Quanti si chiedono perché l’Italia debba importare grano dall’estero hanno ben ragione di farlo. Soprattutto durante le cosiddette emergenze di questi ultimi anni, climatiche, sanitarie e belliche, fiumi di inchiostro riportano spesso gli stessi allarmismi che tanto catturano e manipolano il pubblico italiano ed europeo, in quanto poche sono le voci che escono dal coro nella stampa e nella comunicazione. “Ci sarà una scarsità di materie prime, soprattutto alimentari nel prossimo autunno”, o solo qualche mese fa: “Cominceranno i razionamenti dei beni primari come olio, pasta, farina…” con dati alla mano naturalmente!

Ma leggiamoli meglio questi dati, facendo una riflessione sui motivi per cui l’Italia debba importare addirittura il 40% del grano duro e 50% del grano tenero che ci necessita. Stiamo parlando di circa 8 milioni di tonnellate di grano quando ne servirebbero almeno 16 milioni. Prima di tutto il nostro Paese è storicamente un produttore di pasta, non c’è dubbio, ed è un prezioso ambito che sicuramente va mantenuto e tutelato. Qualche numero preciso sul giro d’affari della pasta lo troviamo in un recente articolo del Sole 24 Ore: “In Italia lavorano nel settore oltre 120 imprese che impiegano 10.200 addetti per un giro d’affari di 5,6 miliardi di euro. Più della metà della produzione italiana (il 62% ovvero 2,4 milioni di tonnellate) finisce all’estero”. Un vero e proprio business. Pensate che da una indagine di mercato risulta che sui nostri scaffali vengono proposti ben 300 tipi di pasta.

Ma dove si esporta prevalentemente la pasta italiana? I tre mercati più importanti per le nostre aziende di pastai sono Germania, Francia e Regno Unito, con circa un miliardo di piatti di pasta serviti all’anno e un controvalore di quasi un miliardo di euro, seguono gli Stati Uniti e il Giappone. L’associazione Pastai Italiani ci dice che in Italia negli ultimi 16 anni, in media, produciamo 4,3 milioni di tonnellate di grano duro all’anno, e un piatto di pasta nel mondo su quattro viene prodotto in Italia. Cerchiamo di capire se il fabbisogno italiano di pasta viene coperto dalla nostra produzione interna di grano. Guardiamo allora il consumo medio di pasta in Italia. Secondo i dati resi noti dall’Unione Italiana Food ogni italiano consuma oltre 23 kg all’anno di pasta. Seguono Tunisia, 17 kg, Venezuela, 15 kg e Grecia, 12,2 kg. E udite udite: “Il consumo di pasta negli ultimi 10 anni è quasi raddoppiato, passando da 9 a circa 17 milioni di tonnellate annue”. Nonostante questo, il fabbisogno interno di pasta di grano duro è sopperito dalla produzione interna, resta fuori la pasta che esportiamo.

Dato che l’83% degli italiani mangia giornalmente la pasta, ed il nostro Paese è al primo posto nei consumi procapite, questo divario con il consumo di altri alimenti non verrà mai colmato, a discapito di molti settori produttivi alimentari: riso, farro, orzo, avena, grano saraceno, miglio, amaranto. In questi ultimi mesi l’allarme grano Ucraina ha complicato ancora di più il gioco dei mercati dei beni primari, la comunicazione arriva a destabilizzare un qualsiasi lettore resistente alla assidua stampa quotidiana, voce che trasmette troppo spesso notizie che si ripetono negli altri media televisione e radio.

Tentiamo di fare un po’ di chiarezza guardando quali sono i punti critici della crisi del mercato italiano della pasta e perché il nostro grano viene penalizzato in termini di prezzi o meglio viene remunerato pochissimo: “Le quotazioni del grano pugliese sono crollate del 33%, passando dai 26,7 euro al quintale del 2007 ai 18 euro al quintale delle ultime settimane” dice una nota di Coldiretti del giugno 2022. Infatti, questi prezzi non li fa il classico meccanismo economico: il rapporto domanda-offerta (così ci insegnavano all’università i docenti di economia agraria), bensì i meccanismi di selvaggia speculazione che ormai generano da diversi anni i più grandi sconquassi economici mondiali. I porti dell’Italia del Sud vengono invasi da carghi carichi di grano estero, che creano una dipendenza coatta dal sistema agricolo industriale di Canada. Guardiamo i dati Ismea, elaborati sulla base dei dati Istat, cosa dicono del grano duro e l’importazione in Italia per quanto riguarda il Canada:


