Nel cortile del palazzo c’è un rigoglioso mandarino cinese e la portinaia è gentile. Sarebbe proprio stonato se Silvia Colasanti dovesse salutare ogni giorno una portinaia scortese. La compositrice ha l’anima in faccia, una bella faccia, e non serve una seconda occhiata per rallegrarsi di un incontro che riporta in auge la fiducia istantanea. Per conoscerla, quell’anima così evidente, servono invece ascolti attenti della musica che Silvia Colasanti scrive e delle parole che sceglie nella conversazione.

Per conoscerla appena, s’intende.

Romana, si è formata al Conservatorio Santa Cecilia con Luciano Pelosi e Gian Paolo Chiti. Si è perfezionata con Fabio Vacchi, Wolfgang Rihm, Pascal Dusapin e Azio Corghi all’Accademia Musicale Chigiana e all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ricevendo dal Presidente della Repubblica il Premio Goffredo Petrassi per la migliore diplomata in composizione.

Qualche notizia per dare l’idea e consigliare una visita al sito dell’artista: collabora con solisti di fama internazionale – fra gli altri Yuri Bashmet, Enrico Bronzi, Nathalie Dessay, Laura Gorna, David Geringas, Vladimir Yurovski, Jacques Zoon, Arturo Tamayo, Vladimir Mendelssohn, Daniel Kawka, Lior Shambadal, il Quartetto di Cremona, il Quartetto Arditti, Salvatore Accardo che dichiara: “La musica di Silvia Colasanti prende, arriva al pubblico. Ed emoziona, noi per primi che la suoniamo” - riceve commissioni dal Maggio Musicale Fiorentino, dal Festival dei Due Mondi di Spoleto che inaugura dal 2018, vince l’European Composer Award, a Berlino nel 2013.

Ha successo, per osare un termine inebriante e tremendo.

Che cosa le sta a cuore?

Nella vita o nella musica?

Nella vita.

Le relazioni umane.

Come le porta nella musica?

La musica racconta l’umanità. Il senso del fare musica è restituirsi ma, anche e soprattutto, condividere il racconto in suoni dei tratti, delle contraddizioni, delle ombre, delle fragilità dell’essere umano. Per questo per me è così importante il pubblico: il compositore non esiste se non esiste un interprete che suona la sua musica e qualcuno che l’ascolta. Comporre è il più grande antidoto alla solitudine perché non si è mai soli quando si scrive e tutto quello che viene dalla relazione umana autentica e profonda ha che fare con la tua introspezione, con quello che ridai sia nella musica assoluta, sinfonica e cameristica, che nel teatro.

Il teatro, ciò che amo di più: i personaggi, anche quelli apparentemente negativi, la comprensione della loro psicologia, dei limiti e delle debolezze… La musica deve insegnare la compassione e la totale assenza di giudizio: è il suo valore più alto.

Nel teatro questo è diretto perché c’è la drammaturgia, ma personalmente anche quando scrivo musica assoluta ho una mia drammaturgia interiore che vado a narrare.

L’ascoltatore coglie questa drammaturgia interiore?

Non so se sia importante che l’ascoltatore la colga, anzi non credo lo sia. L’importante è che ritrovi una parte di sé che non necessariamente deve coincidere con me o con quello che mi ha mosso.

L’assenza di giudizio della quale parlava pochi minuti fa, un concetto nobile. Talora le verrebbe voglia di giudicare, ma la musica aiuta a evitarlo, o non ha mai nemmeno la tentazione?

La mia difesa verso il mondo è la comprensione, la mia difesa non è il giudizio. Fortunatamente sono strutturata così.

Una fortuna inestimabile.

Sì, sono privilegiata. La comprensione non è qualcosa di bonario, di supino, di superficiale. Ci vuole un immenso lavoro interiore, un lavoro che non finirà: non ho certo raggiunto niente. Il bello della vita è il continuo lavoro di introspezione che conduce a una forma di comprensione di sé e di conseguenza dell’altro.

Conduce anche a una benevolenza verso Silvia Colasanti?

No, non mi viene spontaneo. Il peggior giudice di me stessa sono io.

La severità c’è anche sulla sua scrittura?

Sì, ma ho imparato a non “viverla”. Una parte fondamentale dell’arte è il rigore, in me connaturato, che ti spinge a non accontentarti e ad avere dei momenti, molti, in cui ti giudichi solo negativamente. Sei severo con te stesso, però credo faccia parte di un processo onesto, ecco. L’importante è approcciarsi in maniera leale e autentica a quello che si fa, poi non sta a me giudicare l’esito. Posso giudicare gli intenti.

Perché li sa.

Esatto.

È molto eseguita. Quanto la rassicura?

Le conferme sono arrivate e continuano ad arrivare, tante. Forse mi sono state più necessarie in altri periodi. La vera conferma che cerchi è quella dentro di te ed è la più difficile. Se non mi rispecchio in quello che faccio tutte le migliori conferme non mi bastano e quindi il processo in questi anni è stato quello di impegnarmi sempre di più sull’introspezione e sull’autenticità, sull’onestà per riuscire a restituirmi per la persona che sono, con le complessità, le problematiche.

