Nel 1819 Francisco Goya, all’età di 76 anni, compra una villa vicino Madrid conosciuta come Quinta del Sordo per viverci con Leocadia Zorrilla, di quarantacinque anni più giovane. Tra il 1821 e il 1823 il maestro esegue quattordici dipinti a olio, direttamente sull’intonaco di gesso in due sale della villa. Per i toni particolarmente scuri esse sono chiamate ‘pitture nere’.

I temi delle pitture nere sono inquietanti:

Le pitture murali si trasformano in un universo dell’orrore, oscuro ed enigmatico, che sembra avere come solo protagonisti la malvagità, la brutalità più cieca, il terrore superstizioso, l’ignoranza e la morte.1

Uno dei dipinti più violenti è il Saturno che divora i propri figli: un gigante vecchio, nudo ossuto, con gli occhi dilatati e il volto stravolto dal furore e dalla pazzia, strappa con la bocca sanguinolente il braccio di una giovane donna, a cui ha già staccato la testa.

Tzvetan Todorov, commentando le pitture nere, osserva:

Da decenni ormai, Goya ha rimosso le barriere che trattenevano i suoi demoni nell’inconscio e ha lasciato che invadessero le sue immagini. L’aveva capito: ciò che la chiesa o le superstizioni popolari trattano come diavolesse e diavoli sono soltanto desideri e pulsioni, paure e angosce profondamente nascoste in ciascuno di noi.2.

Goya aveva già trattato il tema dell’orrore scatenato dalle passioni umane nel 1799 con le stampe dei Capricci, e tra il 1810 e il 1820 con quelle dei Disastri della Guerra. Dovunque, le nefandezze prodotte da una umanità che, lasciando correre senza briglie le proprie passioni, trasforma il mondo in un incubo.

Per Goya, alla ragione spetta il compito trattenere e moderare i demoni dell’inconscio, impedir loro di generare pazzia, violenza, morte e distruzione. Un’idea illuministica riassunta in modo esemplare in una immagine dei Capricci, che mostra un giovane addormentato assalito da animali notturni: pipistrelli, gufi, iene. Il titolo dell’immagine è El suegño de la razon produce monstruos, il sonno della ragione genera mostri.

L’idea di assegnare alla ragione il compito di dominare gli istinti umani, di organizzare la società e di sottomettere le forze della natura attraversa il pensiero occidentale per tutto l’Ottocento e per buona parte del Novecento, sostenuta dalla convinzione che la ragione sia la parte migliore della natura umana.

Una illusione. La ragione mostrerà in modo inconfutabile di quali abissi di crudeltà sia capace quando, emancipata da ogni vincolo etico, si farà strumento docile e solerte del progetto di sterminio dell’Olocausto. L’Olocausto, afferma Zygmut Bauman, è figlio naturale della modernità che assegna alla ragione e alla ‘cultura burocratica’ la guida dell’azione collettiva:

Fu lo spirito della razionalità strumentale e della sua moderna, burocratica forma di istituzionalizzazione a rendere le soluzioni che rispondono alla logica dell’Olocausto non solo possibili, ma fondamentalmente ‘ragionevoli’, aumentando così la probabilità che venissero prescelte. Tale aumento di probabilità è collegato non solo causalmente alla capacità della capacità della burocrazia moderna di coordinare l’azione di un gran numero di individui dotati di principi morali nel perseguimento di qualsiasi scopo, anche di uno scopo immorale3.

Solerti funzionari, seduti comodamente alle proprie scrivanie, organizzano lo sterminio di un popolo, rispondendo al telefono, stilando gli orari dei treni, ottimizzando la dimensione delle camere a gas, calcolando la produttività giornaliera di cadaveri, come amministratori di una grande fabbrica che, al posto di automobili, produce morte. Nell’organizzazione meticolosa dell’Olocausto, la ragione, isolata da ogni interferenza emotiva ed eticamente cieca, fa quello che sa fare meglio: analizzare, misurare, calcolare, ordinare, spezzettare, raccordare, adeguare i mezzi ai fini, con precisione, rapidità, efficienza, sicurezza, prevedibilità. Il pensiero razionale sminuzza il processo di sterminio in innocue azioni individuali, in burocratiche applicazioni di normative, predisposizione di liste, catalogazione di beni e persone, redazione di procedure di controllo. La ragione riesce così a generare una metamorfosi straordinaria: trasforma un omicidio di massa nell’asettica organizzazione di un sistema di produzione, in cui uomini di buona volontà possono essere reclutati come inintenzionali e volenterosi carnefici.