China

Vi accorgete come in pochi anni sia aumentata l’importazione dal grano canadese che sappiamo benissimo come sia diverso in termini qualitativi e organolettici rispetto al grano italiano (per non parlare dei metodi di coltivazione: si utilizzano normalmente dei disseccanti chimici per poterlo portare a maturazione)1; nessuna logica spiegazione è data se non - viene da pensare - gli accordi internazionali che vanno a penalizzare gli agricoltori che non riescono più a sostenere i costi di produzione. Del prezzo di vendita di pasta di 1,85 euro al chilo all’agricoltore arrivano 0,23 euro! Oltre al Canada l’Italia importa da Grecia, Usa, Francia e Kazakistan rispettivamente per l’8% il 7%, il 7% e il 3%, dati del 2021 Ismea. E poi ricordiamo che incidono in maniera marginale le importazioni da Ucraina e Russia che esportano in Egitto, Tunisia, Turchia, alcuni Paesi asiatici e africani.

La complessa situazione globale era stata già compromessa da guerre imperialiste che esulano dagli interessi dei produttori locali senza alcun potere sul mercato, che invece subiscono da decenni le fluttuazioni dei prezzi causati da accordi sovranazionali, assimilabili al gioco finanziario del denaro. Per di più dobbiamo anche sentire le opinioni più contrastanti di economisti del settore agricolo che se la prendono addirittura con la diversificazione colturale che si è andata costruendo in Italia attraverso gli incentivi e i sostegni europei. A questo proposito uno studio approfondito pubblicato da CREA (Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria) in collaborazione con la Rete di Informazione Contabile Agricola (RICA), sull’andamento delle aziende agricole italiane del triennio 2016-2019 ci dice che: “Le aziende di piccole dimensioni mostrano una maggiore tenuta in termini di ricavi ma aumentano però i costi di produzione per tutte le dimensioni aziendali e si riducono quindi i margini per gli agricoltori, sia in termini di valore aggiunto che di reddito netto”.2

Sulla formazione del valore agricolo hanno inciso prevalentemente le coltivazioni (cereali, ortaggi e fiori, altri seminativi, vite, olivo, altri fruttiferi), che con circa 27.500 milioni di euro rappresentano il 51,46% del totale. Seguono gli allevamenti (erbivori, granivori, altri allevamenti) con il 28,47% e le attività di supporto con il 12,22%, a cui vanno aggiunte le attività secondarie realizzate al di fuori del settore agricolo.

Forse è proprio il contrario se producessimo prevalentemente grano duro e tenero ecco che saremmo i perfetti sudditi dei nuovi padroni del comparto alimentare mondiale. Nell’arco di 10 anni (2010-2020) la produzione di grano tenero in termini di ettari coltivati è aumentata di 0,9 punti percentuali (sulle superfici totali a cereali) mentre di grano duro del 4,6. Cambiando le nostre abitudini alimentari come sostengono grandi nutrizionisti e studiosi della alimentazione come vera e propria terapia, cito uno tra i più noti Franco Berrino3, introducendo come lui sostiene un cereale diverso (o pseudo cereale) ogni giorno nella nostra dieta (ad esempio, grano, orzo, riso, miglio, grano saraceno, avena, amaranto, mais, soprattutto integrali, oltre a legumi, verdura e frutta) avremmo sicuramente una riduzione delle malattie cardiovascolari e croniche, una autosufficienza delle produzioni cerealicole e saremmo tutti più sani, a giovamento dell’agricoltura che vedrebbe molte più colture con un aumento della biodiversità e una spinta verso l’autosufficienza del nostro Paese.

Note

1 Come afferma Nicola De Vita, mugnaio di Mulino De Vita a Castelnovo Monterotaro (Fo), mulino da cui si serve il notissimo Pastificio Di Martino: “Il grano va inteso, sentito, odorato; deve trasmettere vibrazioni, dobbiamo percepire che è un frutto dalla terra. E su questo incidono moltissimo il metodo di coltivazione, i trasporti e le tecniche di conservazione. L’uso smodato di prodotti chimici, come ad esempio il glifosato in Canada per “asciugare” il grano prima della raccolta, trasporti di migliaia di chilometri e lunghi stoccaggi se non in condizioni perfette rischiano di compromettere la qualità”.
2 CREA, le aziende agricole in Italia. Risultati economici e produttivi, caratteristiche strutturali, sociali ed ambientali, Rapporto RICA 2021, periodo 2016-2019, Roma. Per ulteriori approfondimenti sul settore produttivo agricolo in Italia, se ne consiglia la lettura, il file è scaricabile in rete.
3 Franco Berrino, Il cibo dell'uomo. La via della salute tra conoscenza scientifica e antiche saggezze, Franco Angeli, Milano 2016.