Trent’anni fa l’Italia visse alcune delle più drammatiche pagine della sua storia. Il 12 marzo 1992 veniva ucciso a Palermo Salvo Lima, esponente di spicco della Democrazia Cristiana locale ed ex sindaco della città. Quel giorno, uscito dalla sua casa di Mondello, si stava recando in un hotel del centro dove si stava organizzando un convegno che prevedeva fra gli invitati anche Giulio Andreotti, cui Lima era politicamente molto legato. Salvo Lima era stato sindaco di Palermo alla fine degli anni Cinquanta e durante il suo mandato la giunta, con Vito Ciancimino assessore ai lavori pubblici, fu coinvolta nel cosiddetto “sacco di Palermo”, un’operazione che mise nelle mani della mafia un’enorme quantità di denaro, trasformando il volto della città attraverso la concessione di oltre 4.000 licenze edilizie assegnate a imprese e prestanome legati a Cosa Nostra.

La sua morte avvenne in un’Italia che era scossa dal terremoto di Mani Pulite iniziata due mesi prima con l’arresto di Mario Chiesa a Milano: un arresto apparentemente di poco conto, di un uomo che Bettino Craxi definì “un mariuolo”. Ma in realtà quello fu l’inizio di un vero e proprio cataclisma, che mise in luce la collusione fra il malaffare e la politica e che travolse in breve tutti i partiti usciti dalla Seconda guerra mondiale, ponendo fine, sul piano storico, alla nostra “Prima Repubblica”.

La morte di Salvo Lima rappresentava per Giovanni Falcone un segnale inequivocabile: Cosa Nostra aveva deciso di abbandonare Lima, responsabile evidentemente di non essere riuscito ad arginare sul versante politico gli effetti del maxiprocesso. Tutto era cominciato all’inizio degli anni Ottanta quando a Palermo due giovani magistrati – amici e praticamente coetanei e nati nello stesso quartiere di Palermo, la Kalsa – si ritrovarono a lavorare l’uno accanto all’altro assieme a Rocco Chinnici. Chinnici era il responsabile dell’ufficio istruzione del tribunale di Palermo ed era un giudice che aveva compreso che per combattere la mafia era necessario cambiare metodo per colpire gli interessi dell’organizzazione criminale. Secondo Chinnici l’attività investigativa doveva indagare sull’immenso patrimonio finanziario di Cosa Nostra e non solo sugli omicidi e per questo era necessario creare un gruppo di lavoro che avrebbe dovuto collaborare nelle indagini, e che diventerà il “pool di Palermo”. Questo non fu facile. Fin da subito Chinnici si ritrovò solo, e non mancarono le pressioni affinché affidasse a Falcone e Borsellino indagini di poco conto per distrarli da indagini molto più pericolose per le organizzazioni mafiose. Ma Chinnici tirò dritto e questo gli costò la vita: venne ucciso da Cosa Nostra con un’autobomba il 29 luglio 1983. Con lui morirono i due uomini della scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portiere dello stabile nel quale abitava, Stefano Li Sacchi. La sua morte si colloca all’interno della cosiddetta seconda guerra di mafia, che provocò la morte, fra il 1978 e il 1984 di circa 1000 persone. Furono gli anni in cui Palermo venne paragonata a Beirut, la capitale libanese martoriata dalla guerra civile. In quel conflitto, che insanguinò la città, non perirono solo esponenti delle famiglie mafiose – molti dei quali non vennero mai ritrovati poiché i cadaveri vennero sciolti nell’acido per cancellarne le tracce – ma anche alcuni degli uomini migliori del nostro Paese come Cesare Terranova (1979), Piersanti Mattarella (1980), Emanuele Basile (1980), Gaetano Costa (1980), Pio La Torre (1982), Carlo Alberto Dalla Chiesa (1982) e, dopo Chinnici, Beppe Montana (1985), Ninni Cassarà (1985), solo per ricordarne alcuni.

Sarà Antonino Caponnetto a prendere il posto di Chinnici e a rilanciare il lavoro del pool che vide accanto a Falcone e Borsellino anche i magistrati Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello e successivamente Giuseppe Ayala. Dalla loro cooperazione nacque il cosiddetto maxiprocesso, reso possibile anche grazie alla collaborazione di un uomo che era stato protagonista della prima guerra di mafia, all’inizio degli anni Sessanta, Tommaso Buscetta. Furono le sue dichiarazioni di “pentito”, rilasciate a Giovanni Falcone, che diedero modo di comprendere il modo di agire e la mentalità mafiosa, permettendo al pool di ricostruire il tessuto criminale locale e internazionale di Cosa Nostra.

