Continua la mia ricerca su eventi, di grande portata culturale e artistica dimenticati o perduti, avvenuti in questa città. Nei Corsi di Istruzione Superiore presso l'Aula Magna della Casa Matha dedicati all'area artistica, Marcello Landi organizza da diversi anni una serie di conversazioni nelle quali, spesso, trovo materiale adatto alla mia ricerca. E così puntualmente è avvenuto il 4 febbraio scorso.

L'argomento: La battaglia di Alessandro, milioni di tessere ovvero la ricostruzione dell’impresa portata a termine da alcuni mosaicisti ravennati che nel 2005 realizzarono la perfetta copia di quel famoso mosaico ellenistico. Ritrovo anche qui le tracce dell'amico Saturno Carnoli che rimane tra noi e mi commuove sempre per le sue imprese al limite del possibile, in una città assonnata che dimentica e che non vede. Ritrovo Carnoli nelle parole di amiche e di amici che ostinatamente continuano a richiamare la sua memoria, quella del suo lavoro e del suo impegno.

Non conoscevo nulla di quanto ascoltavo. Come se questa opera di grandi dimensioni fosse stata realizzata altrove e così ho chiesto a Cesare Albertano, uno dei relatori di quella conversazione, di ricostruire anche qui la straordinaria catena anaforica che costituisce la storia di quel mosaico. Però prima vorrei accennare alla composizione dell'opera. Nel mosaico della Casa del Fauno a Pompei, ci sono due elementi che mi hanno sempre incuriosita. Il primo elemento riguarda la posizione defilata di Alessandro – di lato e in secondo piano – e il secondo riguarda un primo piano con le terga di un cavallo. Chissà? Anche a quei tempi qualche segno pacifista? E in questo periodo, dove nel mondo sono in atto 23 guerre, tutte portatrici di tragedie immani, dolore e morte, mi piace pensarlo.

Milioni di tessere per la Scuola Bottega del Mosaico di Ravenna, Cesare Albertano

Quello che tentiamo oggi è un viaggio all’interno di un progetto realizzato vent’anni fa ma che sembra essersi perso nelle nebbie dell’inverno ravennate: la realizzazione della copia del mosaico della Battaglia di Alessandro realizzato dalla Scuola Bottega del Mosaico di Ravenna, da alcuni straordinari maestri e da una decina di loro allievi.

Il famoso emblema ellenistico, l’originale potremmo dire se non fosse che la questione è ben più complessa, venne scoperto agli inizi degli anni Trenta del XIX secolo nell’area archeologica degli scavi di Pompei e in particolare nell’esedra, una specie di salotto di rappresentanza delle dimore romane, della cosiddetta Casa del Fauno. È un’immagine che potremmo definire iconica, ma a ben vedere si tratta di un’icona universale, proprio perché universalmente riconosciuta e ormai introiettata nell’immaginario collettivo alla pari di una Monna Lisa leonardesca o di un Giudizio Universale michelangiolesco.

Il problema è che tutta questa vicenda ha una dimensione di assoluta unicità, quasi una sorta di straordinaria catena anaforica nella quale un evento originario a suo modo unico è stato continuamente riattivato in tempi e luoghi successivi da eventi altrettanto unici. Visto che le anafore funzionano come segnali di continuità per l’interprete, seguiremo questa pista che da un mito della storia antica, Alessandro Magno, conduce fino alla Ravenna di oltre due millenni dopo.

Affrontiamo il primo antecedente anche se è impossibile dire qualcosa di nuovo su un fenomeno così importante, protagonista della più articolata stratificazione narrativa che la storia abbia mai prodotto: la vicenda di Alessandro Magno. La sua vita venne costruita come mito dallo stesso ambiente della corte macedone, dal padre Filippo II e dalla madre Olimpiade d’Epiro, che per emergere non solo militarmente ma anche culturalmente sul polifonico mondo delle poleis greche, elaborò per la prima volta un’idea di crociata ante litteram per rafforzare il proprio potere e per ricompattare una realtà da sempre fondata sui particolarismi cittadini. E le crociate hanno sempre bisogno di inventarsi un nemico. Prima Filippo II e poi il figlio Alessandro il nemico lo individuarono nella Persia degli Achemenidi che all’inizio del V secolo a.C. avevano tentato di sottomettere le poleis greche in un conflitto durato vent’anni (499-479 a.C.). Pur avendo avuto esiti nel complesso positivi per la realtà ellenica che aveva mantenuto la propria autonomia, quell’urto aveva lasciato segni traumatici nella memoria collettiva dei Greci che i Macedoni seppero riaccendere a distanza di un secolo e mezzo.