È quello che succede a tutti, suppongo: più ti accetti, più sai che puoi piacere o non piacere, ma questo non deve spostare quello che tu sei. Trovo abbastanza adolescenziale, e mi è appartenuta, la ricerca di un consenso unanime, mentre il percorso di crescita ti porta invece a puntare sulle tue conferme e ad avere sempre meno bisogno di quelle esterne.

È molto importante perché fa vivere in modo sereno, io ho delle inquietudini ma non nascono da questo.

Da cosa nascono? Ma sarà privato… Non da intervista.

La complessità, le contraddizioni che esploriamo di noi stessi, che è indispensabile esplorare, non sono risolvibili: è la consapevolezza che ci aiuta a convivere con le nostre fragilità. Non ho neanche il fine di andare oltre questo.

È la vita che non è risolvibile?

Esatto. Già la convivenza con noi stessi la ritengo un ottimo compromesso. Guardare i tormenti. Nella vita e nella musica si parte nascondendosi. All’inizio si fa fatica a guardarsi, a restituirsi e allora è facile costruirsi. Anzi più che costruirsi, che è qualcosa di artefatto, nascondersi. Ci si nasconde dietro il mestiere, il virtuosismo, l’aggiornamento perenne, la conoscenza. A mano a mano, io che ho avuto una formazione solida, molto accademica se vogliamo, che non rimpiango affatto, ho capito che dovevo utilizzare i mezzi tecnici espressivi come strumenti non per nascondermi, ma per svelarmi.

I prossimi impegni. C’è una commissione dell’Opera del Duomo di Firenze?

Ci sono le residenze presso l’Orchestra Verdi a Milano, con un concerto cameristico, uno sinfonico e una nuova commissione per violino e orchestra, e presso l’Orchestra Toscanini di Parma, anche qui con una nuova commissione. A maggio Oltre l’azzurro. Il sogno di Brunelleschi1 che sarà eseguito in Santa Maria del Fiore in occasione delle celebrazioni dell’anno brunelleschiano, il 2020, che erano saltate per il Covid. L’Opera del Duomo mi ha richiesto di ricordare l’inizio della costruzione della Cupola, un episodio di seicento anni fa, e l’ho fatto con una sorta di melologo. A Maria Grazia Calandrone, autrice del testo, ho domandato di rendere un Brunelleschi morente che dialoga con la madre, che può essere anche vista come Maria, rappresentata da un personaggio multiplo che è il coro femminile, ed evoca, sia con qualche informazione pratica, sempre trasfigurata nelle parole, sia attraverso il groviglio interiore della creazione, la fabbrica della Cupola. Il coro maschile rappresenta gli operai. Al momento della morte interviene il coro di bambini: gli angeli accolgono l’architetto che ha lasciato una sorta di scala tra la Terra e il Cielo.

Durante la composizione aveva sempre in mente la Cupola?

Certo. Innanzitutto, ho letto varie biografie di Brunelleschi. Maria Grazia ha scritto su basi documentate, chiaramente tramutate in poesia, e con una nostra visione dell’artista, del suo “impastare la natura e la pietra”, di questo tentativo così ambizioso, per le modalità di costruzione, di usare la gravità presente in natura per ottenere qualcosa di umano, artistico. Poi c’erano la relazione con la madre, con la spiritualità di Santa Maria del Fiore e anche il rapporto con la committenza che è un argomento attuale.

Io non vivo scissa fra l’elemento concreto della vita e l’elemento artistico, per me la committenza non è… sporcarsi le mani, ma uno stimolo alla creatività. Le committenze non sono gabbie, e non lo erano all’epoca, ma un qualcosa che deve stimolare la tua capacità di trovare la soluzione che appartiene solo a te all’interno di una richiesta altrui. Non è limitante, anche perché si può dire di no. È d’ispirazione essere noi stessi dentro la realtà. Facile estraniarsi dal mondo oppure vivere il compromesso solo del reale invece bisogna trovare l’equilibrio e la musica ti ci porta. Ed è quello che ti ritrovi nella vita perché la relazione con l’altro è fatta di te e dell’altro. Non possiamo certo cambiare il mondo ma lavorare su noi, questo è ovvio. La trovo l’avventura più affascinante e avere i mezzi per poterlo fare con la musica è una fortuna.

Un compositore molto amato?

Monteverdi. Scrivere oggi è una grande difficoltà perché il passato ci ha lasciato un patrimonio artistico così ricco: dei geni incredibili si sono confrontati con le cose con le quali ci confrontiamo noi e questo ti fa venire facilmente la tentazione di non scrivere niente. Avere consapevolezza storica, e io ho avuto una formazione che avrebbe potuto essere quasi schiacciante, vuol dire rischiare tutti i giorni di aver voglia di cambiare lavoro perché ci si sente completamente inadeguati a confrontarsi con vette inarrivabili.

