Ciò che è più esposto in evidenza, meno si vede.

(Umberto Eco, Il Pendolo di Focault)

Il nesso tra Impero e spiritualità imperiale medioevale e il tema immenso del Graal è stato già più volte indagato e sviscerato da molti studiosi ed esperti. Tra le innumerevoli opere ricordo la sintetica ma suggestiva opera di Marco Polìa Il mistero imperiale del Graal oltre alla sintesi morfologico-funzionale del Mistero del Graal dell’esoterista Julius Evola, che pur non esaurisce tutta la plurima fenomenologia del Graal.

Eppure, in tutte le trattazioni italiane che riguardano queste dimensioni emergono spesso due limiti ermeneutici: o il Graal viene come “dematerializzato” e quindi trattato come fosse un’astrazione ideale o culturale, o un mero schema archetipico formale, oppure si risolve tutto il tema della sua genesi con generici riferimenti all’immaginario celtico dell’oltretomba.

Al contrario l’indagine si appiattisce in senso opposto sulle reliquie medioevali del sangue di Cristo, tutt’ora esistenti in varie chiese o cattedrali, come si trattasse appunto di una reliquia tra le altre, senza altri connotati specifici e speciali. L’indagine graalica quindi sconta due, tra le molte, deviazioni metodologiche, spesso quasi inconsce: da una parte viene ridotto a concetto, dall’altra a mera forma o oggetto mentre invece la sua speciale e unica natura ci appare, da una lettura completa e analitica di tutti i principali sei romanzi graalici medioevali, primigeni, come una res sia mistica che concreta, sia teofanica e viva che avvicinabile corporalmente e apprendibile, per chi ne è degno, sia il massimo tesoro del Sacro Romano Impero che il massimo tesoro dell’intera Cristianità di ogni tempo.

Il Graal è l’unica “reliquia” di Cristo che appare metamorfica, viva, autonoma nei suoi movimenti e nelle sue manifestazioni, dotata cioè della medesima natura del corpo glorioso del Cristo risorto, che è un corpo umano perfetto ma è anche per sempre divinizzato nella Resurrezione libero ormai dai vincoli dello spazio, del tempo e della materia.

Il Graal sembra possedere una triplice sacralità unica: data dalla nobiltà del suo materiale quale contenitore-vassoio, dalla dal contatto con il Cristo nella cena pasquale dove sorge la Nuova Alleanza teandrica e dal suo uso rituale cristico e infine conferita definitivamente ancor di più dal suo ruolo definitivo e invincibile di recipiente di una grande quantità del santo sangue risorto del Risorto. Il Graal, quindi, non va né ridotto ad allegoria o semplice discorso culturale, né confuso con la storia della sua ricezione culturale né confuso con le altre pur preziose reliquie del Sangue di Cristo. Possiede uno status tutto suo: edenico, fondativo, cosmico, ma in quanto siamo in presenza della più diretta e intima e importante cristofania per ogni tempo umano.

Possiamo dire coerentemente e senza esagerazione che è il Graal che ispira e forma il Sacro Romano Impero, da Costantino agli Asburgo, non il contrario. Lo stesso “secolo del Graal” quale romanzo medioevale, è un secolo che non casualmente inizia poco prima della prima Crociata e del sorgere dei Templari e si conclude a livello epico e simbolico con la morte dell’imperatore Federico II Hohenstaufen. Ma le tracce del Graal continuano tra gli Asburgo. Ciò che è mancato agli studiosi accademici è stato in primo luogo un prendere sul serio il Graal, senza ridurlo solo ad un fenomeno solo letterario quanto è mancato agli studiosi non accademici il considerare più attentamente il corpus letterario del Graal quale corpus di racconto cristiano e cavalleresco. Gli accademici non hanno indagato la semantica dei romanzi graalici e i non accademici hanno dimenticato il nucleo cristiano di tali romanzi dai quali per la prima volta abbiamo appreso esistesse un Graal!

