Ossi di seppia è il titolo della prima raccolta poetica di Eugenio Montale, pubblicata nel 1925 da Piero Gobetti e in cui vengono anticipati tanti temi e motivi che verranno ripresi anche successivamente. Lo stesso poeta ligure, particolarmente affezionato a questi suoi componimenti, affermava che, se qualcuno avesse voluto leggere anche solo una delle sue opere, gli avrebbe consigliato questa. Del resto, anche la sua musa ispiratrice, Irma Brandeis in arte “Clizia”, negli anni Trenta arrivò a Firenze proprio con il proposito di conoscere “il poeta degli Ossi di seppia”, quasi a conferma della centralità di quest’opera nella copiosa produzione letteraria montaliana.

Molti critici letterari sostengono che gli Ossi di seppia nascano come risposta a uno dei principali libri di poesia dannunziani, l’Alcyone, pubblicato una ventina di anni prima della raccolta poetica montaliana (nel 1903, per l’esattezza). L’ambientazione e il periodo dell’anno in cui sono contestualizzate le due raccolte poetiche sono le stesse: estate, in un ambiente marino. Del resto, anche il titolo, Ossi di seppia, è un’immagine marina che rinvia chiaramente all’Alcyone dannunziano: in questo caso, rappresenta il simbolo della felicità naturale, dato che l’osso di seppia galleggia sulle acque del mare, abbandonandosi al flusso delle correnti. Le somiglianze, se così possiamo chiamarle, finiscono però qua.

Quella dell’Alcyone è infatti una natura lussureggiante, fuori dalla storia e innalzata attraverso il mito classico. Il poeta, che si muove in questo contesto, è un soggetto privilegiato che entra in una vera e propria fusione panica con essa. La poesia di Montale prende decisamente le distanze dal panismo dannunziano: ed è proprio in questa presa di distanza che si concretizza quel bisogno di “attraversare D’Annunzio” che fu comune a tanti poeti italiani di inizio Novecento.

Del resto, questa espressione, “l’attraversamento dannunziano”, fu coniata dallo stesso Montale riferendosi a Guido Gozzano, poeta appartenente alla corrente dei Crepuscolari. Parlando di Gozzano, che peraltro stimava molto considerandolo uno dei pochi poeti italiani a lui contemporanei in grado di “far scoccare scintille”, cioè di produrre risultati originali da un attrito e da una disomogeneità, mettendo l’uno accanto all’altro stili e registri differenti, disse:

Naturalmente dannunziano, ancor più naturalmente disgustato dal dannunzianesimo, egli fu il primo dei poeti del Novecento che riuscisse (com’era necessario e come probabilmente lo fu anche dopo di lui) ad attraversare D’Annunzio per approdare ad un territorio tutto suo.

D’Annunzio, quindi, come presenza da cui non si può prescindere ma da cui, nello stesso tempo, si sente l’esigenza di distaccarsi, per dar vita a qualcosa di nuovo. Il modello “istituzionale” e del superuomo, che con la sua vita “eccezionale” e le sue imprese eclatanti domina la vita politica e culturale, e di cui D’Annunzio è appunto l’emblema, viene messo completamente in discussione da tantissimi poeti italiani di inizio Novecento, tra cui i crepuscolari e il primo Montale, quello degli Ossi di seppia.

In lui, “l’attraversamento” di D’Annunzio, diventa, a tutti gli effetti, il superamento dello stesso. Se infatti è innegabile che vengano ripresi alcuni temi dannunziani, è altrettanto evidente come questi vengano portati avanti in maniera del tutto diversa. Gli Ossi di seppia sono stati definiti una sorta di “romanzo di formazione in poesia”, che racconta il passaggio dal mare alla terra. Il mare, in questo sistema di simbolismi, è visto come il luogo dell’indifferenziato e dell’indistinto, dell’appartenenza alla natura e della felicità. Siamo però lontanissimi dal panismo dannunziano: ed infatti, dall’ambiente marino si passa a quello terreno, che è invece è visto come lo spazio della privazione, del sacrificio e della maturità.

Con questo, non bisogna pensare che non ci sia spazio per la salvezza: anche nella dimensione terrena, infatti, ci può essere spazio per dei momenti di salvezza, le “epifanie”, che soprattutto nella fase successiva della poesia di Montale saranno identificate con le figure femminili (come la già citata Irma Brandeis, che nella trasposizione poetica sarà chiamata “Clizia”). Questi rimangono, comunque, dei momenti sporadici: per il resto, prevale una dimensione di distacco e di marginalità rispetto alla realtà in cui ci si ritrova a vivere. Il soggetto è distante dall’interventismo e dal protagonismo dannunziani: accetta invece completamente di rimanere in una posizione passiva in cui, più che agire, si lascia colpire dalle diverse sensazioni.

Il poeta, conseguentemente, è ben lontano dal volere farsi portavoce della verità assoluta: in questo senso, I limoni e Non chiederci la parola sono poesie emblematiche tra quelle degli Ossi di seppia, con la netta presa di distanza dai “poeti laureati” (in primis D’Annunzio, ma anche Pascoli e Carducci), cioè da quei poeti che avevano fatto scuola e costituivano un indiscusso punto di riferimento. Alla poesia sublime coltivata dai “poeti laureati”, Montale contrappone una poesia molto più umile e discreta, radicata alla realtà e che parli solo quando si sente veramente “l’urgenza di dire”. A questo proposito, si possono citare le parole dello stesso Montale, tratte dall’Intervista immaginaria, un documento in cui parla di sé e dei suoi scritti, e così si riferisce proprio agli Ossi di seppia:

Ero consapevole che la poesia non può macinare a vuoto… un poeta non deve sciuparsi la voce solfeggiando troppo... non bisogna scrivere una serie di poesie là dove una sola esaurisce una situazione psicologicamente determinata, un'occasione. In questo senso è prodigioso l'insegnamento di Foscolo, un poeta che non s'è ripetuto mai.

Prevale, quindi, l’esigenza di non ripetersi, di tenersi ben lontani da un’eloquenza vuota e spesso priva di agganci concreti con la realtà e con le complicate situazioni che l’uomo si trova quotidianamente ad affrontare; non a caso, sempre in riferimento agli Ossi di seppia, Montale parla proprio di una “controeloquenza”:

Scrivendo il mio primo libro ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto... All'eloquenza della nostra vecchia lingua aulica volevo torcere il collo, magari a rischio di una controeloquenza.

“Torcere il collo all’eloquenza”: ecco, quindi, che è perfettamente avvenuto non solo “l’attraversamento dannunziano”, ma anche il suo completo superamento. All’accettazione passiva e superficiale della realtà, propria dell’uomo sicuro e che preferisce farsi poche domande (il “superuomo” dannunziano), Montale contrappone la consapevolezza di una realtà spesso ostile, in cui molte volte non ci si riconosce e di cui la poesia deve farsi espressione.

Un nuovo modo di sentire e di vedere la vita, che è già un punto di partenza per costruire qualcosa di nuovo e di autentico, come ha fatto Montale con tutta la sua produzione letteraria. E mi sembra giusto concludere citando le parole dello stesso Montale, tratte da Auto da fè, un saggio del 1966, su questa volontà di lasciarsi alle spalle esperienze concluse (come è il caso di quella dannunziana) per costruire qualcosa di nuovo:

La vita deve essere vissuta, non pensata, perchè la vita pensata nega se stessa e si mostra come un guscio vuoto. Bisogna mettere qualcosa dentro questo guscio, non importa che cosa.