma questo ci porta in una dimensione di stereotipi in cui è sempre pericoloso cadere, perché si rischia di perpetuare schemi che dovrebbero essere alieni ad una società moderna, in cui a presiedere le azioni quotidiane devono/potrebbero essere la mano tesa, non per colpire se stretta a pugno, ma per stringerne un'altra. La fine dell'ambulante nigeriano (due ''categorie'' che forse, lo diciamo estremizzando il pensiero, ne hanno probabilmente agevolato la fine violenta) dovrebbe suonare a monito per tutti, a cominciare da chi si candida a guidare il Paese, quale che siano ideologie o colori.

È però difficile sradicare un comune intendere i rapporti, e lo diciamo senza volere dare lezioni di moralismo abbastanza scontate. Sono concetti che, quotidianamente, da un piccolo Stato nel cuore di Roma, un uomo vestito di bianco ripete e cerca di trasmettere, nella consapevolezza che occorre una rivoluzione delle anime, prima che politica.

Ma una società che è sorda al dolore degli altri, magari del vicino di casa, per cambiare non deve alimentarsi di episodi che scatenano l'esecrazione. Eppure, davanti ad accadimenti che dovrebbero scatenare reazioni, la coltre dell'assuefazione copre tutto. Come la fine di un uomo di 83 anni, morto per le conseguenze di una banale caduta, mentre stava percorrendo il sentiero che lo avrebbe dovuto portare in paese per ritirare la pensione.

È rimasto lì, in una stradina che forse era il solo a percorrere, abitando in un luogo isolato. Lo hanno trovato dopo due settimane, senza che nessuno ne avvertisse la sparizione, lui inghiottito in un meccanismo che si pensa solo delle grandi città e che invece accade anche nelle piccole comunità dove tutti dovrebbero conoscersi, frequentarsi, essere amici.

Lui, che viveva da solo, da solo è morto. Quel che restava di lui - il cadavere è rimasto esposto alle temperature canicolari di questo periodo per almeno due settimane - è stato trovato dal suo proprietario di casa, che, tornando dalle vacanze, era andato a salutarlo. E gli altri?