Perché il lontano non è poi così lontano.
Quando sono arrivato in questo nuovo futuro ho capito che il passato di queste terre è ancora troppo vicino per non essere notato.

(Andrea Segre)

Il Kazakhstan, questa meraviglia, terra di immense steppe e di luci folgoranti, di colori sgargianti e di sapori intensi, di tradizioni millenarie e di modernità galoppante, di cultura multietnica e di energia crescente, di passato, di presente e di futuro. Un mondo fatto di cordialità, ospitalità, pace, tolleranza, coesistenza, dialogo, integrazione.

Voglio quindi andare fuori rotta, insieme ad Andrea Segre, nel ripercorrere il suo viaggio in un Paese raccontato in un documentario, I sogni del Lago Salato, girato nel 2014, qualche tempo fa, ma sempre attuale e che vi voglio far (ri)scoprire. Un’esperienza, come dice il regista che ho incontrato a Roma tempo addietro, che ripercorre storie di vita che si trovano immerse in un boom che fa ritrovare un’altra Italia, avere uno sguardo differente su di essa, una storia di un profondo legame fra il nostro Paese e una zona di giacimenti petroliferi dove ci sono tanti italiani che lavorano, dove la loro lingua e le loro tradizioni sono ben conosciute, dove proprio l’investimento di questi ultimi resta un fattore importante di crescita e sviluppo. Un incontro tra epoche. E tra Uomini. Oggi, in tempo di pandemia, dove tutto è stravolto e rivoltato, dove manca ogni punto fermo, questo contatto manca. E ci servirebbe tanto ritrovarlo.

Viaggiare fuori rotta, per Andrea Segre, non significa andare dall’altra parte del mondo, conoscere l’altro non significa fare il viaggio esotico e lontano alla Chatwin, anzi è l’opposto, si tratta di intraprendere un viaggio che porta lì dove c’è poco di esotico, dove spesso c’è molto di contraddittorio e importante per capire quello che finora non si è capito. La mèta può anche essere dietro casa, soprattutto in un momento storico come quello attuale dove tanti viaggiatori “non autorizzati” passano per le nostre terre e noi possiamo cercare di capire qualcosa in più solo incontrandoli. Parlando, dialogando, ascoltando, capendo, confrontandoci, uscendo dal cortile, trovando le altre dimensioni, altre rispetto all’unico che si riproduce pedissequo e noioso nelle sviluppate terre conformi. Si tratta di ridare valore e significato al viaggio, di conferire nuova dignità al diritto al viaggio, cruciale per comprendere dove stia andando il mondo, per raccontare qualcosa di ascoltabile e magari non vendibile. Aldilà dell’ordine prestabilito.

Bisogna riformulare il concetto di viaggio, oggi maltrattato, abusato, calpestato, confuso, perso nell’omologazione degli alberghi tutti uguali e dei posti tutti simili. Percorriamo il mondo (o meglio, percorrevamo quando si poteva viaggiare liberamente…), ormai, con gli stessi abiti, gli stessi zaini, le stesse scarpe, ci sediamo su poltrone fai da te uscite dalle stesse marche di store familiari uniformi e uniformanti, accarezziamo le stesse piante di plastica che hanno perso ogni naturalità. Non c’è più originalità, voglia di esplorare e conoscere davvero l’altro fuori da schemi precostituiti e percorsi già tracciati. Il viaggio è preconfezionato, premasticato, standardizzato, già pensato e organizzato da altri, talora lo si cerca per necessità di trovare una via di fuga che diventa solo fittizia proprio per quell’essere tutto uguale che ormai snerva, sminuisce, sconvolge e avvolge. Il mondo si sta polarizzando tra globalizzazione delle merci, dei consumi, della comunicazione e difficoltà d’interazione tra le persone. Così come per molte persone di Paesi poveri è difficile viaggiare, anche per coloro che vivono in Paesi più ricchi è spesso difficile viaggiare per conoscere davvero le persone, proprio perché ci si muove in luoghi sempre più omologati, protetti, sicuri, da un aeroporto all’altro, con la difficoltà di conoscere davvero le realtà. Il treno non è più quello di una volta, si prende poco e di fretta. Si dovrebbe quindi “viandare” un po’ di più, intraprendere un viaggio, che non evita ma vuole, solo quando si è capito cosa si va a cercare, pur non sapendo cosa si troverà. Questa ricerca la si fa anche portando dietro il proprio linguaggio e le proprie abitudini. Il viaggiatore parte con un proprio linguaggio e trasferisce quello che incontra utilizzando proprio quel linguaggio. Mediando comprendendo. Sapendo che non esiste itinerario consigliabile, si deve partire da conoscenza e opinione, dare luce a mondi esclusi destinati a vivere nell’ombra, trovare un angolo di buio da cui osservare, un vuoto lontano da bagliori luminosi e incandescenti, contare e raccontare le stelle nitide e bianche come perle nel cielo.