Qual è dunque lo storytelling che sottende la missione della corona macedone? Lo slogan venne confezionato ad arte: “Andremo in Persia e per vendetta distruggeremo i loro templi, restituendo ai Persiani ciò che fecero a noi Greci*”. Per fare questo e per rafforzare la propria “grecità” Alessandro si fece simulacro vivente dell’eroe epico Achille di cui si considerava la reincarnazione, ma non dimenticò di gettare un ponte verso Oriente facendosi simulacro anche del dio egizio Ammone di cui si considerava figlio. Il resto lo conoscono tutti: in pochi anni Alessandro sgominò gli eserciti persiani, creò i presupposti per una fusione etnica dei molti popoli che aveva sottomesso e si spinse fino alla fine del mondo allora conosciuto. Morì giovane il Macedone, proprio “come coloro che sono cari agli dei”, secondo la famosa affermazione del commediografo ateniese Menandro.

Il suo progetto politico di fatto si arenò, anche se le conseguenze furono importanti e durature, ma la sua leggenda non si esaurì affatto. Anzi si scoprì potentissima, in grado di attraversare i secoli successivi aumentando la sua portata: la romanità repubblicana, la latinità imperiale, il medioevo cristiano, la rinascita dell’Antico alle soglie dell’Età Moderna. Tutti ereditarono il mito, lo manipolarono a loro uso e consumo, lo resero interprete dei loro tempi e garanzia di valore per tutte le stagioni.

Andiamo ora al secondo indizio della nostra “catena”: grazie a quella radicale riscoperta dell’Antico che gli scavi settecenteschi di Ercolano e Pompei ravvivarono, ricomparve l’eroe macedone in quello straordinario mosaico pavimentale che decorava la sontuosa Casa del Fauno che, in età repubblicana, un ricco mercator italico si fece costruire seguendo le raffinate mode ellenistiche. Il proprietario venne di certo attratto dalla cosiddetta “luxuria asiatica” come tutti i provinciali privi ancora di cittadinanza ma, sempre più ricchi e potenti, desiderosi di competere con i più austeri padri fondatori della res pubblica romana.

La sede che accoglieva il “Gran Musaico” era una villa di quasi 3 mila metri quadri, simile alla pianta di una reggia imperiale, decorata con mosaici di matrice ellenistica, con continui riferimenti all’ambiente paesaggistico del Nilo egizio e del culto di Dioniso. Fra tutti campeggiava il mosaico della famosa battaglia di Alessandro contro Dario III, forse identificabile con la battaglia di Isso (333 a.C.) per via di un tronco d’albero solitario e privo di fronde sullo sfondo della scena che richiamerebbe una vulgata popolare asiatica che ricordava quell’epico scontro come la “battaglia dell’albero secco”. Copia del I secolo a.C. di un originale pittorico di poco successivo alla vicenda storica di Alessandro, è stato attribuito a più riprese ad Apelle, a Filosseno di Eretria, a Heléna d’Egitto o ad altri ancora, a dimostrazione che le attribuzioni in assenza di fonti certe non sono mai facili, specie quando il clima leggendario delle narrazioni confonde e sbiadisce i profili netti della storia. Ricordiamocelo però: il mosaico della Casa del Fauno era già una copia eseguita probabilmente da maestranze alessandrine su un modello ellenistico precedente.

Sempre nella scia di questi eventi unici, nel 1843 i responsabili borbonici, provenienti da un ambiente di archeologi e storici in fase di evoluzione ma ancora alle prime armi nella gestione di reperti antichi, decisero di spostare il mosaico a Napoli per meglio conservarlo. Lo staccarono, lo portarono su un carro tirato da sedici buoi scortato da soldati armati e lo collocarono in posizione pavimentale in una sala apposita predisposta presso il Real Museo Borbonico. L’impresa rasentò la follia, perorata da alcuni e sconsigliata da altri, ma pur sempre nella consapevolezza dell’unicità di quel mosaico, come testimonia perfino una dichiarazione di re Ferdinando II di Borbone in una illuminante lettera all’allora direttore degli scavi di Pompei, Pietro Bianchi, al quale raccomandava “di badar bene a quello che si facea, perché questo monumento non era nostro, ma dell’Europa, ed alla intera Europa doveasi dar conto delle nostre operazioni”. Solo all’inizio del XX secolo la posizione del gran mosaico da pavimentale divenne parietale, ma la riuscita di quel temerario spostamento lasciò il suo luogo di origine gravemente mutilato per oltre 162 anni.

