A seguito della distruzione di Bagdad da parte dei Mongoli nel 1258, il Cairo divenne la città più grande del mondo islamico. Ancora oggi, dagli egiziani la città è chiamata “Masr”, che significa sia Egitto che capitale, un nome senza tempo radicato nella civiltà faraonica.

Aldo ed io siamo nella sede del consolato italiano il cui funzionario stampa subito il visto sul passaporto di Aldo. Nel mio caso invece, il visto è pronto ma essendo il passaporto quasi tutto timbrato e dovendo continuare il viaggio via terra mi consiglia di andare prima alla mia sede consolare per farmi aggiungere qualche pagina oppure per chiederne uno nuovo, come da prassi. Avrei dovuto pensarci prima, spero solo che la signora Grimaldi del consolato italiano non mi crei problemi.

Oggi è domenica 21 gennaio, il nostro nono giorno di permanenza al Cairo. All’uscita dal consolato incontriamo Sara di 20 anni e Rana di 18, due ragazze che non disdegnano di fare una breve conversazione e, anche se non parlano inglese, riusciamo ugualmente a dare loro un appuntamento per le 17 vicino all’Hilton, giusto per fare amicizia. Arrivano puntuali anche se sono visibilmente tese in quanto veniamo guardati con insistenza dai passanti per il fatto che due ragazze egiziane parlano per strada con due stranieri. Alcuni curiosi addirittura si avvicinano per origliare. Sono due brave ragazze che desiderano solo fare la conoscenza con persone diverse, ci spostiamo quindi in un punto maggiormente appartato sulla passeggiata del lungo Nilo. Su di un foglietto hanno preparato alcune semplici domande da farci in inglese, del tipo: “What is your name? What is your country? Are you married? We are very glad to know you”, e altre frasi banali ma simpatiche. Non possono fermarsi troppo e quindi ci diamo appuntamento per il giorno dopo che dicono arrivare munite di dizionario. È la seconda volta che ci capita di scambiare due parole con delle ragazze egiziane e, mentre ci auguriamo che non capiti come la volta scorsa, al momento dei saluti si ripete la stessa identica circostanza. Si avvicinano tre signori che mostrano la tessera da poliziotti e in maniera davvero arrogante pretendono di vedere i documenti dalle due ragazze. Le aggrediscono poi con urla di rimprovero per ben 15 minuti. Parlano in arabo ma è facile capire che hanno sentito dell’appuntamento del giorno dopo. Con noi invece i tre ceffi si rivolgono in maniera stranamente gentile, non solo perché siamo stranieri ma anche perché siamo maschi, mentre loro sono donne giudicate trasgressive e quindi in torto. Ci invitano ad andarcene e mentre ci allontaniamo sentiamo che riprendono a rimproverare le ragazze. È stata un’esperienza allucinante ed interessante, che fa comprendere quanto sia dura la vita per le donne in Egitto. Domani, per curiosità andremo ugualmente all’appuntamento consapevoli che difficilmente loro ci saranno.

Al mattino del giorno dopo, lunedì 22 gennaio, siamo puntuali all’apertura del consolato italiano che dista pochi passi da piazza Tahrir e dal nostro hotel. Speravo di riuscire ad evitare la formale e indisponente signora Grimaldi ma niente da fare. Infatti mi dice subito che non ci può fare nulla, può solo fare richiesta di un passaporto nuovo ma occorre aspettare molto tempo perché bisogna scrivere in Italia e via di seguito. Per fortuna questi non sono affari del suo ufficio ma riguardano il signor Mario, l’impiegato dell’ufficio passaporti il quale, invece, promette di farmi avere un passaporto nuovo in 3 o 4 giorni. Nel consolato italiano regna un’atmosfera semplice e gioviale, caratterizzata da pettegolezzi che muovono da un ufficio all’altro.

