Nella inquietante stagione che stiamo attraversando, colpisce la pressoché totale assenza di un dibattito pubblico sulle grandi questioni che stanno emergendo; la estrema radicalizzazione del linguaggio politico, che in parte è determinata dalle esigenze ‘urlatrici’ della propaganda, ed in parte dall’affievolirsi delle differenze sostanziali tra i soggetti in scena, sembra essersi spinta ad una misura tale da produrre un livello di polarizzazione che esclude la possibilità del confronto, del ragionamento, e che non consente altro se non il prendere posizione.

Pure, questa stagione ci sta squadernando innanzi problemi di non poca rilevanza, che richiederebbero più che mai una messa in campo delle intelligenze e delle sensibilità collettive.

Per quanto sia consapevole che la suddetta ‘estremizzazione’ del linguaggio non implica una aderenza stretta tra le parole utilizzate ed il pensiero che si vuole esprimere, ritengo che possa talvolta rivelarsi fuorviante, e comunque inadeguato - appunto - a stimolare il confronto. Trovo, ad esempio, che l’espressione ‘dittatura sanitaria’, che ha fatto spesso capolino nei discorsi pubblici, sia - pur nella sua rozza estremizzazione - pericolosamente fuori bersaglio, ed a null’altro serva se non a precludere un ragionevole confronto su alcune delle tematiche sottese.

È indubbio, infatti, che il tempo presente veda delle trasformazioni sostanziali nelle regole del vivere civile, e proprio il fatto che tali trasformazioni non siano una eccezione apparsa all’improvviso, ma al contrario siano una accelerazione di processi in atto da alcuni anni, testimonia come non siano sic et simpliciter il prodotto eccezionale di una fase eccezionale, quanto piuttosto l’uso consapevole dell’eccezione, al fine di portare a compimento i summenzionati processi.

In particolare, vi è un aspetto - che mi sembra davvero incredibilmente poco sottolineato - a mio avviso assai degno di nota. Ed è l’emergere, in un quadro generale di ‘rarefazione’ della democrazia sostanziale, di una trasformazione dello stato sotto il profilo ‘filosofico’. Il nostro Paese, com’è noto, ha una Carta Costituzionale che, pur con dei limiti, può essere considerata un’ottima mediazione tra le culture politiche che l’hanno a suo tempo prodotta; e che, ciò nonostante, appare comunque pienamente organica e coerente. Di là dalla vulgata sulla ‘Costituzione più bella del mondo’, essa è in effetti un solido impianto, su cui è stato possibile fondare la nostra democrazia rappresentativa. Lo stato che la Costituzione disegna, infatti, non è lo ‘stato liberale’ strictu sensu, né tantomeno lo ‘stato socialista’, ma tratteggia un punto di equilibrio, che può - come in effetti è stato storicamente - oscillare più verso l’uno o l’altro di questi ‘modelli’, me sempre restando nell’alveo della Carta stessa.

La trasformazione ‘sottile’ che mi pare di cogliere, e di cui dicevo prima, è quella che si sta producendo nella concezione stessa dello stato; non più seguendo quel moto oscillatorio, che fungeva in ultima istanza da riequilibratore nel gioco degli interessi contrapposti, e dei relativi rapporti di forza, ma spingendosi oltre in una precisa direzione. Da quasi un trentennio, parallelamente alla crescita dell’integrazione europea nell’ambito dell’UE, lo stato italiano ha fortemente accentuato la sua identità come stato ‘liberale’ - cosa facilmente riscontrabile dal parallelo emergere dei diritti individuali, ed affievolirsi dei diritti sociali. Al punto che tale identità viene oggi rivendicata dall’intero schieramento politico parlamentare, quali che ne siano le origini ed il pensiero storico.

Ciò che si sta determinando oggi è uno slittamento verso lo ‘stato etico’.

Lo Stato etico decide qual è il comportamento ‘eticamente edificante’ e invece di considerare i cittadini portatori di diritti pretende di educarli.

