Io chiedo ad ogni uomo che pensa
di mostrarmi ciò che sussiste della vita.

(Charles Baudelaire)

Quando contemplo le opere di Loredana (si tratta infatti di “opere” e non di meri quadri e opere che vanno contemplate e non solo “viste” o “guardate”, piuttosto: sguardate) mi viene sempre in mente una parola che sembra estemporanea: temperatura! Sono dei corpi! E il corpo interpella sempre gli altri corpi in cui il pensiero è incluso e naviga. Una pittura infatti filosofica in quanto corpica, esprimente e celante uno speciale timbro, una sua propria “temperatura”, cioè un singolare ritmo e intensità di vita.

Una pittura border line, non facilmente liquificabile. E vedete che già il parlare sborda, smargina, alla ricerca di nuovi territori per poter captare con adeguata attenzione le lingue altre di Loredana, per potersi lasciar metamorfizzare davanti allo specchio di un’arte che ci chiama alla sua iniziazione.

Per meglio captarla senza interferire occorre tenere in mano un libro: La folie Baudelaire di Roberto Calasso, con la sua copertina indaco tenue, tra le cui pagine bianche del fondo ho scritto questo parlare.

In questa pittura si percepisce il medesimo andamento del pensiero di Baudelaire-filosofo innato di cui parla Calasso, cioè un ritmo che procede in immediatezza attraverso un continuum di oscillazioni e torsioni. Pure si coglie al volo l’aura della pittura francese e della Francia quale Pittura: dalle ossessioni visive di Ingres all’incantevole disincanto di Degas. I letti sfatti di Loredana colgono una terra di mezzo tra l’eros dell’indolenza di Delacroix e i letti-voragini inquiete di Adolf Menzel. La “Francia” quale epos della solitudine della mente nel labirinto del mondo-città, quale canto borghese di una paradossale liricità tenace e imprevista. Un mondo pittorico che si presenta allucinatoriamente dalle tenebre del non detto e del non vissuto con più incivisività dell’esteriore stesso. Un isola-mondo bastante a se stessa.

Quale sia di preciso quale magica temperatura non è facile a ripetersi al di fuori del suo esperirsi. Forse la temperatura di una pittura che sembra stare tra un’oggettivazione non alienata e una recita non simulativa, ma presenziale, non rappresentativa di altro.

Ecco uno dei suoi prodigi: il dono di lenti sfocate per intensificare l’evidenza del mondo quale sfocatura. E allora sentiamo l’ebbrezza d’infanzia di un Kerenskij deposto che gioiva per la sua scelta, da miope, di non indossare occhiali per poter godere del mondo quale indistinto nebuloso e metamorfico. L’anima delicatissima e tenace di Loredana ci dona simile processo terapeutico e teurgico: allontanare l’oscurità sociale e immergersi nel sottile brivido delle nebbie del fluido interiore.

Immersività tiepida? La fertile ambiguità del tiepido, cantato anche da Paolo Conte quale vicino abisso. Un’immersività che ci accoglie e si lascia attraversare senza toglierci nulla ma pure senza perdere alcunché del proprio esserci.

Il lucido rimando che Loredana fa a Bukowski, anche lui: Charles, appare perfetto e stupefacente indice di un’unità di autocoscienza artista-opera assai rara. Di solito infatti l’artista sa poco dei territori implicati dalla sua opera. Baudelaire-Bukowski, cioè la stessa anima scapigliata e sensibilissima che naviga tre le nebbie desertiche della Grande Città. Lo stesso pensiero che è la lirica nel post-storico che ha consumato il tempo, dove regna l’ossimoro pittorico che è l’opera di Loredana tra la borghesia quale categoria metafisica e la borghesia (cioè: l’interno assoluto) quale rivolta d’interiorizzazione dentro la voragine del nulla seriale. “Borghesia” non quale retorica dello scambio prostituzionale ma quale ritualità senza credo, totem senza volto, singolarità totale che si torce immersa nell’opacità sociale.

Un otium languido, unica filosofia possibile, dove il percepire è velo sottile, cioè la vana fuga del pensiero nel ricorrere tutte le innumeri nuances che magnetizzano lo sguardo quali declinazioni incessanti dell’Unico. Opere quasi monocromatiche dove colore è dato dalla variazione delle qualità e intensità di luminosità in un continuum il cui magnetismo cela le proprie polarità.

Non può dirsi così anche della vita? Chi può dire di conoscere o possedere le sue polarità pur vivendo dentro il suo magnetismo?

Loredana supera finalmente quasi ogni dualità convogliando i mondi pittorici con elegante sprezzatura dentro l’Occhio lucido di un’autocoscienza innata, viscerale, dove regna l’eros di una sapiente sonnolenza che risveglia dall’incubo della pseudo-veglia quotidiana con i suoi ritmi anti-naturali.

Pensiero colto nel suo sciogliersi nel corpo e corpo che inizia a rapprendersi quale pensiero. Processo ermetico, anche reversibile, così la messa in scena della pennellata pastosa di Loredana. Tutto oscilla e riscalda ma dall’interno e senza uscire dalla propria presenza.

