Per qualsiasi studioso o, semplicemente, appassionato di un determinato argomento, uno degli aspetti più affascinanti è riuscire a collegare tra di loro realtà che apparentemente possono sembrare lontane, anche semplicemente da un punto di vista temporale, e che invece hanno molti più punti in comune di quanto si potrebbe pensare a primo acchito. L’argomento su cui vogliamo gettare qualche seme è quello dell’economia civile. Soffermiamoci prima di tutto su questo aggettivo: “civile” viene usato nel 1765 dall’economista Antonio Genovesi per il titolo della sua opera Lezioni di commercio o di economia civile. Civile dà anche il nome alla prima cattedra di "commercio e meccanica" a Napoli, prima cattedra di economia di cui si abbia traccia in Europa. Una tradizione continentale e latina che comprende Dragonetti, Genovesi, Fuà e che si riannoda alle radici di quella fiducia che vede nel mercato un luogo di relazione, prima che un campo di scambi astratti. L'economia civile nasce da qui: da un’idea di cooperazione che ha come orizzonte la felicità pubblica.

Non è certamente un puro esercizio di stile l’andare a recuperare le radici storiche dell’economia civile: anzi, adesso più che mai, si avverte il bisogno di riallacciarsi a quelle fonti di pensiero che possano superare le ristrettezze dell’ordinaria amministrazione e riammettano nella dimensione pubblica e nell’agire politico la radice più profondamente antropologica, che dà senso alle nostre azioni.

Genovesi (1713-1769) è forse l’autore più noto a chi si occupa di economia civile: ed è giustissimo che sia così, visto che egli ha legato la sua opera principale (le sue già citate Lezioni di economia civile, 1765-1767) all’espressione “economia civile” e visto che ha rappresentato, in Italia e non solo, un punto di riferimento essenziale per chi si occupa di questa corrente di pensiero. E, diremmo, per tutti coloro che si ritrovano in quella tradizione che mette al centro l’uomo, e lo vede come “animale politico” che trova la sua più completa realizzazione nel dialogo e nella cooperazione con il prossimo: una tradizione, questa, che nel mondo occidentale ha uno dei suoi principali riferimenti in Aristotele e che si pone invece all’antitesi della corrente di pensiero che, banalizzando, potremmo riassumere nell’assunto “homo homini lupus” di Thomas Hobbes.

Per Genovesi, al contrario, vale il principio “homo homini natura amicus”; egli è convinto che la persona sia la risultante della ricerca di equilibrio tra due forze: quella dell’interesse per se stesso e quella della solidarietà sociale. Non nega che l’uomo possa agire anche solo per interesse personale, ma riprende anche l’etica di Aristotele: “È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri”. Un passaggio ulteriore fatto da Genovesi, rispetto alla tradizione a lui precedente, è sicuramente l’introduzione del concetto di “reciprocità”, che considera un elemento tipico della socialità umana, e per la quale ognuno deve comprendere che la natura di un bene comune è tale che il beneficio che ognuno trae dal suo uso non può in nessuna maniera essere separato dal beneficio che anche gli altri traggono da esso. Conseguentemente, le relazioni economiche di mercato vengono viste come relazioni di mutua assistenza, non come dei semplici rapporti utilitaristici.

Un altro concetto centrale nel suo pensiero è quello di pubblica felicità. Esiste un rapporto profondo tra economia e felicità, che fu profondamente indagato nel Settecento riformatore, il periodo in cui Genovesi si trovò ad operare. Anche in questo caso, è profondo il legame con la tradizione aristotelica-tomista, secondo la quale la felicità è la conseguenza naturale dei comportamenti virtuosi, configurandosi così come il loro pieno compimento.

E a questo proposito, citiamo le parole di Genovesi: “Che perciò bisogna essere virtuosi, per essere felici: che siamo di virtù capaci; e che questa virtù non sia una voce vana, e chimerica, ma vera e reale”. La felicità è, forse, la prima aspirazione dell’uomo; e decisiva è la consapevolezza, in questa corrente di pensiero, che questa non possa esaurirsi in una dimensione individuale. Felicità pubblica vuol dire anche “star bene” insieme, in un ambito collettivo, nella reciprocità, nella relazione tra le persone. Una vita buona, quindi, può essere vissuta solo facendo gli altri felici: un tema, anche questo, di discendenza aristotelica, e ancor più tomista. Il tema della pubblica felicità fu al centro dei trattati (anche nei titoli stessi) di molti altri autori italiani del Settecento riformatore, da Muratori (Della felicità pubblica) a Giuseppe Palmieri (Riflessioni sulla pubblica felicità) a Pietro Verri.

I “semi” di questo pensiero, che tanta forza e tanta sostanza ha tratto dall’opera e dal pensiero di Antonio Genovesi, hanno continuato a circolare anche nel Novecento, grazie all’opera di illustri personaggi: e qui voglio soffermarmi su un pensatore a cui sono fortemente affezionata, anche per ragioni di provenienza geografica (è originario della mia stessa provincia, quella di Arezzo): Amintore Fanfani.

Stiamo parlando di uno dei personaggi più rilevanti del Novecento italiano, dal punto di vista politico, accademico ed economico; in questo contesto, ci soffermiamo prevalentemente sul suo pensiero economico, senza ovviamente pretendere di darne una trattazione completa, considerando anche la sua complessità e la sua interconnessione con tutti gli altri aspetti.

Attento a ricostruire le origini del capitalismo e a esaminare le sue fasi di sviluppo, lo statista toscano non mancò di prestare attenzione alle forme alternative di trasformazione del sistema economico, capaci di andare oltre il modello proprio del liberalismo classico. Nei suoi scritti, si avverte sia la volontà di denunciare i mali del capitalismo e della sfrenatezza che ha portato alla grande crisi del 1929; affiora però anche fortemente la volontà di rivendicare per i paesi cattolici la possibilità di creare un capitalismo moralizzato, temperato sotto il segno del bene comune, più socialmente efficiente, e quindi in definitiva superiore rispetto a quello dei paesi anglosassoni. L’antropologia protestante, infatti, per il suo pessimismo agostiniano (che in Lutero e in Calvino viene anche esasperato) non ammette che l’uomo sia realmente capace di reciprocità positiva, almeno nella sfera pubblica ed economica. L’uomo, quindi, vivrebbe in società non perché spinto dalla sua intrinseca natura socievole (come, abbiamo già visto, sosteneva la tradizione aristotelica-tomista), ma solo per necessità e per convenienza: per ragioni esclusivamente utilitaristiche, quindi.

Per Fanfani, era necessario che la cultura economica dei Paesi protestanti, orientata solo al profitto e che lui definiva “naturalista”, fosse superata da una cultura di segno “volontarista”, capace cioè di imporre la priorità dei fini ideali e sociali su quelli individuali. E andiamo così a chiudere il cerchio, visto che evidentemente anche l’economia civile di Genovesi rientra nella tradizione volontarista. Vi ritroviamo, infatti, gli stessi principi di reciprocità, di mutua assistenza, e dell’importanza conferita alla pubblica felicità.

Ho voluto seguire questa suggestione, istituendo questa linea conduttrice che dal pensiero settecentesco di Genovesi ci ha portato fino a quello novecentesco di Fanfani, per dimostrare come la forza delle idee e le fonti di pensiero più prettamente antropologiche riescano sempre a fornire degli spunti importanti per il nostro presente e a fornirci delle linee e delle direzioni da seguire. In maniera volontaristica, come direbbe Amintore Fanfani.