I risultati del maxiprocesso furono impressionanti. Si rese necessaria la costruzione, nel tribunale di Palermo, di un’enorme aula bunker nella quale celebrare le udienze alla presenza di un numero imponente di imputati. Il processo si aprì il 10 febbraio 1986 e la sentenza venne pronunciata il 17 dicembre 1987. Fu un colpo durissimo alla mafia: 346 condannati e 114 assolti, 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni. Il processo d’appello vide una mitigazione di molte condanne, ma nella sentenza di Cassazione, pronunciata il 30 gennaio 1992, l’impianto accusatorio del processo di primo grado venne confermato.

Il pool, nel frattempo, aveva però subito un duro colpo, essendo stato praticamente sciolto dopo la sentenza di primo grado: dopo il trasferimento di Antonino Caponnetto a Firenze, il CSM non confermò al suo posto Giovanni Falcone, che Caponnetto aveva indicato come suo successore naturale, ma nominò Antonino Meli, il quale di fatto smantellò il pool, affidando a Falcone e ai suoi collaboratori indagini scollegate e di “serie B”. Così nel marzo 1988 il pool venne abolito.

Per questo Giovanni Falcone accettò il trasferimento presso il Ministero della Giustizia con il ministro Martelli, pensando in questo modo di poter dare avvio a una struttura nazionale che avrebbe dovuto fare del metodo del pool, che aveva rivoluzionato le indagini ampliandole a livello internazionale e colpendo gli interessi finanziari della mafia, un metodo di contrasto su vasta scala della struttura delle mafie, ben oltre i confini della Sicilia.

In questo contesto la morte di Salvo Lima diventava un avvertimento preciso di Cosa Nostra alla corrente andreottiana, che non era riuscita a vanificare in Cassazione la sentenza del maxiprocesso. E a Falcone e Borsellino, colpevoli agli occhi della mafia di aver dato una spallata impressionante alla struttura di Cosa Nostra.

Due mesi dopo, il 23 maggio, un’esplosione sventrava l’autostrada a Capaci, uccidendo Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e gli agenti Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. E il 19 luglio, in via D’Amelio a Palermo, un’autobomba uccideva l’amico Paolo Borsellino assieme alla sua scorta: Emanuela Loi, Eddie Walter Max Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina e Agostino Catalano.

Ai funerali della scorta di Borsellino un incredulo Caponnetto pronunciò davanti alle telecamere parole amare, «è tutto finito…», di cui si pentì ben presto. Ma sono parole comprensibili di fronte a una strage che aveva sventrato i palazzi di via D’Amelio per uccidere un magistrato.

In realtà la città di Palermo aveva già vissuto la sua primavera negli anni del maxiprocesso e di fronte a quelle stragi il Paese intero reagì con un guizzo di moralità civile che avrebbe condotto alla più profonda trasformazione della vita politica dai tempi della fine della guerra.

Quel cambiamento politico, che aveva visto la nascita di nuovi partiti e da una richiesta diffusa di moralità nella vita pubblica (si pensi alle istanze di un movimento come La Rete), non lasciò indifferente la mafia. Ci fu il tentativo, con le stragi di Firenze e Milano e gli attentati a Roma nel 1993, di alzare il tiro e costringere lo Stato con una strategia della tensione di stampo terroristico, in continuità con le stragi terribili del 1992. La strategia del terrore del 1993 riportò alla mente le stragi degli Anni di piombo, da Piazza Fontana a Piazza Loggia, fino alla Stazione di Bologna e si ebbe l’impressione che ci fosse un disegno per colpire direttamente le istituzioni democratiche e le indagini cercarono non solo fra gli esponenti di Cosa Nostra, ma cercarono i mandanti occulti degli attentati. Tuttavia questa rimane una pagina ancora piena di zone d’ombra.

Che significato ha tutto questo per le nuove generazioni, per chi ancora non era nato e può solo raccogliere la testimonianza di chi allora visse in prima persona quegli eventi? Si tratta di una domanda importante, che ci mette di fronte non solo al senso della memoria nella vita civile di un Paese, ma anche al valore dell’eredità di coloro che hanno sacrificato la propria vita per la difesa dei valori democratici e la costruzione di una società più giusta.

La distanza che ci separa da quei fatti, trent’anni, permette un miracolo che è transitorio: i testimoni di allora sono ancora in gran parte presenti fra noi e i giovani di oggi possono ancora dialogare con loro raccogliendone l’eredità e cercando di farla propria. L’importante è credere nella potenza trasformatrice dell’eredità che lasciano le persone buone e coltivare la fiducia che le giovani generazioni possano raccoglierla per orientare la propria vita.

Sappiamo bene che la lotta contro il male non risparmia nessuna generazione. Tuttavia, sappiamo anche, come ci ha insegnato Anna Bravo nel suo libro La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato, che nella storia dovremmo imparare a guardare al sangue che non viene versato grazie al lavoro di coloro che costruiscono testardamente il bene nella vicenda umana. È questo il messaggio di realistica speranza, credo, che ci viene consegnato da una storia così lontana, eppure ancora così potente, perché:

Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.

(Paolo Borsellino)