Eppure tutti i principali romanzieri conosciuti (Chretien de Troyes, Wolfram Von Eschenbach, Robert de Boron) e anche i romanzi graalici anonimi principali (il Perlesvaus, la Storia del santo Graal e la Cerca del santo Graal) chiaramente connettono il nostro prezioso vassoio o con l’eucarestia di Cristo o con il suo sangue o con una stirpe sacra che parte da Salomone e tramite Giuseppe d’Arimatea diventa cristiana fino a giungere al cavaliere cristiano e graalico perfetto: Galaad, figlio di Lancillotto, con cui si concludono le manifestazioni del Graal fra i cavalieri. Solo a Galaad è concesso dal Cielo il privilegio unico di guardare dentro il Graal e le sue estatiche parole saranno il tentativo nobile di “esprimere l’inesprimibile” in quanto racconta il Graal, dopo averlo contemplato intimamente, come l’inizio e il compimento di ogni impresa, la sorgente di ogni ardimento.

Il Graal, come Cristo, è così completo, centrale e polarizzante, bastante a se stesso, che Galaad usa un linguaggio scritturale e apocalittico per accennarne: alfa e omega. Il Graal quale fonte della milizia mistica e di ogni reale eroismo. Le gravi e lunghe distrazioni degli studiosi sulla preziosità e profondità dei romanzi graalici e del Graal quale dimensione-oggetto spirituale e mistico-teofanico sono facilmente dimostrabili anche a livello iconografico. Nessuno ha studiato adeguatamente certe opere d’arte a livello graalico pur essendo chiaramente rinvianti al tema del “vassoio sacro” e pur essendo il Graal quale oggetto proprio un vassoio.

Il solenne e prezioso recipiente mostrato dall’imperatore Giustiniano in San Vitale a Ravenna, ad esempio, i recipienti sacri dei Re Magi in Sant’Apollinare Nuovo, e alcune miniature medioevali di tema imperiale mostrano tutte lo stesso preciso scenario graalico: un contenitore prezioso appare di importanza centrale all’interno di un corteo imperiale. Possibile non vederci il medesimo contesto del Graal dei romanzi? Eppure le concordanze sono molteplici: un contesto cavalleresco-imperiale; la preziosità e sacralità di un recipiente per i cibi; la connessione con la Cristianità e le sue ritualità. Il Graal quale fonte della legittimità di una sovranità regale universale, mistica e concreta nel contempo.

Non c’è Graal senza tale contesto di cui tutti i romanzi medioevali parlano: una ristretta confraternita di cavalieri mistici e casti (non politico-mondani, quindi) che in segreto si tramandano una “tradizione iniziatica” del Graal che unisce nobiltà di sangue con nobiltà di elezione divina e spirituale. Non solo custodia quindi ma anche rito e servizio. Nulla di celtico o orientale è paragonabile a questi connotati. Nessun’altra cultura antica mostra una simile precisa ritualità cavalleresca attorno ad un vassoio sacro. E si tratta di una cavalleria errante, che sintetizza l’istituzione romana con la libertà germanica e l’investitura cristiana. Tutti i romanzi sono chiari nell’indicare come questi “cavalieri del Graal” seguano un loro codice preciso di comportamento: non dormono più di una notte nel medesimo castello o convento che li ospita, si muovono a cavallo da soli, restano casti nei rapporti con le donne, non entrano mai in città ma si muovono solo tra boschi, foreste e lande isolate, disabitate.

In questo aveva ragione Julius Evola: il Graal è un mistero sì universale ma squisitamente occidentale come manifestazioni, racconto e tradizione storica, pur richiamandosi ad un originale recipiente presente in Gerusalemme al tempo di Gesù Cristo e di ignota provenienza. Torniamo ai nostri esempi di “iconografia” con evidenza graalica e al contesto graalico come emerge dai romanzi medioevali.

Torniamo a Giustiniano, il potenziatore di Ravenna quale città sacra e imperiale. Il vassoio che tiene in mano con fierezza nel mosaico absidale di San Vitale l’Imperatore di Costantinopoli è il vero protagonista di tutta l’opera e non può che essere il nostro Graal, il Graal di Cristo, il Graal che i poeti-cavalieri medioevali canteranno.