Ci rechiamo poi a fare un sopralluogo all’Istituto Italiano di Cultura al numero 3 di Sh. el-Sheikh el-Marsafi, nella zona di Zamalek che occupa la parte Nord dell’isola di Gezira sul Nilo, per noi facile da raggiungere anche a piedi. Ci facciamo dare il fascicolo con l’elenco delle scuole italiane nel mondo, dove è possibile iscriversi o anche insegnare come nelle scuole Italiane: elementari, medie, istituti tecnici e licei scientifici. Qui all’Istituto si raduna la nutrita comunità di connazionali residenti al Cairo per socializzare, spesso con feste e party nei giorni delle nostre celebrazioni nazionali. Un ambiente molto piacevole dove si ascoltano aneddoti curiosi e interessanti sulla vita di tutti i giorni, descritta da italiani di diversa estrazione sociale e culturale. Approfittiamo per chiedere delucidazioni sull’accaduto del giorno prima con le ragazze egiziane al signor Arrigo di Parma, un anziano residente molto curato nel vestire e socievole nei modi: “Il sesso in Egitto è un tabù, qui la prostituzione non è ostentata o visibile come in altri Paesi perché è perseguita o quantomeno impedita. Qualsiasi rapporto fra uomo e donna al di fuori del matrimonio viene censurato moralmente e legalmente. Le donne devono arrivare al matrimonio vergini, una cultura maschilista molto affine a quella del nostro meridione”. Mentre parla, si unisce all’ascolto un impiegato egiziano, il quale si mostra vistosamente imbarazzato per l’argomento. Una reazione curiosa, significativa di un modo di concepire il rapporto tra donne e uomini.

È tempo di visitare il Museo Egizio, una costruzione neoclassica di colore rosa in Tahrir Square, che ospita la più importante collezione di reperti archeologici dell’Antico Egitto. La prima impressione generale è deludente, ci sembra poco tutelato e con polvere e la sottile sabbia del deserto che entra in po’ dovunque. L’incuria è diffusa. Il mio ricordo va al settore egizio del British Museum di Londra visitato nel ’76. Forse gli inglesi hanno davvero depredato l’Egitto esportando tantissime statue e reperti significativi, in compenso li hanno esposti in modo adeguato e sicuramente valorizzati al meglio. A differenza dei giorni scorsi, in cui abbiamo notato file di turisti in attesa di entrare, oggi vediamo pochi visitatori e pochissime guardie, spesso distratte e presenti solo nei punti più importanti del museo ed è per noi singolare constatare che le bacheche non sono chiuse da serrature o lucchetti ma da un semplice giro di fil di ferro facile da rimuovere. Bacheche che racchiudono oggetti, arredi, utensili e oreficerie varie di grande valore, come orecchini, collane, anelli, bracciali e tante spille con raffigurato lo scarabeo sacro.

Straordinaria l’esposizione di sarcofaghi e statue di faraoni dei vari periodi e dinastie di quattro mila anni di storia, provenienti dalle antiche capitali del Basso ed Alto Egitto, come indicato da una grande mappa alla parete: Pi-Ramsesses, Heliopolis (Cairo), Menphis e Thebe (Luxor, Karnak). Impressionante il trono e il sarcofago d’oro massiccio di Tutankhamon (1341-1323 a.C.) di circa 120 chili, con la maschera funeraria del volto, realizzata in oro battuto, che mostra la barbetta sotto al mento, i fori ai lobi delle orecchie, gli occhi truccati, le pupille in vetro e sulla fronte il cobra, simbolo dell’Egitto. Alla base, sotto ai piedi, vedo incisa la figura di una donna con le braccia aperte dalle quali si aprono le ali di due uccelli, probabilmente aquile. Tutte le tombe sono protette da un grande e spesso box in vetro, allineate nella parte centrale della galleria espositiva. La mummia del cadavere di Tutankhamon, totalmente imbalsamato, è stata ritrovata nel 1925 a Thebe, nella Valle dei Re, in buone condizioni essendo il faraone custodito, oltre che nel massiccio sarcofago, all’interno di altri due sarcofaghi incastrati tra loro. La fama della tomba, oltre che all’inestimabile tesoro ritrovato al suo interno, è legata alle voci sulla misteriosa maledizione che colpiva chiunque venisse in contatto con essa. Usciamo dal museo frastornati dalla miriade di cose che abbiamo visto e letto, ma bisognerebbe essere degli studiosi per apprezzare al meglio lo straordinario patrimonio scientifico, storico e culturale di questo museo.