Non a caso Eichmann, uno dei principali artefici dello sterminio degli ebrei, si difende nel processo subito in Israele nel 1961 rifiutando ogni responsabilità sui fini e attribuendosi solo il ruolo di efficiente esecutore di compiti:

C’era da organizzare i treni, riempire le liste, parlare con gli industriali. Stavo in quell’ufficio dal mattino fino a notte fonda. Sette giorni su sette4.

Ha ragione Roland Barthes: non v’è nulla di più inquietante in certi casi del volto liscio e disteso della ragione5. L’Olocausto è la dimostrazione definitiva e terribile che anche la veglia della ragione genera mostri.

I demoni violenti e urlanti evocati da Goya e quelli, ugualmente violenti, ma operosi e silenziosi, della ragione, secondo il filosofo Edgar Morin, sono il risultato estremo della cesura tra affettività e razionalità operata dal pensiero occidentale. Una cesura che è parte di un più ampio paradigma conoscitivo, che separa qualità/quantità, anima/corpo, spirito/materia, sentimento/ragione, mente/corpo, uomo/natura. Un pensiero duale, formulato dall’Occidente nel XVII secolo, sistematizzato da Cartesio, e imposto con una strategia imperialistica a buona parte del mondo. Un paradigma incapace di comprendere la realtà complessa e molteplice dell’umano, la sua natura multidimensionale ed ecologica.

Il paradigma cartesiano disgiunge il soggetto e l’oggetto, ciascuno nella propria sfera: da una parte, la filosofia e la ricerca riflessiva; dall’altra, la scienza e la ricerca oggettiva6.

Non è indispensabile spingersi a considerare gli estremi della pazzia saturnina e gli orrori dell’Olocausto per imbattersi nei guasti del pensiero duale. È sufficiente osservare l’impaccio con cui le tecnocrazie pubbliche e private affrontano le sfide globali del nostro tempo – la diseguaglianza sociale, il riscaldamento globale, la crisi energetica, la siccità, la fame - per rendersi conto della difficoltà a concepire l’umanità come parte di una comune ecologia, di una natura umana come impasto di tensioni distruttive e costruttive.

La ragione balbetta perché il pensiero duale l’ha posta fuori dalla natura, ad inseguire il sogno prometeico di dominio degli istinti dell’uomo e delle leggi della natura. Compito impossibile all’interno del paradigma duale che pone la ragione in una dimensione astratta, emancipandola dai vincoli materiali delle passioni umane e dell’ecologia del vivente.

Al contrario, per affrontare le sfide globali, è necessario una razionalità in grado di connettersi con ciò che il pensiero duale ha disgiunto. Afferma Morin:

Un razionalismo che ignora gli esseri, la soggettività, l’affettività, la vita, è irrazionale. La razionalità deve riconoscere l’importanza dell’affetto, dell’amore, del pentimento. La vera razionalità conosce i limiti della logica, del determinismo, del meccanicismo; sa che la mente umana non potrebbe essere onnisciente, che la realtà comporta mistero. Negozia con l’irrazionalizzato, con l’oscuro, con l’irrazionalizzabile. Non solo è critica, è autocritica. Si riconosce la vera razionalità dalla capacità di riconoscere le sue insufficienze7.

Non sarà facile sviluppare la nuova razionalità auspicata da Morin, né a livello individuale né a livello collettivo. E, tuttavia, bisogna insistere, provarci, sperimentare. Testardamente. L’alternativa, per sottrarci alla disperazione, è fare come il dott. Pangloss, il personaggio di Molière che pensava di vivere nel migliore dei mondi possibili: attendere fiduciosi che una nuova e più efficiente tecnocrazia ci venga a salvare.

Note

1 Rosanna Cioffi, La modernità di Goya, in Vittorino Andreoli (collana diretta da), Francisco Goya. Tra Genio e Follia – I grandi della Pittura, Milano, Ed. Gedi, vol. 5, p. 121.
2 Ibidem.
3 Bauman, Modernità e Olocausto, Bologna, Il Mulino, 2010, pp. 38-39.
4 La citazione, che riprende fedelmente i contenuti della tesi di difesa di Eichmann, è tratta dal lavoro teatrale di Stefano Masini, Eichmann. Dove inizia la notte, 2020 (letto in formato Kindle), in cui l’autore immagina un dialogo immaginario tra il nazista e Hannah Harendt, che assiste al dibattimento in aula come corrispondente del New Yorker. Raccoglie le proprie riflessioni nel libro del 1963, Eichmann in Jerusalem - A Report on the Banality of Evil (in italiano, La banalità del male).
5 Parafrasi di una affermazione di Roland Barthes, riportata da Jacques Proust in Il "Recueil de Planches" dell’Encyclopédie, in Il Mestiere di sapere. Tutte le tavole dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert, Milano, Arnoldo Mondadori editore, 1983, p. 17.
6 Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina Editore, p. 25-26.
7 Idem, p. 22.