Eccoci giunti all’ultimo indizio della nostra catena anaforica: Ravenna. Titolare di uno straordinario prestigio nazionale e internazionale nel campo del mosaico, l’ambiente ravennate riuscì ancora alla fine del XX secolo, pur tra molti segnali di crisi che già si intravedevano negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, a piazzare un mirabile “colpo” tra i molti già realizzati nei suoi rapporti con l’arte antica, in particolar modo nel settore delle copie e del restauro (tra gli altri Piazza Armerina, Bari, Trani, Lecce e soprattutto Otranto).

Nonostante il progressivo disimpegno istituzionale nei confronti del mosaico che culminerà con la chiusura di quelle scuole che resero famosa la città e con la conseguente marginalizzazione di quel linguaggio artistico e di quel sapere, all’inizio del nuovo millennio c’era ancora un Consorzio Provinciale per la Formazione Professionale che si occupava di mosaico capace di dar vita alla Scuola Bottega del Mosaico con maestri di valore e con organizzatori di assoluto livello, sul modello dell’esperienza di Zampiga negli anni Venti e poi di Salietti e Signorini tra gli anni Quaranta e Sessanta (solo per ricordare i più noti e famosi).

Uno dei suoi ideatori, Saturno Carnoli, in un documento programmatico della Scuola chiariva: “la Scuola Bottega del Mosaico vuole collocarsi in un’area intermedia tra percorsi formativi e mercato, dove docenti e studenti (anche stranieri) producano direttamente su commesse private e pubbliche che diventano specifici progetti formativi e produttivi insieme, senza finalità di lucro”. L’osmosi tra i saperi dei maestri musivari e la passione dei giovani allievi aveva come conseguenza l’apprendimento dell’arte, il cimento nella riproduzione di copie antiche e nella realizzazione di progetti contemporanei, l’acquisizione delle competenze per fare impresa. La Scuola che ebbe come sede principale i locali del C.I.S.I.M. (Centro Internazionale Studi e Insegnamenti Mosaico) di Lido Adriano, produsse in quei primi cinque anni del nuovo millennio sei eccellenti prodotti: un laboratorio con mostra didattica delle copie dei mosaici antichi provenienti da San Giovanni Evangelista di Ravenna (2001), un laboratorio con mostra didattica di copie di pavimenti musivi antichi e alto medievali desunti dall’inventario ravennate, un manufatto musivo di alto valore simbolico (il Mosaico per la Pace collocato al Sacrario dei 56 Martiri a Madonna dell’Albero) e un altro per l’arredo urbano (la colonna dei Giardini Speyer che riproduce una torre della città di Gerusalemme), oggettistica di qualità in mosaico, ma soprattutto la copia del mosaico della Battaglia di Alessandro proveniente da Pompei.

Era stato staccato e collocato a Napoli, come abbiamo visto, negli anni Quaranta del XIX secolo, per evitarne il degrado, ma la conseguenza era stata quella di lasciare il sito pompeiano originario orfano di un elemento insostituibile. I responsabili del sito archeologico di Pompei, tra i quali il sovrintendente Pier Giovanni Guzzo, stavano cercando un’impresa capace di realizzare una copia identica per risarcire finalmente quel vuoto e rendere più leggibile quello straordinario sito archeologico. Due gli ostacoli che allora parvero pressoché insormontabili proprio perché tra loro incompatibili: la difficoltà di individuare chi fosse in grado di realizzare la copia e, proprio a causa dell’alta competenza tecnica necessaria e i lunghi tempi di lavorazione, i costi esorbitanti.

Solo una scuola di alta formazione poteva conciliare queste esigenze e il coordinatore della Scuola Bottega del Mosaico, Enzo Pezzi, e il responsabile delle relazioni esterne e del marketing, Saturno Carnoli, seppero cogliere al volo l’occasione. Mosaicisti come Severo Bignami, Paolo Racagni, Paola Perpignani e una decina di allievi confezionarono il manufatto in circa due anni di lavoro e nel 2005 avvenne la posa della copia, perfetta nei minimi particolari, identica nella forma e nella sostanza.

Alessandro tornò finalmente a Pompei. L’impresa era stata realizzata, ultimo elemento della nostra lunga catena anaforica, e non va dimenticata, così come non va dimenticato quel patrimonio di saperi e di competenze che nel passato fece di Ravenna una capitale del mosaico a livello mondiale grazie alla funzionale sinergia tra la greca téchne, la perizia del saper fare, e la politeia, la capacità di organizzare il bene comune. Ricordiamocelo, perché si sa che l’oblio non ha mai aiutato nessuno.