E allora che si fa? Si cerca, come sempre, di trasformare il limite in un’opportunità.

Secondo me l’opportunità che la nostra epoca ci offre, e altre epoche non l’hanno offerta, è di guardare con la stessa distanza Claudio Monteverdi, George Benjamin, Rihm, Britten, Henze e questo ci permette di mantenere sempre aperto un dialogo con quello che abbiamo amato, con quello che amiamo ancora, guardando al presente e al futuro. L’arte sicuramente è ricerca, anche ricerca, ma non del nuovo perché non c’è novità che tenga il giorno dopo. La ricerca deve essere la riflessione sul presente, utilizzando i vocaboli che la storia ci ha consegnato, ricontestualizzandoli, e mostrando che possono avere ancora una forza.

Partiamo perdenti, ma sapendo che abbiamo tanti strumenti, quelli del nostro passato più vicino, del nostro presente. Abbiamo la vita e lo sguardo dell’oggi. Noi non scriviamo saggi di filosofia, noi facciamo arte e questo vuol dire che la ricerca, il rigore, la competenza, lo studio devono essere veicolati attraverso quello che ti permette di toccare il profondo che è il sentire, l’emotività, la percezione. Se l’arte è restituire l’umanità più intima non lo si fa con un solo linguaggio. In questo senso ho detto Monteverdi.

Non perché non ami Mahler o Berg o tutto l’espressionismo viennese, ma per dire che i miei riferimenti possono essere vicini e lo sono, ma poggiano i piedi in un passato che può sembrare lontanissimo ed è la nostra identità. Monteverdi è vivo!

C’è una grande atemporalità nell’arte. In Monteverdi, in Francesco Cavalli o in Britten sentiamo l’uomo raccontato con tanti vocaboli diversi. È come leggere Dante. Non conta se la parola è diventata desueta, l’importante è che abbia la forza di dire qualcosa che ci riguarda.

Avere dei bambini in giro per la casa?

Ne parlo sempre poco, ma mi fa piacere parlarne ora: sento di non essere fraintesa. È molto delicato perché credo che ci siano tanti stereotipi su come la maternità possa sottrarre del tempo a quella che è la realizzazione professionale di una donna. La qualità della composizione richiede tempo e i figli, io li ho fatti per starci insieme, richiedono anche loro del tempo come è giusto che sia quando si costruisce un rapporto. Quindi non dico che gli stereotipi nascano senza motivo dico, però, che i figli mi hanno fornito enormi strumenti di consapevolezza e di introspezione e si vede in quello che ho scritto negli ultimi dieci anni. La Metamorfosi l’ho scritta con Antonio in pancia e già lì... Perciò mi sento di smentire il preconcetto: a me i figli danno tanto, con una ricaduta molto forte nella professione sia dal punto di vista delle conferme di cui sopra, delle cose da fare, delle richieste, sia nell’approfondimento perché un rapporto così particolare ti porta una serie di riflessioni che non possono non aiutare.

Credo, per allargare il discorso, che la donna abbia tutto il diritto e il dovere di rivendicare dei ruoli che la storia non le ha voluto assegnare (partiamo con millenni di ritardo e ce la stiamo mettendo tutta) però deve rivendicare anche la sua femminilità. Non è che voler fare un lavoro appannaggio degli uomini debba portarci all’errore, laddove se ne abbia voglia ovviamente, di non appagare il desiderio di maternità. Io a essere madre non avrei rinunciato per nulla al mondo. L’età mi ha insegnato che quando si realizzano i desideri non si sa che cosa si diventerà dopo, ma un’esperienza umana così forte, così profonda non può che avere una ricaduta fondamentale sulla composizione.

Certo, anche io faccio i conti con il tempo, ma a volte sblocchi un passaggio creativo quando esci per andare a prendere tuo figlio a scuola. La vita concreta non è assolutamente slegata dalla vita artistica, ne sono convinta.

Magari altri hanno una visione più romantica.

Conosco una persona che non ha ricomprato la lavastoviglie perché, sostiene, fare i piatti al mattino favorisce il contatto con la vita.

Non poteva dirlo meglio. I bambini non sono lavare i piatti, ma vivo la praticità esattamente così.

Tornando al figlio: devi sempre sapere che è un altro, con la sua libertà. Io non mi arrogo il diritto di dire che l’ho capito, sarebbe molto presuntuoso, però lo vivo e mi nutre, anche perché penso sia terribile pensare di amare costringendo, un enorme limite per chi lo fa.

Una cosa che non conosco.

1 Silvia Colasanti, Oltre l’azzurro. Il sogno di Brunelleschi. Dramma in musica per attore, coro misto, coro di bambini e orchestra. Testo di Maria Grazia Calandrone. Opera creata su iniziativa di Santa Maria del Fiore di Firenze per i seicento anni dall’inizio della costruzione della Cupola di Filippo Brunelleschi. Progetto sotto la direzione artistica di Francesco Ermini Polacci.