Confermano questa mia convinzione alcuni dati oggettivi e chiarissimi: il vassoio ha forma semplice e dimensioni notevoli, come si addice ad un oggetto antico e di uso nelle feste più solenni per cibarsi di pesce o agnello, quale piatto centrale da cui un gruppo di amici attinge, come nell’Ultima Cena di Cristo; il vassoio è ricoperto d’oro, come Chretien de Troyes descrive il Graal nel suo Perceval e come era usuale ricoprire le antiche reliquie, sia per proteggerle dall’usura che per glorificarne l’importanza e la santità; il vassoio è considerato dall’Imperatore così santo che lo tiene con il suo mantello per non toccarlo direttamente; il vassoio è al centro di una processione-corteo sia sacerdotale imperiale dove compare il nuovo arcivescovo di Ravenna, Massimiano, di designazione imperiale, una serie di guardie scelte, e alti dignitari della corte imperiale; il vassoio è considerato così santo che la prima figura religiosa a destra mostra un turibolo acceso, quindi il nostro sacro oggetto appare destinatario di atti rituali di venerazione personale e collettiva; inserito quindi in una precisa liturgia cavalleresco-ecclesiale; il corteo è così importante che comprende un altro religioso con in mano un prezioso evangelario ricoperto d’oro, smeraldi e perle, e sei guardie d’onore speciali, le prime tre delle quali esibiscono un prezioso collare che sembra alludere ad un loro ruolo specifico e tali guardie brandiscono delle lance (Lancia e Graal non a caso sempre in coppia!) e ostendono anche un prezioso e grande scudo con inciso il celebre chrismon di Costantino; oggetto sacro anch’esso abbellito di pietre preziose.

Il vassoio, quindi, appare al centro di una serie di oggetti sacri-reliquie di Cristo di prima importanza come fosse esso stesso il più santo di tutte. Da aggiungere infine che Giustiniano, in vita, appare già aureolato, come se la detenzione di tale vassoio lo santificasse pubblicamente in modo chiaro e certo. Lo scudo costantiniano non viene posato a terra ma sostenuto in aria in segno di alta considerazione come reliquia imperiale esso stesso, a coronamento del Graal di Giustiniano. Non è un caso che il Cristo dell’abside, a cui è rivolto tutto il corteo imperiale e anche quello della sposa Teodora (che reca invece il Calice di Cristo) come in una Messa celeste perfetta, sia un Cristo giovane e apocalittico, con in mano il rotolo dai sette sigilli e che porge una corona verso l’Imperatore custode del Graal.

Nessun altro oggetto sacro avrebbe potuto ambire ad una simile immensa considerazione che non il Graal originario e autentico quale recipiente per sempre pieno del sangue divino del Risorto. Conferma della correttezza di tale interpretazione, semplice e diretta, appare la stessa veste dell’imperatrice Teodora nella sua parte di mosaico: essa mostra nel suo orlo la raffigurazione dei tre Re Magi del mosaico di Sant’Apollinare Nuovo in Ravenna, a loro volta recanti tre Graal sacri mentre vanno ad adorare il Re dei re bambino in Betlemme.

Il mosaico imperiale ci mostra chiaramente che il tema graalico viene espresso quale tema di importanza massima e centrale. Non solo: anche la raffigurazione della fontana con acque zampillanti vicino al corteo dell’imperatrice ha senso solo quale ulteriore allusione alla presenza del Graal presso la corte imperiale ‘bizantina, anche se non sappiamo se ravennate o costantinopolitana, come pure la grande e mistica conchiglia verde che sovrasta il capo della sovrana. Se poi andiamo a vedere il mosaico dei tre Re Magi citato notiamo che ritorna con grande coerenza la forma del vassoio a cui rimanda con certezza il nome francese antico di “graal”. Se il primo Re mostra un vassoio aperto, a forma di conchiglia, il secondo, il più giovane, reca un vassoio coperto che sembra una imbarcazione, mentre l’ultimo reca un simile recipiente a forma più di cuore. Triplicazione narrativa non solo aderente al dettato del Vangelo di Luca ma pure di sapore fortemente trinitario. Tutti e tre i vassoi sacri e regali indicano il Graal ma è il Re orientale più giovane quello che reca l’indicazione più precisa e coerente. Non a caso anche nel Perceval e nel Parzival si parla di un Graal sia coperto che scoperto ed è naturale che il primo Re, più vicino al Cristo, abbia aperto il Graal che appare al Cristo scoperchiato, in segno di omaggio.