Le stanze di Loredana, o meglio: l’unica perenne Stanza, appaiono quali sfingi avvicinabili, quasi domestiche ma mai abdicanti dal proprio enigma e apprezzabili quali corpi tra i corpi.

L’unità alchemica dell’Etere, come per la risonanza universale di microonde che compare ovunque, sembra reggere il discorso pittorico, l’unità organica della Stanza.

“L’oscurità naturale delle cose” di cui parla Calasso su Baudelaire qui acquista per un momento, nell’intimità unica ma non sola di un unico sguardo, una più vicina luminosità diffusa. E senza perdere l’omnilateralità assorbente del caos dell’indicibile quotidiano.

Le stanze, gli oggetti e i letti e gli stessi “umani” non sembrano, finalmente, segno di altro, pretesto o mera occasione o decorazione ma apparizione viva di un incontro intimo in corso.

Loredana riesce sapientemente a cogliere e restituire la difficile, sottile e naturale distanza tra le cose e tra se stessi e la propria capacità percettiva e noetica.

Ciò che sembra solo “abbozzato” non si riduce a mera metafora né a simulacro ma appare in trasparenza assoluta l’immediatezza della sub-stantia dell’esserci, la radice del processo di percezione, il “mondo” quale sussurro incessante, qui provvidenzialmente smorzato e rarefatto attraverso la tenda pittorica (nella letterarietà formale del ri-velare quale “velare in modo nuovo”). La pittura quale disposizione fluida di un mondo quale enigma, passaggio, distanza non risolubile oltre lo sguardo.

Ecco perché oltre la pittura stessa quale procedimento tecnico si può parlare di “Opera” per Loredana: lo sguardo che allucina l’oggetto senza risolversi in esso, la visione che implode centripeta tra la scena e la sua assenza, qui entrambe implicate. Un’arte che sarebbe piaciuta all’amico di Calasso: quel geniale Carmelo Bene che citava spesso Krauss e Deluze nel sottolineare il valore linguistico centrale “dell’assenza”. E ritorna l’aspetto di pathos dalle nebbie del Mito, liberato finalmente dall’ego e dal mondo, sia quale rappresentazione che quale volontà. Qui la volontà si dà solo al massimo nella passività accogliente dello sguardo e la scena è libera dal virus dell’intenzione pedagogica.

La “Stanza” quale testimonialità pura, radicale, ma senza perdere il calore dei corpi nel corpo pittante che sente e si fa pennello. La “riconoscibilità” evapora proprio nell’assunzione lucida e libera del dato formale-letterale che incredibilmente non appare più quale “già visto” o quale compensazione o meccanismo dialettico ma si dà piano e impersonale nel languore fluido di un regno in cui non si è ancora irrigidita la luce di Zeus. Ecco, quindi, l’effetto benefico e terapeutico di tale arte: il giocare il mondo senza maiuscole in una superiore e aristocratica “nolontà” (a dirla con Schopenhauer) che non “tende” ad auto-alienarsi (come oggi accade quasi ovunque) ma illustra la propria natura semplicemente e heinzianamente s-quadernandola dall’interno.

Oggi solo in questo sapiente dormiveglia è possibile lasciare respirare l’aura dell’Unico, della singolarità assoluta, indicibile del Vivente. L’Unico il cui svanire ci affascina, il cui vuoto ci incanta, la cui semplicità irriducibile ci spaventa. Gli “umani” stessi ricevono un’indiretta ri-legittimazione quali nuances tra le pieghe di un lenzuolo senza confini, quali oggetti tra gli oggetti, nel loro silenzio che rispetta la folla di voci che è la Stanza nel suo fertile vuoto.

Che siano figure femminili o visioni aeree di grandi metropoli o una betoniera parcheggiata non muta il Discorso, la pittura quale linguaggio apolide: sempre si gode il silenzio poietico tra geometrie non euclidee dove la luce sfrangia la sua materia, imprecisa come l’insostenibile vita e come la povertà linguistica del greco antico sui colori (per eccesso di luce); dove l’Unico mostra la sua numinosa ombra nell’atto aionico della captazione tra il dissolversi nel tempo e il risuonare del senza nome. È il kairòs effimero qui delicatamente perdurante dentro un giroscopio animico infallibile anche in assenza di orizzonte. Silenzio e assenza ma mai carenza nella pienezza dello svuotarsi epifanico delle cose.

Rotte le sequenze delle “catene di montaggio” mentali nell’autorità decisa del gesto pittorico possiamo ammirare la perla rara di “quell’abbandono depensante” che Carmelo Bene amava e che riteneva essere, solo, l’essenza dell’Arte. Lo sguardo languido e trasognato della giovane donna in rosso in Una Notte con Bukowski restituisce specularmente lo speciale sguardo pittorico di Loredana.

C’è chi può pensare ad un ricordo, chi al passaggio di un desiderio o ad un mistero del vivere nel contemplare questi sguardi pittorici. Io non penso a nulla, lasciandomi cullare dall’intensità a nozze con gli opposti: velocità e intimità. Nozze che celebrano l’Olos.

Le due nature di Hermes, il secco e l’umido, eccole finalmente unite in pace ierogamica. Un’arte copulare, unitiva nelle sue croniche aritmìe.