Ci sediamo alla caffetteria del Shepheard hotel ad ordinare una zuppa di cipolle, la mitica onion-soup che pur nella sua semplicità qui è decisamente scadente. Forse questo è l’hotel dove suonò mio padre nel ’56, vedo lo stanzone e le porte che mi ricordano quelle di una sua fotografia. Di fronte all’hotel sono ancorati due grandi e lussuosi battelli usati per le crociere sul Nilo. Inizieranno il primo di marzo e in cinque giorni discendono le acque del fiume, con alcune soste nei leggendari siti dei faraoni fino al capolinea di Aswan.

Di ritorno al Plaza, un signore in thawb, l’indumento lungo fino alle caviglie simile ad una tunica, chiede di salire sull’ascensore con noi fischiando e noi diamo il consenso facendo uguale. Non parliamo le reciproche lingue ma comunichiamo sostituendo le parole ai fischi, in una fitta e simpatica conversazione fino all’ottavo piano. Entrati nel soggiorno dell’hotel troviamo Fabio e Andrea, due ragazzi arrivati ieri da Bologna e diretti in Sudan dove, nonostante le scarse condizioni economiche, intendono restare per un paio di mesi. Stanno ripetendo il viaggio fatto l’anno prima da due amici che hanno loro decantato la straordinaria ospitalità dei sudanesi: “Li hanno trattati benissimo e non volevano più che partissero”. Con entusiasmo aggiungono che con 150 dollari gli avrebbero costruito una casa in mattoni nella cittadina di Suakin, sul Mar Rosso vicino a Port Sudan. Una zona abitata da coltivatori di marjuana, dettaglio che rende la loro esaltazione e il loro racconto più comprensibili. Quello che emerge e coincide con altre narrazioni è proprio la gentilezza del popolo sudanese.

Aldo ha sognato tutta notte che inseguiva una donna senza mai raggiungerla.

Al mattino del nostro undicesimo giorno al Cairo, martedì 23 gennaio, siamo al consolato italiano per chiedere se è pronto il mio passaporto ma dicono che è un brutto momento a causa di un disguido interno e mi invitano a tornare giovedì.

Fermiamo un taxi per andare al mega suq di Khan el-Khalili. Al Cairo i taxi si fermano anche se hanno già passeggeri a bordo. In quello in cui salgo ho un’animata e interessante conversazione con una graziosa ragazza palestinese di nome Wafa Tahboub. È universitaria al Cairo e studia medicina. Racconta che dopo la guerra civile del settembre del 1971, data della cacciata dei palestinesi, è ora proibito in Giordania parlare di loro. Al momento di lasciarci esprimiamo entrambi il desiderio di rivederci per continuare la conversazione. Mi scrive il suo numero di telefono sul taccuino, pregandomi di chiamarla prima delle 21 e comunque entro giovedì poiché venerdì torna ad Amman.

Il bazaar di Khan el-Khalili è il luogo più bello in cui svagarsi, nel susseguirsi di botteghe di tutti i generi, dalle essenze di profumi e spezie all’antiquariato, e centinaia di artigiani che lavorano metalli e legno in stretti vicoli pieni di buche. Un po’ come il bazaar di Istanbul ma questo è più malconcio e autentico. In un negozio di alimenti ordiniamo un panino con formaggio e il bottegaio, molto simpatico, non vuole essere pagato.

Ci attraggono le borse in pelle e gli ottoni nel negozio della giovane Olvet, la sensuale figlia del titolare che fa innamorare Aldo, il quale concorda subito di farsi musulmano per riuscire a sposarla. Già fissano la somma di duemila pound quale dote. Molto belli nel suo negozio il braciere di incensi, i grandi lampadari e la serie di narghilè “professionali” alti 80 cm, che qui chiamano buuri. Facciamo acquisti da spedire in Italia tramite pacchi postali: due borse in pelle rotonde, sul genere del dottor Salasso nel fumetto di Capitan Miki, trattate col fratello di Olvet. Acquistiamo altre due borse nel vialone centrale del bazaar e i narghilè nella zona artigiana dove li producono accompagnati da Cico, un viaggiatore tedesco dal nomignolo ispanico. Dal bazaar torniamo a piedi “carichi come muli” poiché il centro non è poi così lontano e noi siamo ormai abituati a camminiamo per ore tutti i giorni.