Per questo Segre ha lanciato un progetto di riflessione, per questo, per primo, racconta. Fuori rotta non è perdersi, è andare fuori dalla normalità della rotta quotidiana che dà il proprio punto di vista ordinario, sperimentare la conoscenza dell’altro, contaminare i punti di vista. E se, come avrebbe detto Friedrich Nietzsche “tutti i più grandi pensieri sono concepiti mentre si cammina”, ecco allora che Andrea Segre e compagni (il fotografo Simone Falso e il cineoperatore Matteo Calore) lasciano l'Italia e si avventurano proprio nel primo viaggio fuori rotta, su binari nuovi e altri: è il 18 ottobre 2014, la prima tappa del passaggio in Kazakhstan che terminerà il 10 novembre. Con un’idea chiara in testa: la possibilità di riflettere su quello che succede in Italia partendo dalla consapevolezza che quel Paese sta conoscendo un boom economico proprio anche grazie alla presenza dell’Italia. Sembra un luogo lontano, di cui si sa poco o nulla, ma che, in realtà, è molto collegato a quello che stiamo vivendo ora. Si tratta quindi di un viaggio che vuole “raccontare storie e non solo viverci accanto”, storie che diano sapore e valore a un vivere ricco e non ipocrita, portando collaborazione (e non donazione), scambio (e non aiuto), tempo e conoscenza (e non velocità e ansia di successo). Un racconto che parte da uno spazio in cui “le stelle si fanno più fitte e l’occhio si emoziona a distinguerle”, inizialmente fatto di curiosità antropologico-estetica, di fotografie, di appunti, riflessioni, note e diari di viaggio poi diventato equilibrato documentario, quel I sogni del Lago Salato finalista ai Nastri d’Argento e presentato al Festival di Locarno, nel 2015. Un’avventura dove ogni passo lascia un solco e riscopre un indizio perduto. E sulle tracce del passato sovietico ormai cancellate dalla globalizzazione recente che ha attirato nelle grandi steppe orientali le più importanti compagnie multinazionali ad estrarre minerali e petrolio.

Nell'area soggetto della ricerca socio-cinematografica si concentra la maggior parte dell'attività industriali di un’importante azienda nazionale che in queste zone ha portato lavoro, ma anche la lingua e le tradizioni italiane innestate su quelle delle popolazioni locali. “Il viaggio nei paesaggi kazaki e nelle storie di chi li popola non sarà quindi solo un’opportunità di conoscenza inedita verso gli orizzonti delle steppe euro-asiatiche, ma offrirà anche spunti per una nuova prospettiva sulla storia dello sviluppo industriale italiano, attraverso una sorta di specchio capovolto”, dice Segre. C’è un grande legame fra i nostri Paesi, ci sono l’entusiasmo di allora (che è quello della generazione dei nostri genitori), la bellezza e gli spazi di quei territori (che ricordano le esperienze di Sylvain Tesson nel suo Elogio dell’energia vagabonda), la forza delle popolazioni che decidono di stare a margine e quelle che invece no, vogliono cavalcare l’onda del boom economico, lo sviluppo e cosa esso porti, con i suoi pro e i suoi contro, i sogni dell’umanità. Ci sono gli spazi sterminati, i colori che avvolgono ogni pensiero, le nuvole, il vento, le attese di 30 ore fermi su una nave nel salato Mar Caspio (l’antico mare Ircanio di Plinio il Vecchio), quelle attese cui nessuno è più abituato, cui nessuno sa più resistere, l’indifferenza verso un isterismo collettivo che non sa tollerare cinque minuti di ritardo di un treno, di un taxi o di un bus. Bello (saper) attendere, invece, qualcosa di inedito, di sorprendente, di nuovo, di calmo, semplicemente fermarsi a pensare di fronte alla bellezza di un paesaggio, o anche fermarsi a non pensare, essere capaci di stare nel nulla solo a guardare. I paesaggi kazakhi di questo documentario invitano anche a questo. Un percorso dell’energia, dall’energia, con energia, attraverso l’energia e verso l’energia, quella vera, quella interiore, forza e riserva che spesso danno anche irrequietezza. D’altra parte, ricorda Segre: “La steppa è così immensa che se ci entri dentro può diventare piccola, entrare nell’animo, insegnare agli occhi che non è sempre necessario volere qualcosa”.