L’interno del primo vassoio è ricoperto d’oro come quello tenuto da Giustiniano e tutti e tre i Re d’oriente sono vestiti quali duchi imperiali, con il berretto frigio. Il primo e l’ultimo Re toccano il vaso sacro con i loro mantelli, come Giustiano, per non contaminarne la santità mentre solo il giovane al centro, figura di Cristo, archetipo giovanneo e galaadiano, tocca il suo Graal, che appare però celato da un coperchio e non a caso mostra un mantello verde, colore graalico nel Parzival, il romanzo del Graal più orientale e più intensamente dal sapore nobiliare e dinastico. Dietro Spostandoci dall’Impero romano-cristiano d’oriente fino all’Impero romano cristiano d’occidente e germanico abbiamo altri simili preziosi esempi iconografici di vassoi-scodelle preziose in cortei imperiali. Se consideriamo l’Evangelario di Ottone III, capolavoro di miniature dell’anno mille, conservato alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco di Baviera, compare tra le colorate raffigurazioni una processione allegorica di alcune figure femminili di cui sono indicati i nomi: Sclavinia, Germania, Gallia. Ciascuna “donna” reca un dono simbolico con cui omaggiare l’Imperatore Ottone III (un globo aureo, una cornucopia piena di pietre preziose e un ramo fronzuto) e il nobile e simbolico corteo è guidato da una donna che è indicata come “Roma” e che reca all’Imperatore un recipiente che è un vassoio tutto d’oro e di pietre preziose, tenuto sempre con un mantello porpora, indicante la sua primaria santità: il nostro Graal che ritorna in un contesto sacrale-imperiale simile a quello giustinianeo. Tutte le donne avanzano a piedi nudi e “Roma” reca una corona in capo più preziosa delle altre e appare sormontata da un giglio, come tre gigli compaiono tra i piedi dei tre Re d’oriente a Ravenna.

Un’altra miniatura ci offre una simile suggestiva e sacra rappresentazione e si trova nel codice di norme e consuetudini medioevali chiamata Specchio dei Sassoni, conservato nella Biblioteca dell’Università di Heidelberg, dove la parte dedicata alla procedura dell’elezione del Re dei Germani appare arricchita da una raffigurazione di un corteo che avanza verso il sacro Re, il quale designato come tale diventa de iure anche “Imperatore dei Romani” secondo la visione dominante dagli Ottoni agli Hohenstaufen.

Nella miniatura abbiamo tre figure uguali e coronate la prima delle quali reca un vassoio coperto aureo, quella centrale un’asta, e il terzo il medesimo vassoio ma scoperchiato e si trova di fronte al Re dei Germani seduto in trono. La prima figura è colta nel gesto di aprire il vassoio-scrigno che l’altra offre e mostra al nuovo Re, che appare benedire soddisfatto. L’opera si forma all’interno del “secolo del Graal”, tra il 1220 e il 1235 e forma le società dei feudi imperiali fino all’inizio dell’epoca moderna.

Un terzo esempio straordinario di recipiente imperiale e sacrale lo troviamo in una stampa di Bartholemaeus Kaeppeler (Norimberga, 1564) conservata nell’archivio della Fondazione museale Kultur und Geschichte di Berlino (Archivio Scala). La stampa celebra l’Imperatore Massimiliano II d’Asburgo al centro dei suoi sette Principi elettori. Una scena ricorrente ad ogni elezione imperiale. Qui la novità unica sta nello strano recipiente che reca in mano l’elettore dell’importante e simbolica Contea del Palatinato, feudo di origine carolingia di appannaggio dei conti insigniti del titolo di “maggiordomi di Palazzo” dell’Imperatore. Si tratta di un solenne doppio vassoio coperto da un drappo bianco.

Il tema del “drappo graalico” ricorre nel Perceval e nel Parzival dove talvolta il Graal appare in processione coperto e altre volte invece scoperchiato come nello “Specchio dei Sassoni”, a San Vitale e a Sant’Apollinare Nuovo. Questa rilettura di sintesi può trovare una conferma esterna in alcune tracce analoghe che seguono le traslazioni della Santa Lancia, il principale oggetto sacro che precede e accompagna i cortei graalici.

Il Vescovo teologo e uomo di cultura Lanfranco da Cremona, formatosi nel monastero imperiale di San Pietro in Cielo d’oro in Pavia, racconta nei suoi scritti che la Lancia di Longino era custodita da un conte longobardo di nome Sansone al tempo del Re d’Italia e di Arles Ugo di Provenza. Enrico l’Uccellatore tanto minacciò il Re d’Italia longobardo da ottenerne il dono della mistica Lancia in cambio di alcuni feudi in Svevia. Da allora si genera un filo rosso fra la Svevia e la città regale di Pavia tanto che Ottone I sposerà la vedova Adelaide di Svevia proprio a Pavia.