(Barbara Speca, Stato liberale e Stato etico)

Questo mutamento, radicale, della concezione che lo stato ha di sé, del proprio ruolo, e quindi del suo agire nei confronti dei cittadini - cui, formalmente, ancora spetta la sovranità - è forse l’aspetto più inquietante del tempo presente. Pur in presenza di una evidente torsione ‘autoritaria’, che quanto meno può autogiustificarsi, ed essere accettata, come temporanea conseguenza dello stato di eccezione, questo mutamento rischia di radicarsi nella coscienza dei più, finendo quindi per costituire l’humus in cui si fonda il passaggio da temporanea a permanente.

Come è evidente, quella che si pone è una questione che prescinde dal merito. Nello specifico, infatti, è chiaro che si possano avere opinioni diverse, ed anche divergenti, a partire dalle motivazioni che si adoperano per giustificare questo slittamento di senso. Che, peraltro, avviene in modo non dichiarato (forse, almeno per alcuni, persino in modo inconsapevole); nessuno, infatti, riconosce la sussistenza di questo processo, e si ritiene che tutto ciò avvenga sempre nel quadro di uno stato liberale.

Ma in realtà è proprio il discorso pubblico ad affermarlo nei fatti. Abbiamo infatti uno stato che, pur disponendo degli strumenti giuridici per imporre una decisione ritenuta necessaria, sceglie sul piano formale di non farvi ricorso, e quindi, sempre secondo una adesione formale ai principi liberali, lascia libera scelta al cittadino. Ma che dall’altro, non solo attraverso una serie di provvedimenti, ma anche attraverso il discorso pubblico, in capo a tutto attraverso le parole delle massime autorità, indichi una delle scelte - lecite e possibili - come il Male sociale.

In questa estrema contraddizione, tra l’adesione formale ai principi della libera scelta individuale, e la riprovazione pubblica di una delle opzioni possibili, sta il nocciolo, il germe di una trasformazione sottile dell’idea di stato. Non più prodotto di un contratto sociale tra cittadini, i cui termini possono essere variamente rinegoziati nel tempo, in base al mutare dei rapporti di forza, ma autoritas morale, che indica ciò che è bene e ciò che è male, e che discrimina tra i cittadini non in base alla rottura o meno di quel contratto, ma in virtù della propria pretesa di possedere una verità etica superiore. Il che, considerando che lo stato, nella sua articolazione pratica, diviene espressione delle élite al potere protempore, appare assai inquietante.

Questo tipo di deriva la vediamo all’opera in Ungheria e in Polonia, ad esempio. E sappiamo come, ad essa, inevitabilmente segua una trasformazione concreta dello stato, una modifica sostanziale delle norme che regolano i rapporti tra cittadini, e tra questi e lo stato. Ed è del tutto secondario quale sia la natura ‘ideologica’ che anima chi vuole imporre la propria visione; che sia un nazionalismo xenofobo, un conservatorismo a forte connotazione religiosa, oppure un liberismo economico, la rivendicazione di una autorità etica dello stato non è che lo strumento ideologico che ne consente l’affermazione.

La radicalizzazione del linguaggio politico, si diceva, rischia di essere fuorviante, e quindi andrebbe usata con cautela. Ricordare quindi che il massimo teorico italiano dello ‘stato etico’ fu il filosofo Giovanni Gentile, ministro del fascismo, non significa voler affermare un allineamento automatico tra concezione etica dello stato ed organizzazione fascista dello stesso. Certo, segnala quanto meno una estrema compatibilità. Ma in ogni caso, persino più di una strisciante ‘evoluzione’ oligarchica della democrazia rappresentativa (che pure è in atto), questa silente affermazione dello stato come suprema autorità morale si configura come una pericolosa minaccia per la democrazia sostanziale. Ed è assai grave, oltre che sintomo di una preoccupante ‘resa’ degli intellettuali, che non vi sia alcun dibattito in merito.