L’intento di Segre è quello di narrare storie di vita, di ricordarci la similitudine fra il Kazakhstan di oggi e l’Italia del “miracolo” degli anni ’60, il boom economico, l’entusiasmo, la voglia di emergere, di fare e di costruire, di crescere, le speranze della giovinezza. L’Italia dei suoi genitori, veneti, quella dei nostri. Si tratta di un viaggio attraverso il senso della vita, cercando di capire come stanno i nostri avi oggi, quello di “interviste impossibili” a persone immerse nel progresso, come mi dice Andrea incontrato alla romana Casa del Cinema: “È come se intervistassi oggi i figli del sogno italiano di allora, quasi chiedessi loro e se non funzionasse? cosa succederebbe se quello sviluppo si interrompesse? Come se li interrogassi su cosa sono disposti a perdere per un futuro migliore e come il futuro possa davvero essere migliore, quasi instillassi loro un dubbio su quell’entusiasmo che, nella fretta della crescita, rischia di far perdere quello che del passato mantiene valore e andrebbe invece preservato”.

Partito da Baku, in Azerbaijan, il regista affronta un viaggio fra Aktau e Astana che si trasforma in un’esplorazione intima delle proprie radici, che sono quelle di molti di noi, creando un ponte sentimentale che collega le sponde del Caspio a quelle della laguna veneta, attraverso immagini di archivio, di quelli personali dei filmini in Super8 girati dalla madre del regista e di quelli di Eni. E se è meraviglioso comprendere come una vicenda personale faccia parte di un pezzo di storia collettiva, le immagini degli archivi aziendali raccontano una vera trasformazione sociale dell’Italia e permettono di non avere la memoria corta, di non appiattirsi sul presente, di capire cosa sta succedendo in un Paese immenso e incredibilmente vuoto, raccontare un mondo in evoluzione, magari attendendo un’alba che non arriva, come in una scena di Ecce Bombo di Nanni Moretti, inserita nel documentario, una memoria che affiora su una spiaggia deserta. Un ambiente che ispira e che interagisce con il profondo dell’anima e del ricordo. Ci si ferma di fronte alle luci scintillanti della moderna neo-capitale, si ascoltano le vite e i sogni di vecchi contadini o pastori oltre che di giovani belle donne le cui esistenze sono rivoluzionate dall’arrivo delle multinazionali petrolifere nel Paese. I loro racconti dialogano a distanza (che è solo temporale) con quelli di uomini e donne italiane che oltre 50 anni prima vissero simili emozioni, entusiasmo e speranze. Generazioni cui il petrolio stava regalando il tanto agognato benessere, nello sguardo felice e trasparente dei bimbi di Gela quando venne trovato quell’oro nero. Intimità calorose che si parlano, margini che si indeboliscono, dove è il viaggio a dettare la mèta. Steppe che sono crocevia e luogo di incontri.

Lo sguardo magnetico di un uomo kazakho che pare un po’ perplesso, quello, nella scena finale, dell’anziano Sozial, ultimo guardiano di un villaggio abbandonato sul Caspio, quasi parla a una coscienza che pensa alle conseguenze di aver cancellato qualcosa del passato che aveva valore. Non è semplice nostalgia ma riflessione sul fatto che forse ha senso preservare quel pezzo di vita, che forse si deve recuperare una relazione con il passato. Spesso si va via troppo in fretta.

Davanti a questo, non si vuole, tuttavia, dare o imporre alcuna visione allo spettatore, lo si lascia libero di riflettere e immaginare, di avere la sua idea personale sull’entusiasmo dello sviluppo. Perché il Kazakhstan rappresenta un pezzo di passato ma anche di futuro, momento di riflessione. E se “non è facile rimanere in un piccolo villaggio mentre tutto fuori diventa nuovo”, c’è chi decide di farlo e lo fa. Chi decide di salvare il cielo. “Globale e locale possono comunque essere i poli di un dialogo e non necessariamente di una fuga”. Chi va e chi resta. Oggi più che mai andare fuori rotta è quello che resta…

Andrea Segre ha realizzato importanti e riconosciuti film e documentari sui viaggi dei migranti (A Sud di Lampedusa, Come un uomo sulla terra, Mare chiuso), sui fatti di Rosarno (Il sangue verde), sul suo Veneto (Marghera Canale Nord, La mal’ombra), sulla crisi greca (Indebito, con Vinicio Capossela), sulle relazioni interculturali (Io sono Li e La prima neve). Nel libro Fuori rotta. Diari di viaggio, ha raccolto alcuni diari scritti durante dieci anni di viaggi, da Valona a Dakar, da Pristina ad Accra, da Sarajevo a Ouagadougou, da Tataouine a Baghdad. L’ultimo film di Segre è Welcome Venice, storia di due eredi di una famiglia di pescatori di Venezia si interrogano sul rapporto con la loro città.

La crescita genera sogni, ma poi li vincola. Ti obbliga a credere in lei. Devi solo sperare che non si fermi e non sai quanto male ti può fare.

(Andrea Segre)