Stefano Brentano nella sua Storia della città di Pavia (1570) racconta come parte del ferro della Lancia di Longino fosse conservato come reliquia nel Castello Visconteo ancora ai suoi tempi. La Lancia già longobarda, ora germanica, resta quindi tesoro, pignora Imperii e reliquia detenuta dagli Imperatori del Sacro Romano Impero da Ottone I fino alla traslazione imperiale agli Asburgo con Federico III. Da dove poteva venire tale importante tesoro? Probabilmente dalla città di Ravenna, quale città sacra e imperiale. Il nipote del Re d’Italia Liutprando entra in Ravenna senza colpo ferire al tempo dell’eresia iconoclasta dell’Imperatore bizantino Leone III l’Isaurico. È l’unico caso in cui Ravenna, che sempre ha resistito all’egemonia longobarda, si trova politicamente più vicina a Pavia che al successore di Costantino con cui si scontra addirittura in una battaglia navale nel 729. Di fronte all’improvvisa svolta iconoclasta dell’Imperatore anche un tesoro come il Graal avrebbe potuto correre dei rischi e quindi è possibile che il santo vassoio sia stato traslato da Ravenna a Pavia, o comunque in una cappella di un monastero fortificato longobardo. E se il Graal avesse seguito la Lancia che nei romanzi medioevali sempre l’accompagna? E se non fosse un caso che gli Imperatori germanici cerchino sempre di sposare nobili donne del Limes, della Lotaringia, persino vedove, area dove ancora si perpetuano antiche e nobili stirpi merovinge come quella dei Soissons-Vermandois? E se non fosse un caso che certi stemmi araldici del Perlesvaus siano simili a quelli del Codice Manasse e a quelli di alcune famiglie della Lotaringia come la misteriosa stirpe normanna dei Bosonidi, il cui emblema è uguale a quello del Lancillotto del Perlesvaus?

Quando gli studiosi inizieranno a prendere sul serio le storie del Graal sarà sempre troppo tardi! Come può non essere un caso che l’ultima moglie di Federico II, donna di origine aleramica, abbia come nome quello di Bianca della famiglia dei Lancia e un padre chiamato Galvano, nome dell’eroe arturiano che si vota alla ricerca della miracolosa Lancia che stilla continuamente sangue! Bianca appare la Lancia di Cristo nel racconto di Chretien de Troyes, il primo romanzo del Graal. Significative concordanze. Ed è solo la punta dell’iceberg.

Il forte romano di Soissons era chiamato “castello di alabastro” (la vera originaria Glastonbury) e fu l’unico territorio della Gallia romano-cristiana a resistere per decenni al crollo dell’Impero fino a capitolare solo all’arrivo del Re dei Franchi Clodoveo che non a caso pose la sua capitale proprio a Soissons, sede di importanti battaglie nella storia di Francia. Ecco il primo e più importante Regno del Re-Orso: una piccola Francia nordica, bretone-merovingia, alleata di una Bretagna ancora autonoma e mai invasa, quale nucleo regale-sacrale di un epos del Graal che i discendenti delle medesime famiglie nobili custodi riprenderanno a fine del dodicesimo secolo quando la cavalleria errante del Graal inizierà ad entrare in crisi, anche per la svolta teocratica e politica di papa Innocenzo III, il primo Papa ad utilizzare un suo stemma nobiliare e il Papa che tradì il ruolo imperiale degli Hohenstaufen, legittimi discendenti della casata di Franconia attraverso Agnese di Waiblingen.

La mitologia britannica del Graal fu solo una tardiva reinvenzione politica dei Plantageneti che fondarono la loro Glastonbury quale copia della normanna Fecamp. Il Primo Artù fu gallo-romano. Tutto il medioevo può allora rileggersi alla luce del Graal e delle contese tra certe stirpi che si contendevano la trasmissione di una linea di sangue ritenuta superiore, passante per via femminile, che rischiava di perdersi quale eredità divina, il Graal, anche a causa della difficoltà di vivere il codice di selezione-elezione e cooptazione dei nuovi cavalieri graalici che dovevano vagare inconsapevoli e casti tra sacre foreste aristocratiche fino a superare plurime prove rituali e iniziatiche. Fu al tempo di Carlo Magno che in area canossiana fu ritrovata la smarrita Lancia di Longino e la madre di Matilde era (che coincidenza!) una nobile della Lotaringia: Beatrice di Bar, appartenente ad una delle tredici famiglie merovinge del Graal.