In hotel i due bolognesi sono in partenza, vanno ad Aswan in treno senza cuccetta per risparmiare. Li accompagniamo alla stazione gremita e al treno zeppo di gente, quasi fossimo in India. Per fare il biglietto c’è una fila interminabile, perciò sarà molto meglio per noi prenotare con qualche giorno in anticipo. Loro arriveranno domani, mercoledì, e il barcone sul lago Nasser da Aswan a Wadi Alfa in Sudan parte ogni giovedì.

Verso sera ci saziamo con felafel e sis-kofte, polpette di verdura e di macinato ai ferri, al ristorante turco Felfela che si trova accanto a Wimpy sotto i portici. Ci serve al tavolo Mohamed che chiede di venire in giro con noi in segno di amicizia. Alle 20 decido di chiamare Wafa, la palestinese del taxi, ma il paio di telefoni pubblici che trovo non funzionano. Chiedo aiuto a Mohamed, accompagnatore fedele ma impacciato, che mi fa girare per quasi un’ora attorno agli stessi edifici senza trovare la cabina giusta. Il motivo, ci spiega, è che al Cairo la rete telefonica è stata costruita dai russi con i cavi ricoperti in gomma che i topi rosicchiano mandando il sistema in tilt. Stesso problema già vissuto in Bulgaria e in altri Paesi dell’Unione Sovietica. Se voglio telefonare devo recarmi alla sede dei telefoni in El Elfi Street e riesco così a concordare con Wafa un appuntamento per domani alle 14 nella hall dell’Hilton.

Alla sera torniamo al Casinò, l’unico luogo dove si può consumare con i traveller’s cheque ed avere il resto in moneta egiziana. L’importante è non mettersi a giocare. La perdita avviene sempre per rimontare un piccolo passivo o non sapersi fermare quando si vince.

La mattina del nostro tredicesimo giorno al Cairo, giovedì 25 gennaio, come d’accordo ci presentiamo al consolato italiano per avere finalmente il mio nuovo passaporto, ma purtroppo la risposta è negativa perché pare che siano finiti i libretti. In effetti vediamo che tutti gli uffici sono molto indaffarati con le richieste di visto per l’Italia degli egiziani, si respira un certo nervosismo. Oggi però nel signor Mario notiamo qualcosa di diverso anche nei nostri confronti ed è facile pensare che quella “polpetta” della signora Grimaldi ci abbia messo in cattiva luce presso l’impiegato dell’ufficio passaporti quando questo, che prima era gentilissimo, ha iniziato a fare domande ambigue e inopportune: “Come mai viaggiate tanto? Come mai volete andare in Arabia e nello Yemen? Dove alloggiate?”. Posticipa a sabato l’appuntamento e conclude con un bisbiglio strano, lasciando intendere che noi potremmo essere membri delle Brigate Rosse. Ci mancava anche questa.

Da pseudo brigatisti rossi ci sediamo a guardare tranquillamente il passeggio della gente e a fumare il narghilè in un bar di Opera Square. Ogni carica del loro tabacco dolciastro costa 3 piastre e il tè ne costa 5. Qui leghiamo con due giovani spagnole di Madrid che, come noi e tanti altri, sorseggiano il tè fumando il narghilè. Si chiamano Luz e Mila, studiano l’arabo ma dicono, ironizzando, che è solo una scusa per non lavorare. Sono appena tornate da un entusiasmante viaggio in Sudan e mi annoto sul taccuino pagine di informazioni utili da utilizzare da Aswan in poi. Dopo il viaggio in Sudan, nel quale confermano con infiniti esempi che i sudanesi sono gente amabile, Luz inizia ora ad esprimere il suo parere sugli egiziani: “Detesto gli egiziani, sono falsi e ipocriti. Ogni piacere che ti fanno, dopo arriva sempre il momento del rendiconto espresso con arroganza, sono sleali”. E aggiunge: “Impossibile stringere amicizie. Un nostro amico è stato invitato per quattro volte nelle loro case e tutte le volte lo hanno derubato”. Luz parla per ore a raffica tanto da stordirci. Le due ragazze abitano sole in un appartamento in centro per cento dollari al mese ed è palese che avrebbero piacere che rimanessimo in loro compagnia ma ormai è mezzanotte e siamo esausti.