Per voce creativa è un ciclo di interviste riservate alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa occasione Giovanna Lacedra incontra Teresa Letizia Bontà, (Licata, 1981).

Fondali scuri. Corpi nudi e plastici. Creature che da questa oscurità emergono per riprendersi la vita, dimenandosi con eleganza e determinazione. Pochi, emblematici oggetti emergono dal buio. Tutto è pathos e tensione. Il linguaggio della fotografia si allaccia alla tradizione per raccontare i nostri più intimi drammi, e lo fa mediante composizioni e pose sapientemente orchestrate.

Nella produzione di Teresa Letizia Bontà luci e tenebre caravaggesche delineano una ricerca che guarda alla grande pittura per evocare solitudini contemporanee, percorsi interiori, amori e abbandoni fuori dal tempo e di ogni tempo. Teresa vive e lavora nella ridente, antica, calda Sicilia. E questa è la sua voce creativa per voi.

Chi è Teresa?

Teresa è una fotografa che cerca di elaborare le proprie sensazioni interiori attraverso questa forma d’arte, tramutandole in qualcosa di profondamente viscerale.

La domanda alla quale non trovi risposta?

Perché tutto questo dolore? Continuo a schiantarmi in battaglie emotive così forti da definirle un vero stupro per l’anima.

Il rumore che ti assorda?

Il suono dell’indifferenza è quello più fastidioso perché scandisce fin troppo bene ogni angolo del tempo.

La voce che ti culla?

L’amore di mia figlia è quella carezza che mi dona leggerezza.

Perché la fotografia?

La fotografia per me rappresenta la luce, una luce capace di illuminare ogni parte oscura dentro di noi.

Hai avuto un “maestro”? Se sì, chi era e quale tesoro ti ha lasciato in custodia?

Il mio maestro è stato il dolore, con tutte le sue sfaccettature, volte ad insegnarmi molteplici lezioni. Lezioni che oggi io considero tappe di una evoluzione spirituale.

Il primo scatto che ha segnato il tuo inizio?

La prima fotografia la feci all’occhio di mia figlia, ma questo non lo dissi mai a nessuno. Quando vidi quello scatto in alta risoluzione fu come capire di avere un dono. Compresi che avrei dovuto coltivarlo.

Come nasce, invece, il concept di un tuo progetto fotografico?

L’ispirazione nasce principalmente dal mio stato emotivo, dalle esperienze che vivo. Però magari mi capita di camminare per strada, vedere qualcosa che mi colpisce e avere come una visione. Allora mi fermo e se ho qualcosa dietro, disegno lo scatto che ho visualizzato. Oppure mando un messaggio ad un’amica e le dico: “Sai, ho immaginato questa foto…”, in modo tale che mi rimanga viva l’immagine.

La tua è una fotografia che presenta continui rimandi alla tradizione pittorica italiana, dalla composizione delle scene alle pose dei soggetti, dallo studio dell’illuminazione alla drammatizzazione espressiva. Quali pittori ti hanno ispirata e perché?

Caravaggio sicuramente è stato l’artista che ha toccato le corde della mia anima. Luci ed ombre hanno sempre avuto rilevanza nelle sue opere, poiché mettono in risalto in maniera minuziosa dettagli importanti.

Dove vai per stare con te stessa?

Se posso vado al mare la mattina presto per vivere ogni dettaglio della natura: il rumore del mare prevale sempre su quello. In assenza del mare faccio lunghe passeggiate in bici.

Ascolti musica mentre fotografi?

Capita che in uno shooting mi immerga anche per due o tre ore, cercando di portare le persone – i miei modelli – in un certo mood. Lo faccio con la musica, lo faccio con le parole, a volte lo faccio anche chiudendo gli occhi e appoggiando la mia mano sul petto di chi ho di fronte, per ascoltare il suo cuore; oppure accosto l’orecchio alla sua schiena, per sentirne respiro. O semplicemente, metto il suo palmo della mano sul mio, per sentire il calore, l’energia. Voglio capire se i miei modelli provano paura o imbarazzo. Devo ammettere che Einaudi spalanca porte importanti mentre scatto.

Cosa ti deconcentra?

La mia stessa paura che arriva prepotente a portare a galla tante incertezze.

Il libro più illuminante che hai letto?

Osho, L’immortalità dell’anima.

Scegli tre delle tue opere, scrivimene il titolo e l’anno, e dammene una breve descrizione.

Ti propongo tre serie: Le Tenebre dell’anima, L’amore per te e Time.

Le prime due sono legate da una sorta di filo conduttore fotografico, un’esigenza: dare forma al dolore. Narrano di quel sentire profondo che lambisce anche le parti più remote e protette della nostra anima. Raccontano di quella sensazione di immobilità che ci pervade nel tentativo di. Troppo spesso siamo vittime di un amore che diventa carnefice.

Time nasce invece durante il primo lockdown e immortala il tempo cristallizzato dalla pandemia, un tempo durante il quale le mura domestiche diventavano una prigione. Il tempo di una quarantena imposta, lento, e che acquisiva un nuovo significato. Il tempo della paura, del disagio, di una alterata percezione delle distanze.

L’opera d’arte fotografica o pittorica che ti fa dire: “Questa avrei davvero voluto realizzarla io!”?

La Pietà di Michelangelo Buonarroti. Il dolore di una madre che accoglie un figlio maltrattato e ucciso, un dolore tagliente, che toglie il fiato. Un’opera tanto profonda avrei voluto realizzarla io.

Un fotografo o una fotografa che avresti voluto esser tu.

Stima profonda per Ferdinando Scianna e Letizia Battaglia.

Un critico d’arte o curatore con il quale avresti voluto o vorresti collaborare?

Achille Bonito Oliva e Vittorio Sgarbi.

La fotografia del tuo cuore, quella che porterai sempre con te?

Uno scatto tratto dal progetto Il Dolore che ritrae una mano in primo piano mentre si aggrappa fortemente al terreno. È un’immagine indelebile nel mio cuore.

Il mondo dell’arte contemporanea in tre aggettivi.

Figurativa, astratta, scultorea.

Tre delle tue virtù.

Fede, Giustizia, Temperanza.

Tre dei tuoi limiti.

Con i miei limiti ho un accordo: è quello di non rivelare mai in pubblico i loro nomi.

La frase più fastidiosa che ti sei sentita dire circa il tuo lavoro?

“Perché fai sempre foto tristi?”, una domanda che sa di frivolezza.

La descrizione più calzante del tuo lavoro?

Viscerale.

Il momento più entusiasmante della tua carriera fino ad oggi?

La Finale alla Biennale di Londra 2020, un momento meraviglioso.

Se non fossi una fotografa cosa saresti?

Imprenditrice, stare seduta in ufficio non mi si addice.

In quale altro ambito sfoderi la tua creatività?

Il ruolo del regista mi affascina, amo raccontare o creare storie, scrivere sceneggiature avvalendomi di un videomaker a cui spiego ogni dettaglio.

Work in progress e progetti per il futuro.

Uno su tutti L’anoressia dell’anima, un progetto che indaga il nostro malnutrirci di emozioni poco sane. È una sorta di rivisitazione dei gironi della Divina Commedia, in parte già esplorati nella serie Lo stupro dell’anima.

Il tuo motto in una citazione che ti sta a cuore.

Più che un motto è una frase che amo: “La gentilezza apre tante porte.”